Gloria
Nel giardino sul retro c’è un pesco, piccolo e rachitico. Non dà mai frutti, perché a Denver non c’è il clima adatto: le estati sono troppo brevi e mai abbastanza calde, gli inverni troppo freddi. Il suolo è sabbioso e pieno di sassi. A volte Gloria si chiede chi lo abbia piantato, quell’albero, quale fiducioso individuo abbia sfogliato il catalogo di Burpee, facendo scorrere il dito sulle pagine lucide e fermandosi proprio su un pesco, immaginando già il sapore dei suoi frutti, il succo che esplodeva dalla polpa al primo morso e colava lungo il braccio fino al gomito. Poi l’albero era stato ritirato nella sua cassetta marrone, le radici avvolte in un sacco di iuta, e piantato in giardino, nell’angolo più soleggiato; ma di anno in anno era cresciuto solo di pochi centimetri, deformandosi e ingobbendosi come un vecchio, e sui rami scheletrici non era mai sbocciato più nulla. E adesso è ancora lì, appena fuori dalla finestra della sala da pranzo, scosso dal vento. Gloria ha pensato di farlo abbattere, sgombrare l’angolo e far posare un patio di cemento dove mettere qualche bel mobile da giardino per l’estate, ma non si decide mai. Non che abbia troppo da fare; semplicemente se ne dimentica, non ci pensa più finché non arriva una giornata come questa, con il freddo che penetra dalle incrinature intorno alle finestre e le cime delle montagne incappucciate di neve.
Abita in questa casa da sette anni, aggirandovisi silenziosa come un topo nella speranza che i vicini non la riconoscano, che non stabiliscano il collegamento, e finora ha avuto fortuna. Sarebbe più semplice trasferirsi in un’altra città, dove Jacky sarebbe stato poco più di una delle tante notizie al telegiornale della sera, una città i cui abitanti non l’avrebbero accusata di essere una specie di strega, e ci aveva anche provato, dopo la condanna di Jacky aveva preso una casetta in affitto in California, era partita seguendo il camion dei traslochi come in una piccola carovana, aveva superato le montagne, attraversato il deserto e si era ritrovata in una parte della California talmente verde da far male agli occhi. La casa che aveva preso in affitto aveva una piscina a forma di rene sul retro, e il recinto era ricoperto da un rampicante che faceva grandi nuvole di fiori rosa. Era tutto molto pittoresco e normale, e nessuno la riconosceva; nessuno parlava mai di Jacky, nonostante i giornali a volte ancora citassero il suo caso, che era conosciuto a livello nazionale, ma faceva un altro effetto lì, lontana da Denver, in uno stato che in ogni caso aveva già i suoi di problemi, i suoi casi e i suoi scandali.
In fondo alla strada dove abitava c’era una scuola elementare, e di pomeriggio Gloria passeggiava lentamente al di là del recinto di rete metallica e guardava i bambini che giocavano gridando, saltellando qua e là, bisticciando. Le loro grida le davano l’emicrania, ma lei restava lì lo stesso perché quel posto la faceva pensare a Jacky, a cui i bambini erano sempre piaciuti così tanto, specialmente i neonati, mentre lei non aveva mai avuto alcuna predisposizione. Gloria ricorda ancora l’anno in cui Jacky si era vestito da Babbo Natale e aveva fatto il giro delle loro tavole calde con sacchi colmi di giocattoli, ricorda come i piccoli strillavano nel vederlo, a volte di terrore, ma non volevano comunque saperne di andarsene. Lei l’aveva seguito, vestita da moglie di Babbo Natale, ma solo perché Jacky aveva insistito, e quando lui si metteva in testa un’idea non c’era modo di dissuaderlo. Più tardi a casa, mentre Jacky sotto la doccia stonava i canti natalizi, Gloria aveva guardato le manciate di Polaroid che i genitori dei bambini non avevano preso e si era resa conto che mentre Jacky sorrideva come un ragazzino in ogni singola immagine, lei teneva le labbra così strette che sembrava stesse succhiando aria da una cannuccia invisibile. Ma era proprio quella la differenza tra loro. Jacky cercava di essere sempre Mister Divertimento, voleva sempre rendere tutti felici. Non che lei non lo volesse, ma non aveva l’entusiasmo di suo marito.
Era in California solo da cinque settimane quando aveva deciso di tornare a Denver. La California era troppo. Troppo di tutto. I negozi erano sempre troppo affollati, le code ai benzinai sempre troppo lunghe. Il sole era troppo luminoso. Faceva troppo caldo, ed era uno spreco, perché metà del suo guardaroba era invernale. E da qualsiasi parte si girasse c’era sempre una quantità di gente, uomini che gridavano in spagnolo e donnine con capelli neri e occhi a mandorla, e un’abbondanza di neri, più di quanti ne avesse mai visti, che giocavano a basket in strada, si intrecciavano i capelli a vicenda e ridevano, grasse, sonore risate che echeggiavano dai muri e tornavano a colpirle le orecchie. Nella villetta di fronte alla sua viveva una coppia gay, due uomini di colore che erano molto gentili, ma con cui Gloria non riusciva neanche a parlare del tempo senza immaginare quello che facevano a letto, come si soddisfacevano a vicenda, ragione per cui cercava di fare attenzione ogni volta che usciva di casa per non essere bloccata in una lunga conversazione davanti alla cassetta della posta.
E poi, Denver era casa sua. Vi era nata e cresciuta. Non si era resa conto che un luogo poteva diventare parte di una persona finché non si era ritrovata in California, dove ogni cosa sembrava leggermente fuori posto, non perfettamente allineata, e questo bastava a farla star male.
E poi la verità era che desiderava ancora essere vicina a Jacky.
E così era tornata. Aveva preso casa nel quartiere di Whittier, dove avrebbe potuto resistere più a lungo con i soldi lasciati da sua madre. Era una zona i cui abitanti badavano poco a chi eri a patto che non causassi problemi, dove la gente sembrava farsi ancora i fatti propri. Non era lontana da uno dei loro ristoranti, il primo che aveva aperto suo padre, anche se il locale non apparteneva più a loro e nemmeno a lei, ed era stato venduto da un pezzo per pagare gli avvocati e le spese legali e tutto il resto che il sistema giudiziario si era inventato. Gloria esce di rado, e se può cerca di non passare davanti alle tavole calde. Non vuole vedere quello che un tempo era suo e non lo sarà mai più. E così resta in casa e osserva il pesco che lotta per sopravvivere al freddo.
Una volta alla settimana va a trovare Jacky. Alle visite è dedicata solo una parte del mercoledì mattina, e Gloria si deve alzare presto per arrivare in tempo al penitenziario. Il viaggio è lungo. Per un po’ ha provato ad ascoltare audiolibri mentre guidava, ma si sorprendeva sempre a vagare col pensiero e arrivava a metà libro senza avere la minima idea di cos’era successo. È passata alla musica, di qualsiasi tipo, e infine al silenzio, rotto solo dal fischio del vento mentre la sua auto sfreccia sull’autostrada.
«Come fai a volergli ancora bene?» le aveva chiesto un’amica poco dopo l’arresto. Gloria era andata a stare da sua madre quando avevano abbattuto casa loro, nel minuscolo appartamento in affitto in cui abitava dalla morte di suo padre. «Non sei più costretta ad avere a che fare con lui. Puoi chiedere il divorzio.»
«Non ne voglio parlare» aveva risposto lei. Era stufa di quelle telefonate, stufa di ricevere istruzioni da donne che la conoscevano appena. Andava in chiesa con loro, facevano la spesa insieme o si scambiavano ricette e pettegolezzi, ma non la conoscevano, e di sicuro non capivano il suo matrimonio.
«È un mostro, Gloria. Avrebbe potuto ucciderti nel sonno. Ci hai mai pensato?»
Gloria aveva riattaccato. Quando il telefono aveva ripreso a squillare, l’aveva ignorato. Aveva spento la segreteria, e dopo un po’ chiunque provasse a chiamarla si stancava di sentire l’eterno segnale di libero e riagganciava.
«Gradirei un tè» soleva dire sua madre dalla poltrona che non lasciava quasi mai. Quasi un anno dopo, Gloria l’avrebbe trovata seduta su quella stessa poltrona, la testa stranamente inclinata da una parte e la bocca contratta in una smorfia crudele, uccisa da un’ischemia nel corso della notte. Non aveva mai detto una parola su Jacky dal giorno dell’arresto, non le aveva chiesto niente né cercato di parlarne, e Gloria pensava che facesse così perché capiva. Lei stessa era sposata da cinquantadue anni alla morte del marito, e probabilmente si era fatta una discreta idea di quello che Gloria stava passando perché suo padre era stato un uomo difficile; sapeva essere tremendamente cattivo, ma quando eri sposata il tuo lavoro era far funzionare le cose, accettare e fare del tuo meglio con quello che ti era stato dato. Come quella vecchia canzone country, Stand by your man, resta al fianco del tuo uomo; ormai non era più come una volta, la gente si arrendeva e chiedeva il divorzio alle prime difficoltà, ma Gloria non era stata cresciuta così, aveva fatto una promessa e l’avrebbe mantenuta.
«Le zucche sono in offerta» dice Gloria. «Domani devo ripassare a prenderle prima che finiscano.»
«Ah sì?»
«Sono davvero un affare.» Si ferma a riflettere per un istante. «La scorsa settimana sono arrivati degli studenti nella casa di fronte. Danno festini ogni sera, non riesco più a dormire.»
«Perché non chiami la polizia?»
Fa una smorfia, tira un filo che pende dall’orlo della gonna.
«Non è così grave» dice. Naturalmente Jacky ignora che qualche mese fa qualcuno le è penetrato in casa e ha rubato tutti gli oggetti di valore. La televisione, il telefono, perfino la radiosveglia. E i quadri che Jacky faceva in prigione, e che lei portava a casa ogni settimana e impilava nel garage: li avevano rubati quasi tutti. Gloria ha denunciato il furto, e i due poliziotti che si sono presentati le hanno riso in faccia nel riconoscerla e se ne sono andati senza prendere un appunto, senza prenderla sul serio, e lei ha capito che non avrebbe più rivisto le sue cose. «Sono sicura che la polizia ha problemi più importanti delle mie sciocche lamentele.»
È questo che succede ogni mercoledì con Jacky: un’ora di noiose conversazioni sul niente. Sulla spesa del giorno prima al supermercato, sui programmi televisivi che guardano entrambi. Lui le descrive il menu della settimana in mensa, le racconta del detenuto due celle più in là che la settimana prima ha avuto un attacco di cuore e non è ancora rientrato dall’ospedale. Sono esattamente le cose che si direbbero se Jacky non fosse in carcere, le banali conversazioni di un matrimonio, una settimana di chiacchiere compresse in sessanta minuti trascorsi al telefono a guardarsi attraverso un vetro antiproiettile. È l’unico modo in cui si può visitare Jacky, perché è considerato pericoloso: le guardie pensano che se ne avesse la possibilità potrebbe aggredirla, e gli riservano attenzioni speciali.
Gloria porta ancora la fede matrimoniale, ma Jacky non può.
«Sei passata da uno qualsiasi dei ristoranti?» le chiede. Glielo domanda ogni settimana, ma Gloria lo capisce. Erano stati così a lungo una parte predominante della sua vita (possedere e gestire una mezza dozzina di ristoranti di successo non era cosa da poco), e per questo motivo di solito cerca di rispondere con delicatezza. Oggi decide di ignorare la domanda, finge di non averlo sentito. «Sono puliti? I menu sono cambiati?»
«Hai dipinto questa settimana?» gli chiede. Jacky batte le palpebre in silenzio. È sempre stato lui il più loquace dei due, quello che conduceva la conversazione. Anni prima, quando uscivano a cena e magari incontravano un’altra coppia o qualcun altro, dopo le presentazioni Gloria si defilava in silenzio. Ma le cose sono cambiate, ora è lei a pilotare la nave, passando da un argomento all’altro, facendo domande, spingendolo a parlare. Jacky soffre di una grave depressione, dice il medico del carcere. Ha problemi di cuore e di peso. Assume una quantità di farmaci che cambiano di continuo, e a volte è stordito e annebbiato. Confuso. Molto spesso Gloria deve prendere in mano la situazione per evitare che lui se ne stia lì come un bietolone o ripeta sempre le stesse cose. «C’è un pacco per me all’uscita?»
«Sì» dice Jacky.
«Quanti ne hai fatti, questa settimana?»
«Quattro.» Ha un’esitazione. «Ho bisogno di colori.»
«Quali?»
«Rosso, più che altro.»
La pittura era cominciata come una sorta di terapia, poiché Jacky aveva bisogno di fare qualcosa dietro le sbarre, non era un lettore e non era mai stato portato per la ginnastica. E così Gloria gli aveva comprato carboncini, carta, tempere e spugne (i pennelli erano proibiti, erano troppo appuntiti e potevano essere usati come armi); temeva che sarebbe stato un completo fallimento, ma valeva la pena di provarci, perché Jacky non stava affatto bene, anzi stava proprio male. Per i suoi primi sei mesi di detenzione Gloria aveva vissuto nel terrore di ricevere una chiamata da Sterling con la notizia che Jacky si era impiccato o annegato nel gabinetto. E forse sarebbe stato meglio così, c’era una quantità di gente che alla notizia della morte di Jacky Seever avrebbe ballato per strada e acceso fuochi d’artificio, ma Jacky era suo marito, e lei gli voleva bene. Si preoccupava ancora per lui, si sorprendeva ancora nel reparto uomo dei grandi magazzini in cerca di calze e canottiere malgrado lui non ne avesse più bisogno, poiché erano fornite dal carcere. Era una vecchia abitudine, ma il matrimonio era soprattutto questo. Abitudini.
«Rosso? E nero?»
«Non lo so. Forse.»
«Okay.»
Era stata un’idea come un’altra, quella della pittura, ma aveva funzionato, e Jacky si era rivelato addirittura bravo, aveva dimostrato di avere occhio. E c’era un mercato per le opere di uomini come lui, specialmente le più impressionanti, e Gloria aveva trovato un mercante d’arte specializzato in quel genere di cose, anche se gli cedeva un quadro alla volta, solo quando aveva bisogno di soldi, poiché venderli significava ammettere che Jacky era colpevole, dichiarare al mondo che era tutto vero, che aveva ucciso e gli era piaciuto farlo, che stava rivivendo tutto attraverso la sua arte e che a lei non faceva né caldo né freddo. I quadri erano terribili ma erano anche una manna, perché a un tratto Gloria aveva qualche soldo e non doveva più passare lunghe giornate a chiedersi come avrebbe fatto a sopravvivere una volta che l’eredità si fosse esaurita.
Aveva continuato a vendere i dipinti fino al giorno del furto; il mercante le telefona ancora di tanto in tanto per sapere se ha qualcosa di nuovo, ma lo fa sempre più di rado. La gente non è più interessata a Jacky; nel corso di questi sette anni è passata ad altro.
«Bisognerebbe che venisse ucciso qualcuno che ha avuto a che fare con suo marito» le ha detto un giorno il mercante, e lei ha addirittura riso, anche se poi il ricordo di quella risata le ha tolto il sonno per alcune notti. «Una cosa simile smuoverebbe il mercato e ci farebbe incassare bene.»
Era terribile, ma era anche vero, come lo sono spesso le cose terribili. La gente moriva ogni giorno, e se fosse accaduto a qualcuno che aveva avuto a che fare con Jacky… Era un pensiero orribile, ma avrebbe contribuito a vendere i quadri, anche quelli di fiori e montagne e zuppiere di frutta e chiazze di colore che erano tutto quello che Jacky sembrava ormai produrre. E così ogni settimana prima di lasciare la prigione Gloria si ferma ancora al banco dell’accettazione, dove il secondino con i dentoni finti la attende con le tele più recenti già impacchettate e pronte per essere caricate in macchina, e ha pensato di dirgli di gettarle, che non ha più spazio in casa, ma non lo fa mai. Le prende ogni volta. Un’altra vecchia abitudine dura a morire.
Dopo la visita a Jacky torna dritta a casa senza passare dal supermercato per le zucche (non se la sente, le bruciano gli occhi e le fanno male le gambe) e al suo arrivo scarta il pacco dei dipinti. Altri paesaggi. Piatte distese grigie e cieli vorticosi e pieni di colori. Arancioni e rossi mescolati tra loro a creare un effetto delirante. Probabilmente è la vista dalla finestra della cella di Jacky, pensa Gloria. la piccola fetta di mondo reale che riesce a vedere.
Le tele finiscono accatastate in garage, e lì restano a fare polvere.
«Lei è quella donna, la Seever.» È il mattino dopo e Gloria si è recata al supermercato anche se non è la sua solita giornata, ma cos’altro ha da fare? Sta controllando le zucche, prendendole in mano, picchiettandole e annusandole. Non sa come distinguere quelle mature, non è neanche sicura che abbia importanza, e la donna la affronta decisa, prendendola di sorpresa. È giovane e insignificante, per niente graziosa, con occhi cerchiati di nero e le spalle della maglia macchiate di vomito di neonato. «Gloria, giusto?»
«Sì» risponde Gloria prima di avere la prontezza di spirito di negarlo. L’avvocato di Jacky le aveva suggerito di cambiare nome, ma lei non l’ha mai fatto, e dopo un po’ le era parsa una sciocchezza.
«Come ha potuto farlo?» chiede la donna, e Gloria sa benissimo a cosa si riferisce, perché è una domanda che le hanno già fatto. Una quantità innumerevole di volte nel corso degli anni.
«Io non ho fatto niente» si affretta a ribattere. È la stessa risposta di sempre, quella che dà a tutti. «Non sapevo niente.»
«Lei è colpevole quanto lui» dice la donna, e il suo bambino comincia a frignare dal sedile del carrello, sbarrando gli occhi vitrei e mulinando le braccia. «Dovrebbe essere giustiziata insieme a lui. Se lo meriterebbe.»
Il bambino strilla e scaraventa a terra il biberon, facendolo rotolare via sul pavimento. Gloria lo rincorre, sentendosi avvampare in volto. Non è una novità, ha già subito attacchi simili, ne ha sentite di tutti i colori. Ma non ci si abitua mai. Nemmeno in un milione di anni.
«Ecco, il suo bambino l’ha fatto cadere» dice porgendo il biberon alla giovane madre, ma questa si ritrae inorridita, come se Gloria si fosse defecata in mano e le stesse offrendo in dono il risultato.
La donna si allontana in tutta fretta, lasciando Gloria con il biberon in mano, il latte che contiene ancora tiepido.
Quella sera si prepara una bistecca alla griglia, pur non amando la carne rossa e sapendo che passerà l’intera serata col bruciore di stomaco. Beve una birra, anche se avrebbe preferito un bicchiere di vino, e come dolce si concede una ciotola di gelato. Lo fa perché è quello che avrebbe mangiato Jacky.
A letto dorme ancora sul lato sinistro. Sotto il lavandino del bagno continua a tenere tre rotoli di riserva di carta igienica a formare una piccola piramide, perché così piaceva a Jacky. Non c’è una sola componente del suo mondo che non continui a ruotare intorno a lui. Dev’esserci stato un momento, nella sua vita, in cui Gloria era una persona indipendente, in cui la sua intera identità non si esauriva nel fatto di essere la moglie di Jacky Seever, ma non se ne ricorda. Non più. Perché non ha più un’esistenza che sia solo sua. Dopo l’arresto di Jacky le chiedevano tutti se sapesse, come facesse a non avere idea di cosa combinava suo marito, e la trattavano come se anche lei fosse colpevole di un crimine, anche se la sua unica colpa era l’ignoranza. Perché è questo che fa un matrimonio. Vincola due persone in eterno, fino alla morte e anche dopo.