18 maggio 2009
Carrie Simms, la ragazza che è riuscita a sfuggire a Seever, non vuole testimoniare al processo. È terribilmente magra e minuta, e ha una faccia da topo. Di norma è accomodante e disponibile, ma non su questo.
«Non riuscirei a stare nella stessa stanza con quell’uomo» dice. Negli ultimi mesi le sono cresciuti i capelli, e lei li usa per nascondere il volto, facendosi ricadere le punte davanti alla bocca tanto che sembra sempre che li stia masticando, come una ragazzina timida. «Ogni volta che vedo quel bastardo alla tele mi sento svenire.»
Carrie Simms si era presentata al distretto di polizia la terza settimana di dicembre, quando Hoskins si era già ampiamente stufato di guardare le decorazioni natalizie appese ovunque. Aveva trascorso la festa del Ringraziamento a osservare gli amici e i parenti di Seever al di là del grande bovindo, seduti a tavola e intenti a passarsi cestini di pane e vassoi di tacchino affettato. Se la stavano spassando, là dentro, comodi e allegri, ed erano queste situazioni che portavano Hoskins a odiare il suo lavoro, perché avrebbe dovuto avere le stesse cose, una moglie e dei figli, e invece non aveva un bel niente, la sua ex moglie se n’era andata perché lui era sempre troppo immerso nel lavoro e non era mai a casa. Alla fine di quella giornata era passato da suo padre, ma il vecchio si era addormentato davanti alla televisione, disteso sulla sua poltrona reclinabile con una lattina di birra infilata tra la coscia e il bracciolo. E quando si era svegliato, in un primo momento non aveva dato segno di riconoscere suo figlio; era teso e un po’ spaventato, il che aveva ulteriormente depresso Hoskins, perché quella era la sua vita, passare ore da solo a sorvegliare un sospetto e poi non essere riconosciuto da suo padre. Perfino Loren aveva una sua meta per le feste, anche se non voleva dire quale fosse.
Hoskins immaginava che sarebbe stato lo stesso anche a Natale. Avrebbe continuato a sorvegliare Seever da solo mentre il resto del mondo apriva regali o beveva eggnog, e stava pensando proprio a questo mentre guardava un ramoscello di agrifoglio che qualcuno aveva graffettato sul soffitto accanto alla sua scrivania. Stava per montare sulla sedia e strapparlo quando era arrivata la Simms con la sua storia. Sulle prime Hoskins non le aveva creduto. Carrie Simms aveva abbandonato il liceo e cominciato a drogarsi, più che altro metamfetamine, e aveva alle spalle qualche arresto per prostituzione e uno per aggressione. Nel 2005 aveva chiamato cinque volte la polizia dicendo di essere stata rapinata e provando a denunciare furti di televisori, stereo e altri articoli di lusso che non aveva mai posseduto. Aveva diciannove anni ma ne dimostrava quarantacinque, era una tossica sempre in cerca di una dose e diceva di essere andata con Seever perché era più che disposta a succhiare uccelli per denaro, cosa che gli aveva proposto. Era salita volentieri sulla sua BMV, e dopo qualche bicchierino di tequila, una riga di coca e una manciata di pillole aveva perso i sensi. Quando era rinvenuta era nuda e incaprettata, e l’uomo che al bar era stato così gentile era diventato un altro, e aveva una grossa sacca piena di attrezzi, cose che non puoi comprare nei negozi ma che trovi solo in quei cataloghi che ti arrivano a casa in buste di cellofan nero per evitare che il postino veda quanto sei depravato. Seever aveva grandi progetti per lei, saltellava quasi per l’eccitazione come un bambino a Natale. Erano passati giorni prima che lei fosse riuscita a fuggire, liberandosi dello spago intorno ai polsi. Ci era riuscita in parte perché Seever era stato pigro e non aveva più controllato i suoi nodi, ma soprattutto perché lei era magrissima. Era riuscita a liberarsi dei lacci ed era scappata senza pensare a dove andava o da dove veniva, o anche solo al fatto che indossava solo un paio di mutandine e una lacera canottiera.
«Perché non sei venuta subito da noi?» le aveva chiesto Hoskins. «Quando hai detto che è successo, quattro mesi fa? All’inizio di agosto? Perché hai aspettato tanto?»
«Non lo so» aveva risposto lei. Pochi minuti dopo l’inizio della loro conversazione aveva chiesto dei fogli bianchi e un evidenziatore, e mentre parlava non faceva che passare il pennarello su un foglio fino a colorarlo completamente di giallo, per poi passare al successivo. Le mancava il mignolo della mano destra, di cui era rimasto solo un moncherino mal cicatrizzato; diceva che gliel’aveva mozzato Seever, ma che non ricordava quando: era priva di sensi, a un certo punto si era svegliata e il dito non c’era più. In un primo momento loro non ci avevano creduto; sembrava l’ennesima fandonia, l’ennesima invenzione. Carrie Simms era sdentata, aveva la pelle coperta di croste tipica di chi si fa di metamfetamina e le braccia piene di buchi: su qualsiasi altra persona un mignolo mancante sarebbe stato un dettaglio allarmante, ma su di lei si notava a malapena. Hoskins non aveva creduto al racconto del dito mozzato da Seever finché non aveva visto gli altri corpi recuperati dal vespaio, le loro mani mutilate, alcuni dei moncherini ancora colanti pus, sangue e decomposizione. «Non avevo molta voglia di raccontare in giro che un tizio aveva passato due giorni a ficcarmi un vibratore nel culo e descrivermi la fossa che mi stava scavando sotto casa.»
Hoskins non le aveva creduto soprattutto perché Carrie Simms era la classica ragazza che gridava al lupo e li aveva già chiamati fin troppe volte. Era più a suo agio con le bugie che con la verità, come ormai succedeva a molti. La gente voleva essere coinvolta ma non troppo, voleva restare nell’anonimato senza agitare le acque, ma allo stesso tempo chiedeva giustizia. Per questo al distretto arrivavano così tante telefonate anonime. Volevano tutti una fetta della torta, ma senza che venisse fatto il loro nome. Ma Hoskins non era sicuro che la Simms stesse mentendo, e così aveva chiamato Loren, anche se il suo collega si era preso il fine settimana lungo per le feste.
«Sei stata tu a telefonarci dopo che è successo, vero?» aveva chiesto Loren alla Simms. Aveva inclinato la sedia all’indietro e socchiuso gli occhi, e sembrava quasi addormentato. Durante gli interrogatori Hoskins l’aveva visto furibondo e fuori di sé e l’aveva visto controllato e professionale, ma non l’aveva mai visto così. Sembrava quasi annoiato. «Sei stata tu a fare quella segnalazione anonima su Seever?»
Per la prima volta la Simms aveva posato l’evidenziatore. Poi aveva avvolto le dita della mano destra intorno al polso sinistro, come se fosse ammanettata.
«No.»
«Devi essere stata tu.»
«No, non vi ho mai chiamati.»
«E cosa ti ha fatto decidere di venire proprio adesso?» Hoskins le aveva fatto la stessa domanda e lei aveva risposto in modo rabbioso e sarcastico, ma con Loren aveva reagito diversamente. Era strano, poiché davanti a Loren provavano quasi tutti paura o disgusto, ma con lui Carrie Simms si sentiva più a suo agio.
«Non faccio altro che pensare a mordere» aveva mormorato. Teneva la testa bassa, il mento praticamente sul petto, e la si udiva a malapena. «Ho voglia di affondare i denti in qualcosa e far gridare qualcuno.»
L’avevano fatta salire sull’auto di Loren ed erano andati a casa di Seever, fermandosi a una certa distanza. Seever era uscito sul vialetto per raccogliere il giornale, e nel vederlo la Simms era rimasta senza fiato. Hoskins aveva finalmente creduto al suo racconto quando l’aveva vista strabuzzare gli occhi e premersi i pugni sulla bocca; temeva che stesse avendo un attacco epilettico, ma era solo terrorizzata, e stava cercando di non gridare.
Non c’erano elementi sufficienti ad arrestare Seever, ma ne avevano più di prima. Seever aveva un precedente per possesso di marijuana, e al giudice Vasquez Hoskins aveva detto che il motivo della perquisizione era la droga. Il giudice era al corrente della verità, glielo si leggeva in faccia, ma aveva emesso ugualmente il mandato: non per la ricerca di corpi sepolti, ma di marijuana.
Non avevano avuto bisogno d’altro.
È finita, dice il capo. Jonathan Black, il più grosso rompiballe per cui Hoskins abbia mai lavorato, non vuole sentire ragioni. Il caso Seever è chiuso.
È una questione di pubbliche relazioni, e Hoskins lo sa. Nonché di budget. Sono stati dietro a Seever così a lungo che è giunto il momento di passare ad altro. Esistono altri omicidi, altri crimini. Non possono continuare così.
È ora di mollare l’osso al pubblico, dice Black, ed è vero: il caso Seever non appartiene più a loro. Appartiene a tutti. Fuori dalla prigione in cui Seever attende il processo c’è una folla armata di cartelli fatti in casa, sedie pieghevoli e acqua in bottiglia, tanto che sembra quasi una festa; ma la celebrazione somiglia di più a un’orgia di odio, e la gente tradisce sorrisi idrofobi, bianchi di saliva agli angoli delle labbra. Denver sta aspettando che l’uomo nero venga trascinato fuori da sotto il letto e portato alla luce; non ha più voglia di attendere oltre, vuole che venga fatta giustizia.
Hoskins esce dalla porta laterale del carcere e si ferma a guardare la folla sempre più fitta, assiepata sul davanti. C’è una bambina con un giubbotto con una fantasia di coniglietti rosa. Non può avere più di cinque anni. Regge a fatica un cartello troppo grande per le sue braccia, ma non lo posa, vuole essere parte del divertimento generale. Sul cartello c’è una filastrocca scarabocchiata in nero, e Hoskins spera che la bambina non si renda conto di cosa dice, spera che non sappia ancora leggere:
Le rose son rosse
le viole sono blu,
adesso Jacky
a morire sarai tu!
Il processo a Jacky Seever ebbe inizio il 1º giugno 2009. Sull’imputato gravavano trentun capi di accusa per omicidio di primo grado. Quel primo giorno, Seever indossava come suo solito un completo di tweed marrone e una cravatta di seta azzurra. In aula non era ammessa la presenza di fotografi, ma un artista tra il pubblico fece una quantità di disegni, che poi apparvero sul «Post» a illustrare gli articoli di Samantha Peterson. In alcuni dei ritratti Seever mostrava un’espressione rocciosa, la fronte madida di sudore. In altri sembrava stanco e quasi pentito, anche se i suoi veri sentimenti restavano un mistero.
Il processo durò meno di sei settimane, e venne seguito in tutto il paese. Era molto tempo che l’opinione pubblica americana non fissava la propria attenzione su un singolo individuo, ed era affamata di sangue, violenza e intrigo. Con Seever ottenne tutto ciò. Un rispettabile membro della comunità. Trentun vittime. Diciannove di esse erano state identificate, e le famiglie in lutto raccontavano le storie dei loro cari assassinati a chiunque le ascoltasse. Le stazioni via cavo seguivano il caso senza sosta, e ogni singolo quotidiano del paese aveva un inviato che ne scriveva. Gli alberghi di Denver erano pieni, e quelli che non avevano trovato posto si accampavano insieme ai senzatetto al Civic Center Park, solo per venire sgomberati nel mezzo della notte dalla polizia.
L’accusa chiedeva la pena capitale.
La giuria impiegò soltanto tre ore a decidere. In tempo per potersi godere una cena a base di prime rib e cocktail di scampi da Broker. L’opinione pubblica americana poté tirare un respiro di sollievo: il mostro era stato condannato, e tutti potevano finalmente fare ritorno ai loro regolari programmi.
Jacky Seever venne condannato a morte per iniezione letale.
Ma un crimine di quel genere non riguardava soltanto l’assassino. C’erano altri aspetti da considerare. Le vittime. Le loro famiglie. I detective Ralph Loren e Paul Hoskins, che ricevettero un encomio e un discreto aumento di stipendio. Sammie Peterson, che grazie ai suoi articoli divenne una sorta di celebrità locale. Gloria Seever, che dovette imparare a vivere in un mondo privo di suo marito. Ma questi sono solo alcuni esempi, perché le ripercussioni di un crimine del genere sono vaste, e non si può mai sapere quante persone vengano davvero coinvolte. È così che vanno queste cose: una goccia in una polla d’acqua cheta crea un’increspatura che si allarga in ogni direzione, probabilmente all’infinito, senza mai appiattirsi, generando invece altre ondulazioni in direzioni completamente nuove. Prima o poi quella originale rallenterà, perderà gran parte della sua energia, ma sarà sempre attiva.
Non finirà mai.