Gloria

«Se sei stanco, possiamo dormire e basta» disse Gloria. Era la loro prima notte di nozze, un anno dopo il loro primo appuntamento. Era stata una giornata lunga: il lancio del bouquet, le danze, il taglio della torta, stare in piedi davanti a tutta quella gente, Jacky conosceva così tante persone e sembrava che le avesse invitate tutte, cosa che rendeva il padre di Gloria tutt’altro che felice, visto che era lui a pagare. Poi finalmente era finito tutto, e tecnicamente lei e Jacky erano in luna di miele, anche se non avrebbero lasciato Denver, limitandosi a passare qualche notte nella Roosevelt Suite del Brown Palace Hotel, che sulla carta sembrava terribilmente antiquata ma in realtà era bellissima. «Stasera non dobbiamo fare niente, se non vuoi.»

«In che senso?» Jacky la guardava dai piedi del letto, il cravattino slacciato e penzolante dal colletto della camicia. Aveva passato i festeggiamenti in un costante stato di iperattività, ballando e parlando e ridendo più di quanto per lei fosse umanamente possibile, ma ora che erano soli era silenzioso, e la guardava in un modo che lei non riusciva bene a capire. Per un attimo aveva creduto che fosse paura, ma poi si era detta che era una sciocchezza: perché avrebbe dovuto avere paura di lei?

Ma lei sì che aveva paura. Ne aveva eccome. Aveva vent’anni ed era ancora vergine, non aveva mai neanche pomiciato, nemmeno con Jacky, che non era mai sembrato particolarmente interessato a farlo. La baciava al cinema, ma quando le cose diventavano troppo intense si ritraeva e si copriva il grembo con il secchiello dei popcorn con aria imbarazzata.

Gloria fece un gesto goffo, stiracchiandosi l’orlo dell’abito nuziale. Aveva sentito parlare di quello dalle altre ragazze a scuola, ma sentirlo dire non era come farlo.

«Non lo so» soggiunse Jacky. La guardò, poi si voltò verso la porta, e per qualche istante Gloria pensò che stesse per fuggire. Non lo aveva mai visto così apprensivo, neanche quando suo padre lo aveva promosso da lavapiatti a capocuoco, promettendo ulteriori avanzamenti di carriera. «Diventerà il padrone» aveva detto. «In men che non si dica dirigerà tutto lui.»

«Tutto bene?» gli chiese.

«Sì.»

«Vuoi che spenga la luce?»

«Non lo so. Sì, magari sì.»

Una volta che ebbero spento la luce venne a letto, da lei, la sua pelle liscia e fredda al tocco. Tremava, e finì in fretta, il suo alito caldo nella piccola conca di pelle tra il collo e la spalla di lei.

«Non lo sapevo» disse.

«Non sapevi cosa?»

«Niente. Niente.»

Al ristorante e a casa Jacky ammetteva solo l’uso del burro. Burro vero, niente margarina né surrogati di qualche tipo, neanche quelli delle marche migliori. Una volta Gloria aveva cercato di ingannarlo, mettendo la margarina nel portaburro, pensando che lui non se ne sarebbe accorto e che così avrebbero potuto risparmiare, ma lui l’aveva capito, anche se lei aveva gettato via la confezione, e non nella loro immondizia ma addirittura in un cassonetto davanti al supermercato. Si era sporta oltre l’orlo e aveva sepolto la scatola vuota, coprendola con sacchetti bisunti dei fast food e fogli accartocciati di giornale e guardandosi alle spalle, come se Jacky potesse essere dietro di lei nel parcheggio, come se la stesse tenendo d’occhio, perfettamente consapevole delle sue intenzioni. Aveva coperto le proprie tracce, aveva fatto tutto alla perfezione, eppure lui se n’era accorto lo stesso, aveva scaraventato contro il muro il bel portaburro di cristallo che avevano ricevuto in dono e l’aveva sgridata per avergli mentito, per aver cercato di ingannarlo, finché grumi di saliva gli si erano formati agli angoli della bocca.

Dopo il matrimonio ha sviluppato una quantità di manie simili, soprattutto riguardo al ristorante. Suo padre, che ha ceduto loro il locale e consegnato le chiavi tre mesi dopo le nozze, dice che è un buon segno. Che dimostra che Jacky è un uomo accorto. Che ha quel che ci vuole per far funzionare bene il ristorante. E in effetti, anche se non è passato molto tempo da quando ne ha assunto il controllo, Jacky sta già parlando di espandersi, di accendere un mutuo e aprire un secondo locale in un palazzo seminuovo che prima ospitava un barbiere e un bar.

«Pensi che sia una buona idea?» chiede Gloria, ma lui non le risponde. Di questi tempi non le presta più molta attenzione, e lei lo capisce, è molto preso sul lavoro, vuole guadagnare abbastanza da mantenerla. È un uomo che ha bisogno dei suoi spazi, continua a ripetersi. Ma le uniche volte in cui sembra vederla è quando vuole fare quello, e lo fa, veloce come una furia, e le lascia tenere accesa la televisione, e lei gliene è grata perché ancora non ha capito l’attrattiva di quello, anche se le donne delle soap opera che lei guarda non fanno che usarlo per adescare gli uomini, e gli uomini non sembrano pensare ad altro.

Passa un anno prima che Gloria resti incinta. Nei primi mesi di gravidanza è sempre esausta, e passa gran parte delle sue giornate sul divano con la televisione accesa, guardando Erica Kane che affronta baldanzosa la vita a Pine Valley con i piedi sollevati su un cuscino e le mani a perlustrarsi il ventre. Non è cambiato molto, è ancora piatto e teso, ma Gloria può avvertire la più lieve delle pressioni, qualcosa che prima non c’era accoccolato sotto l’ombelico. Ogni giorno vede donne in dolce attesa, al supermercato o nel parco, e vorrebbe essere come loro, avere una gran pancia e indossare quelle ridicole camiciole scampanate in vita. Poi arriverà un bambino, un maschietto uguale a Jacky, e a seguirlo magari una femmina. Uno per ogni gusto. Gloria ha già cominciato a comprare maglie, minuscoli calzini e confezioni di shampoo per neonati, e la ragazza alla cassa non fa domande ma deve avere capito, perché guarda quelle cose e poi la pancia di Gloria e sorride, ed è come se si comprendessero a vicenda senza bisogno di dire una parola.

Finché un giorno, con la stessa rapidità con cui è accaduto, tutto finisce. Un mattino Gloria si sveglia pensando di aver avuto un contrattempo notturno perché sente il letto bagnato; non le capitava dal giorno in cui, quando era ancora piccola, suo padre aveva appeso le lenzuola fuori casa perché tutti potessero vedere che lei faceva la pipì a letto. Ma quando scosta le lenzuola vede solo rosso. In quel momento le sembra che l’intero letto sia pieno di sangue, un oceano di sangue; in realtà non è così tanto, però ecco che in un attimo lei ha perso il suo bambino. Il dottore le prescrive riposo, dice che presto potranno riprovarci, che sono cose che succedono. In un primo tempo Jacky è comprensivo, ma il dolore e la tristezza di Gloria lo confondono, non capisce perché reagisca in questo modo per qualcosa che nemmeno aveva.

Gloria continua a sanguinare per una settimana, e ogni volta che va in bagno prima di tirare lo sciacquone controlla nella tazza, anche se non sa bene cosa cerca. Non vede che urina e grumi di sangue e altri frammenti senza nome, ma insiste lo stesso a controllare, aspettandosi di vedere altro.

Il matrimonio, pensa, è una bilancia delicata. Se metti troppo peso su un piatto e perdi la concentrazione, crolla tutto.

«Non mi toccare» dice a Jacky. Sono passati quasi sei mesi dall’aborto spontaneo, ma Gloria non vuole riprovarci. È circospetta: dorme vestita, va sempre a letto prima di Jacky, si scosta appena sente che lui si avvicina.

«Ho bisogno di te» protesta lui. Un giorno Gloria ha trovato una rivista sotto il suo lato del letto, dov’era scivolata durante la notte. In copertina c’era la foto di una donna nuda e legata, con una palla nera di gomma infilata in bocca. La sua espressione (e quelle di tutte le altre donne nella rivista, legate, frustate, pizzicate, torturate in un modo o nell’altro) era terrorizzata.

«Non mi sento bene.» Gloria non ha detto niente a Jacky riguardo alla rivista. È da un po’ che trova in casa cose simili, sorprese lasciate da lui. È come trovare un cappero verde scuro incollato sotto il bordo della sedia, ha pensato la prima volta che è successo. Una schifezza crostosa lasciata lì da qualcuno, e la cosa peggiore è che a fare quelle cose disgustose è Jacky, suo marito. «Ho bisogno di dormire.»

Gloria si gira nel letto, infilando la mano sotto la guancia, ma questa volta Jacky non intende lasciar correre. L’afferra per una spalla e le preme la schiena contro il materasso. Una ciocca dei suoi capelli gli resta impigliata nel cinturino dell’orologio e lui gliela strappa dalla testa, facendola urlare.

«Cosa stai facendo?» chiede Gloria, ma lui è occupato a slacciarsi la cordicella del pigiama con una mano, continuando a immobilizzarla con l’altra. «Lasciami.»

Lei spinge, cerca di liberarsi, ma Jacky è più forte, e le sue braccia sono più lunghe. Quando Gloria riesce ad affondargli le unghie nella guancia, Jacky le sferra un ceffone violento, e lei si copre il volto con le mani e piange, risucchiando l’aria con tale forza che la sente fischiare attraverso le dita.

«Voglio vederti in faccia» dice Jacky afferrandole i polsi e cercando di scostarle le mani dal volto mentre il suo bacino non rallenta, e Gloria si rende conto che tutto questo lo sta eccitando, capisce di essere come una delle ragazze di quella rivista, ha paura e piange e cerca di sfuggirgli e a lui piace, gli piace da impazzire. Non gli permette di scostarle le mani, nemmeno quando lui le pizzica con forza la pelle, facendole male, e lei grida, ma le mani no, non le abbassa. «Voglio vederti in faccia.»

Il mattino dopo Jacky non la sveglia quando esce di casa per recarsi al lavoro, e quando Gloria finalmente si alza, stordita e appannata, è quasi mezzogiorno. Ha dormito come un sasso, ma è ugualmente esausta. Va in cucina, accende la macchina del caffè e lo osserva sgocciolare lentamente nella brocca, senza notare che è nuda sotto la vestaglia slacciata, né che i ciuffi dei suoi peli pubici sfiorano il bordo del banco a ogni movimento dei fianchi. Di sicuro non nota il sangue rappreso che le macchia le cosce.

Suo marito potrebbe averla stuprata. Oppure no. Può succedere? Non ne è sicura.

Quando riempie la tazza versa il caffè oltre il bordo, scottandosi il dorso della mano. Potrebbe lasciare Jacky. Chiedere il divorzio. Quello sì che può succedere. Lei non conosce nessuna che abbia davvero lasciato il marito, ma l’ha visto in tivù e sa che è possibile. Ci pensa tutto il giorno, a lasciarlo, prende addirittura una valigia dall’armadio in corridoio e ci infila alcune cose: qualche mutanda e camiciola, qualche pantalone. Mettere tutti i suoi indumenti in valigia, riflette, significherebbe aver preso una decisione, essere pronta ad andarsene.

Ma lei non ne è ancora sicura.

Più tardi quella sera, seduta di fronte a Jacky al tavolo da pranzo a osservarlo mentre si ingozza di cibo, sente di dover dire qualcosa. È quello che le donne dovrebbero fare, giusto? Dire ciò che pensano? Condividere quello che provano? Le sembra di averlo letto su una rivista, non sa bene dove, probabilmente dal dentista. Mettere in chiaro le cose, diceva l’articolo. Risolvere i problemi. Oppure comportarsi da donna moderna e andarsene. Nessuna donna ha bisogno di un uomo che la maltratti, concludeva la rivista.

«Riguardo alla notte scorsa» comincia, ma Jacky non la lascia finire, perché a un tratto ha una quantità di cose da dire, anche se fino a quel momento non aveva aperto bocca.

«Non so cosa mi è venuto in mente» sbotta, scattando in piedi e aggirando il tavolo nella sua direzione. Gloria si ritrae quando lui fa per abbracciarla, e gli legge la delusione negli occhi. «Non volevo farti del male. Era da un’eternità che non stavamo insieme, e ti desideravo tanto.»

Forse lo fa perché mi ama così tanto aveva detto sua madre.

«Andrò a dormire nella camera degli ospiti finché non avrò trovato un’altra sistemazione» prosegue Jacky. «Non ti toccherò più.»

«Non voglio che tu lo faccia» ribatte Gloria. Le cose non stanno andando come aveva immaginato. Una cosa è chiedergli il divorzio, ma il fatto che lui cerchi di lasciarla è completamente diverso. Come può farle una cosa simile? Dopo tutto è lui a essere nel torto, giusto? Giusto?

«Ho paura che tu non provi più attrazione per me» prosegue Jacky. Sembra sul punto di piangere. «Se c’è qualcosa in me che non ti piace, se non vuoi stare con me, lo capisco. Al mondo c’è una quantità di uomini…»

«Non ho mai detto nulla del genere.»

«Ma la notte scorsa non ti è piaciuto.»

«E non ho detto neanche questo.» Gloria non riesce a credere a quello che le esce di bocca. Bugie. Ma sta davvero mentendo, dicendogli che le è piaciuto sentirsi schiacciata dal suo peso, provare un bruciore come di carta vetrata quando lui l’ha penetrata con la forza? Le sembra di non sapere più nulla, di non ricordare e prova solo il disperato bisogno di trattenerlo. Tutte le intenzioni che aveva si sono come squagliate. «Quando mai l’ho detto?»

«In effetti non l’hai fatto» risponde Jacky lentamente. «Ma negli ultimi tempi eri diventata così fredda che pensavo…»

«Farai meglio a non dare niente per scontato sul mio conto» scatta lei, raccogliendo una cucchiaiata di piselli dalla zuppiera e sbattendoglieli sul piatto. «Io ragiono col mio cervello, e se qualcosa non mi va te lo farò sapere.»

«D’accordo» fa lui. «Me lo farai sapere.»

«Te lo farò sapere» ripete Gloria in tono fermo. Ricorda che al primo piano c’è una valigia piena a metà, chiede scusa e sale. Non si prende il disturbo di svuotarla, limitandosi a ficcarla nell’armadio a muro, piano, così che Jacky non sappia cosa sta facendo, così che non lo scopra mai.

L’indomani Jacky le porta un mazzo di fiori, e poi continua a farlo a intervalli di qualche giorno. Prende fiori di stagione: margherite in primavera, crisantemi in autunno, garofani tutto l’anno. Fiori freschi e lunghi, con pesanti corolle che penzolano oltre i bordi dei vasi di vetro e gambi delicati a malapena in grado di reggerle.

«Non c’è bisogno di prendere ogni volta un vaso nuovo» osserva Gloria. «Va benissimo anche se li porti avvolti nella carta velina.»

Ma Jacky non l’ascolta, e insiste a presentarsi a casa con vasi sempre nuovi, e poiché gettandoli si sentirebbe in colpa Gloria li accatasta in un angolo del garage, creando una pila regolare. I vasi accumulano polvere e sporcizia e lei non la tocca, quella precaria montagna di vetro che cresce di settimana in settimana, ma ogni tanto esce in garage a piedi nudi e la guarda, fermandosi sul pavimento sporco e freddo e incrociando le braccia davanti al petto. Dopo qualche visita nota che all’interno di alcuni vasi si sono infilati dei ragni, ignari che non sarebbero più riusciti a uscirne, che sarebbero morti sul fondo, le zampe rattrappite contro i corpi, mentre il resto del mondo era là fuori, perfettamente visibile ma non abbastanza vicino.