Hoskins
Gli idioti che avrebbero dovuto pedinare Loren si sono già lasciati seminare. Hoskins non sa bene come sia potuto accadere: forse perché Loren è un tipo sfuggente e Denver è una grande città piena di nascondigli, o forse perché loro non si sono impegnati troppo, e perché Hoskins non è più una persona importante. Ha passato troppo tempo giù nel sotterraneo perché i colleghi siano ancora disposti a obbedire ai suoi ordini. Ormai è una barzelletta, e neanche troppo divertente.
«Andava troppo veloce» gli ha spiegato uno di loro in tono flemmatico. Il tono di uno a cui non gliene fregava niente. «Sembrava diretto in centrale, ma qui non c’è.»
«Controllate a casa sua» ribatte Hoskins. «Sulla Wynkoop c’è un bar dove va di solito. Ma perché cazzo devo essere io a dirvi come fare il vostro lavoro?»
Chiude la linea senza aspettare una risposta, perché se deve passare un altro minuto ad ascoltare le inutili chiacchiere di questi cretini finisce che gli girano i coglioni. La situazione gli sta sfuggendo di mano, sta precipitando nel caos, e lui non voleva neanche occuparsi del caso, gli è stato ordinato di farlo. Ha chiamato Ted, che gli ha confermato gli alibi di Loren nei giorni in cui ciascuna delle vittime è scomparsa, sicché Loren è scagionato. Non è Secondamano, ma ha decisamente qualcosa che non va nella testa. Hoskins ha sentito Black e gli ha spiegato le sue perplessità riguardo a Loren, dal fatto che si travesta da Seever al pedinamento di Sammie, a quest’ultima sparizione, ma il capo non sembra preoccupato, dice che Loren è fatto così, che da lui bisogna aspettarselo, ma che l’Assassino di Seconda Mano è ancora a piede libero, ragione per cui Hoskins dovrebbe concentrarsi su quello e non sulle marachelle del suo collega. E nel sentirsi rispondere così, Hoskins si è incazzato al punto che per poco non l’ha mandato affanculo, non ha restituito pistola e distintivo e mollato il mazzo. Era da un pezzo che non si imbufaliva tanto. Questa storia non dovrebbe essere un suo problema e invece adesso lo è, Loren è scomparso e c’è un ragazzo morto in un sacco nero e Sammie è furiosa perché sulla scena c’è un altro giornalista e Hoskins vorrebbe solo essere a casa a recuperare il sonno perduto portando suo padre all’ospedale. È stata una lunga giornata, così lunga che quando ripensa al mattino, a Joe che grida e singhiozza in preda al terrore, gli sembra che siano passate settimane, non solo dodici ore.
Si assicura che abbiano caricato il corpo di Jimmy Galen, poi risale al volante della sua auto e parte in direzione del distretto, ma per qualche motivo si ritrova davanti al caffè di Trixie, e invece di proseguire si ferma a guardare. Trixie è di turno, indossa un bikini giallo a pois come nella canzone e la sua pelle è liscia e abbronzata malgrado sia pieno inverno. Hoskins è passato ieri a prendere un caffè prima di andare al lavoro e ha visto il nuovo livido sulla sua spalla, sotto la spallina del reggiseno, come se qualcuno vi avesse conficcato le dita con forza. Troppa forza.
«Stai con qualcuno?» le ha chiesto, e lei si è immediatamente chiusa a riccio, con un’espressione che Hoskins aveva già visto su altre donne, donne che avevano paura degli uomini nella loro vita, che temevano costantemente di cadere in trappola.
«Sì» ha tagliato corto Trixie, e Hoskins ha capito che se avesse insistito gli avrebbe detto che il suo uomo era possessivo, ma lui sa cosa significa in codice, quando fai il poliziotto vedi di continuo cose simili, uomini convinti che le donne siano oggetti che appartengono a loro, come un’automobile o una banana. Seduto in macchina, Hoskins sente chiudersi gli occhi; è stanco, e immagina Trixie che torna a casa dal suo uomo, ma nella sua testa l’uomo è lui, e le affonda le dita nella spalla, le sferra un ceffone, la strozza, si ficca le sue dita in bocca e le morde fino a spezzare quelle sue ossa delicate.
Da dove cazzo arrivano questi pensieri?
Hoskins scende dall’auto, attraversa avanti e indietro il parcheggio e fa il giro del Walmart, la testa china per ripararsi dal vento. La camminata non lo sta aiutando come al solito; è ancora teso, si sente come se stesse masticando del vetro, e alla fine risale al volante e guarda Trixie servire i caffè e dare il resto e infilare le carte di credito nella macchinetta, finché si assopisce, la testa ciondoloni sul petto, il che non è una gran sorpresa perché è esausto, ha passato la notte in ospedale con suo padre e la mattina con Loren, si regge in piedi solo grazie a una combinazione di adrenalina e caffè, e ormai stanno entrambi per esaurirsi.
Ma i suoi sogni… Dio, i suoi sogni. In questo qualcuno lo sta masturbando, e se la cosa non è insolita (quasi tutti i suoi sogni hanno a che fare col sesso, fin da quando aveva tredici anni), nel caso specifico c’è qualcosa di strano. Poi abbassa gli occhi e capisce qual è il problema: a muoversi su e giù sul suo membro è il pugno di Seever, Seever che stringe una sigaretta tra i denti in quel suo strano, tipico modo, mordendola così forte che si possono vedere i segni sul filtro.
«Cazzo stai facendo?» gli chiede Hoskins, ma non lo spinge via. Il piacere è troppo intenso per desiderare che si interrompa, chiunque sia a procurarglielo.
«A te cosa sembra che stia facendo, cretino?» ringhia Seever sorridendo intorno alla sigaretta e spingendosi gli occhiali sul dorso del naso. «A volte mi chiedo se sei ritardato.»
«Dio» geme Hoskins, sta per venire, è vicinissimo, Seever lo sta manovrando con entrambe le mani, ce la sta mettendo tutta, ma all’improvviso lascia la presa, e il membro di Hoskins resta ritto e duro come una roccia, ed è spassoso il modo in cui ondeggia indignato.
«Sei uguale a me» dice Seever, scostandogli via le mani con uno schiaffo quando Hoskins cerca di finire il suo lavoro. «Una volta che cominci, è difficile smettere.»
«Cosa vuoi da me?» ribatte Hoskins quasi gridando. Gli basta un solo tocco e verrà, schizzando come un geyser. «Non siamo affatto uguali.»
E a quel punto si sveglia.
La prima cosa che vede è Trixie che gli passa davanti, diretta a un vecchio catorcio parcheggiato su un lato del piazzale. Lei non si accorge della sua presenza, e meno male, perché se si fosse avvicinata al finestrino e lo avesse visto bene in faccia, se avesse visto gli occhi infossati, il pallore malaticcio e l’erezione che rischia di sfondargli i pantaloni, sarebbe fuggita urlando. Invece non lo vede, si siede al volante della sua vecchia carretta, avvia il motore e dà gas. Il suono non è molto promettente, probabilmente il riscaldamento non funziona più e un giorno o l’altro l’auto esalerà l’ultimo respiro, ma cos’altro potrebbe permettersi col suo stipendio? Hoskins vorrebbe poterla aiutare.
«Aiutare?» La voce di Seever si fa udire da qualche recesso del suo cervello. «Ma certo che vorresti aiutarla. Aiutarla a piegarsi in avanti e darti il culo.»
«Sta’ zitto, sta’ zitto!» grida, calando una gran manata sul volante senza rendersi conto delle occhiate spaventate dei passanti. «Non rompermi i coglioni.»
Dovrebbe tornare a casa o al distretto, ma non riesce a smettere di pensare a Seever che lo spinge via, ma in realtà non era Seever, era Loren, giusto? È tutto così confuso nella sua testa, perfino la sua memoria sembra fare cilecca. Era Loren travestito da Seever, ed era Loren che seguiva Sammie, il che sembrava strano perché ai tempi era Seever che scopava con Sammie, ed è la voce di Seever quella che lui non riesce a scacciare dalla mente, sempre Seever, da sette anni quel bastardo è come la sua droga, la scimmia che gli bisbiglia i suoi osceni segreti all’orecchio anche quando lui non può sentirla.
«Non sono un mostro» dice Hoskins senza nemmeno rendersi conto di farlo, senza sapere a chi si sta rivolgendo. Sta pensando alla donna che ha ucciso la figlia, al piacere che ha provato nel sentirla urlare, sta pensando a Joe, a come si è azzittito dopo che lui l’ha colpito. Far male agli altri è sbagliato, lo sa fin dall’asilo, ma ormai sembra tutto diverso, i confini si sono fatti più confusi. «Ve lo farò vedere, che non sono un mostro.»
Accende i lampeggianti e si immette in strada. Stringe il volante fino ad affondare le unghie nel cuoio. Si accoda all’auto di Trixie.
Trixie abita in un palazzo che in una grande città verrebbe definito casa popolare, ma che qui, nel bel mezzo di Denver, con la vista sulle montagne e una schifezza di parco nei paraggi, viene chiamato “urbano emergente”, come se un bel giorno potesse improvvisamente migliorare. È un edificio di sei piani, e tutti gli appartamenti si affacciano sui lunghi corridoi che lo percorrono, puzzolenti di piedi, di piscio e di curry. Hoskins osserva Trixie mentre scende dall’auto ed entra nel palazzo e la segue restando vicino ma senza esagerare, perché se la perdesse di vista in questo dedalo di porte non la ritroverebbe più. Ma Trixie abita al pianterreno, e lui la vede aprire la porta dell’appartamento 15A ed entrare, e non sente lo scatto rivelatore di una serratura che viene richiusa. Qualcosa gli dice di attendere, di non fare irruzione subito, e così prosegue lungo il corridoio a passo rilassato e con le mani in tasca, come se fosse di casa. Incrocia qualche altro inquilino, ma nessuno lo guarda male o fa domande: è una delle cose positive di posti come questo, forse l’unica.
Dopo una quindicina di minuti torna davanti all’appartamento di Trixie e ruota la maniglia. Apre la porta senza alcuna resistenza ed entra. Si trattiene solo pochi minuti e accade tutto in silenzio, a eccezione di un grido, un grido di donna, e quando se ne va si richiude delicatamente la porta alle spalle. C’è del sangue sulle sue mani, non molto ma abbastanza, e non è il suo.