2 dicembre 2015
Il suo ufficio al piano sotterraneo è piccolo e buio, e i neon sul soffitto dovrebbero imitare la luce del sole ma emettono un bagliore che sembra troppo intenso, troppo finto. Gli fanno bruciare gli occhi e gli danno l’emicrania, è il tipo di illuminazione che metteresti in un ospedale psichiatrico, o magari in una casa dei fantasmi, ma Hoskins non si lamenta. Anche se lo facesse, inviando una email o una nota scritta a mano all’amministrazione, verrebbe ignorato. Una volta era il loro ragazzo prodigio, l’astro nascente della Omicidi che era riuscito ad acciuffare un serial killer. E all’improvviso, in un battibaleno, era diventato peggio di una merda di cane, rimosso dalla squadra e spedito a occuparsi dei casi abbandonati, vecchie cartelle da inserire a computer, una dopo l’altra, fino a farti esplodere il cervello.
«Quei vecchi casi sono ancora indagini in corso» aveva detto il capo Black. Cercava di rendere più appetibile il trasferimento, ma nemmeno lui sembrava del tutto convinto. «Tecnicamente sei ancora un detective della Omicidi. Un’estensione della squadra.»
E così eccolo qui, due anni dopo la Caduta, intento a sgobbare sui casi irrisolti, ad aprire le vecchie cartelle marroncine, con le loro coste scricchiolanti e i loro angoli scheggiati dagli anni. A studiare vecchie foto e decifrare le grafie di detective andati in pensione prima ancora che lui arrivasse al dipartimento.
26 febbraio 1970: una graziosa ragazza pon-pon non era mai rientrata a casa dopo la partita di basket, era stata stuprata e uccisa e il suo corpo era stato ritrovato il giorno dopo a quasi dieci chilometri dalla sua abitazione.
23 giugno 1979: un diciannovenne era stato ucciso da un colpo di pistola alla testa mentre dormiva sotto un pino al Washington Park.
28 ottobre 1996: sul ciglio di una strada nella zona nord di Denver era stato scoperto uno scheletro ancora legato con una corda intorno al bacino e alle gambe. Il medico legale aveva stimato che al momento del ritrovamento si trovasse lì da più di un anno. Non era stato possibile accertarne l’identità.
Se Hoskins facesse ancora parte della Omicidi, in questo momento starebbe indagando sulle due donne trovate nel bacino idrico. Riesce a immaginare il loro aspetto, gonfiate dall’acqua, le lingue ingrossate e annerite. Le orbite vuote, perché anche i pesci hanno fame. Ha letto anche lui l’articolo sul «Post» (difficile non vederlo, sparato in prima pagina) che parlava dei collegamenti tra le due vittime e Jacky Seever, della possibilità che Seever avesse avuto un complice, qualcuno ancora a piede libero che ora ha ripreso a stuprare e ammazzare. L’intera faccenda è ridicola… o forse no. A volte la verità è più strana della finzione, Hoskins lo sa per certo, ma sa anche un’altra cosa: Seever non ha mai avuto alcun complice. Non era un lupo solitario, non lo si sarebbe mai potuto definire tale; era più il tipo della faina, una creatura apparentemente innocua ma pronta a sbranarti la faccia alla prima occasione.
Se non altro, riflette, l’articolo non è stato scritto da Sammie. A volte, negli anni passati, sfilava il giornale dalla busta azzurra di cellofan, lo spiegava e se la ritrovava davanti, una minuscola foto sfocata accanto alla firma, ma abbastanza chiara da poter riconoscere la linea decisa della mascella, la curva sarcastica delle labbra. Sufficiente a smuovergli qualcosa nel profondo per un istante, prima di sentirlo tornare al suo posto. Ormai è un bel po’ che non vede più la foto di Sammie sul giornale, ma è rimasto ugualmente sorpreso che non sia stata lei a scrivere del duplice omicidio, a stabilire il collegamento con Seever. Si chiede perché, ma non vi si sofferma troppo a lungo. È finalmente giunto a un punto in cui non pensa più tanto spesso a lei, e vorrebbe continuare così.
«Vado a mangiare» annuncia Ted Johnson, infilando la testa nell’ufficio e riscuotendo Hoskins dalla sua trance. Ted lavora nell’ufficio accanto, ma Hoskins non sa bene cosa faccia: qualcosa con i computer e i software del dipartimento. Cose tecnologiche, che nessun altro sembra comprendere. Ted di solito lo si fiuta prima di vederlo, perché probabilmente si fa il bagno nell’acqua di colonia. «Vuoi che ti prenda qualcosa?»
«Sono a posto, ti ringrazio» risponde Hoskins.
«Tutto bene?»
«Sì.»
«Sei molto silenzioso, devo dire.» Ted fa un passo nell’ufficio e si ferma. Regge il portafoglio in mano come se fosse una borsetta, e Hoskins sa perfettamente cosa ne direbbe Loren. Deve avere poco più di vent’anni, e indossa i jeans aderenti e le scarpe da ginnastica basse che sembrano la divisa dei ragazzi di oggi. Se abitasse a San Francisco o a Seattle lavorerebbe in una qualche azienda tecnologica, impegnato a cambiare il volto di internet. Ma a Denver, Colorado, non è che una delle tante rotelle invisibili nel grande ingranaggio del dipartimento di polizia, sepolto sottoterra. «Ti va di parlarne?»
Per un attimo Hoskins è sorpreso; poi scoppia a ridere, una risata grassa e sguaiata, perché quando è stata l’ultima volta che qualcuno, a parte la psicologa del dipartimento, gli ha chiesto se aveva voglia di parlare? Per quasi quattordici anni ha lavorato in coppia con Loren, il quale non è mai stato il tipo con cui si parla; se qualcuno si fosse azzardato a confidargli le sue pene, Ralph Loren gli avrebbe risposto di ficcarsele nel didietro.
«Cosa c’è da ridere?» chiede Ted accigliandosi, e Hoskins ripensa a quando era appena stato trasferito giù in cantina e Ted gli si era presentato. Gli aveva detto di chiamarlo Dinky, perché era così che lo chiamavano i suoi fratelli maggiori e gli amici, e Hoskins si era messo a ridere.
«Perché Dinky?» gli aveva chiesto. «Con tutti i soprannomi al mondo, perché proprio quello?»
«Ha presente quella serie di film sulla famiglia in vacanza? Il cane che viene legato al paraurti e tirato dietro?» gli aveva risposto. «Ecco, un giorno un altro bambino mi aveva incaprettato, legato alla sua bici e trascinato in strada, ed ero finito con le braccia scorticate e la faccia piena di ghiaia. Il dottore aveva dovuto togliermela con le pinzette.»
Hoskins si asciuga le lacrime, prima di rispondergli.
«Scusa, non c’è niente da ridere, hai ragione. È solo che mi hai colto di sorpresa. Sempre la stessa merda, cambia solo il giorno, capisci.»
Ted annuisce, ancora accigliato, ma Hoskins sa che non può capire, perché è ancora un ragazzo; è un pivello, non sa un beato cazzo di niente. Vive coi genitori, guida ancora l’auto che loro gli hanno regalato per i sedici anni, passa gran parte del suo tempo libero con lo sguardo incollato sullo schermo del cellulare. È un bravo ragazzo, intelligente e volonteroso e servizievole, ma è anche un ingenuo. Probabilmente è ancora vergine.
«Ehi, ora che mi viene in mente, di qualcosa avrei bisogno» riprende Hoskins. «Puoi accedere all’archivio autopsie? Ho bisogno del referto sul caso Grimly del ’92, e non capisco come fare con questo maledetto computer.»
«Posso accedere a qualsiasi cosa nella nostra banca dati» risponde Ted. Ora che sono su un terreno familiare si è rianimato. «Hai bisogno di copie cartacee o ti basta una mail?»
«Se me lo mettessi su un dischetto sarebbe fantastico.»
Torna a corrugare la fronte.
«Ho paura che il tuo computer non abbia neanche un ingresso per i dischet…»
«Scherzavo.»
«Ah.»
«Un’email va benissimo» dice Hoskins. «Se ne ho bisogno me la posso stampare. E non c’è fretta. Fa’ pure con calma.»
«Okay. Ah, a proposito, stavo dando un’occhiata al dossier di Seever e ho visto che ha fatto delle cose allucinanti» osserva Ted con noncuranza, anche se dal suo tono si direbbe che non aspettasse altro. Succede a tutti, una volta che si rendono conto che Hoskins era uno dei due poliziotti che avevano arrestato Seever: credono che lui non desideri altro che parlarne. Se appena potesse, la gente gli spremerebbe fuori ogni singolo, sanguinoso dettaglio. «È interessante, il fatto che lui…»
«Chi ti ha dato il permesso di curiosare in quelle cartelle?» sbotta Hoskins rabbioso. «Sono documenti riservati.»
Non penso più a Seever, ha detto non più di qualche settimana prima alla strizzacervelli del dipartimento. A meno che qualcuno non lo tiri in ballo. Il problema è che vogliono parlarne un po’ tutti. Come se negli ultimi sette anni al mondo non fosse successo altro.
Molti detective risentono psicologicamente di questo o quel caso, aveva ribattuto lei giocherellando con i braccialetti al polso, il cui suono metallico gli dava sui nervi. Specialmente con una figura straripante come Jacky Seever, è normale…
Non mi ha sentito? Non ne voglio parlare.
«Non me l’ha dato nessuno. Ma so che era un tuo caso, e…»
«Non ficcare il naso in quelle cartelle» taglia corto. «Il fatto che fosse un mio caso non significa che abbia voglia di parlarne con te.»
Ted batte le palpebre, e per un momento Hoskins è sicuro che stia per piangere, perché è ancora abbastanza giovane per farlo. Pensa di scusarsi, ma poi non lo fa. Meglio lasciare che capisca da solo come va il mondo.
«D’accordo» dice Ted. «Be’, ci vediamo più tardi.»
«Okay.»
Gli scocca un’ultima, cupa occhiata e se ne va. Un minuto dopo le porte dell’ascensore si aprono e si richiudono, e Hoskins è di nuovo solo.
«Come sta?» domanda. «È una buona giornata?»
È al telefono, ha chiamato casa per informarsi sulle condizioni di suo padre. Il buon vecchio Joe Hoskins, che per quarant’anni era stato caporeparto del birrificio di Golden, che ogni martedì giocava a poker con i suoi colleghi e che sapeva fare gli anelli di fumo con la sigaretta, si era trasferito a casa di suo figlio all’inizio della primavera, quando avevano deciso che non poteva più vivere da solo.
«Oggi è abbastanza lucido» risponde la donna, di cui Hoskins non ricorda il nome. È l’ultima di una lunga serie di badanti, quasi tutte infermiere in pensione il cui compito è quello di tenere compagnia a Joe durante il giorno e assicurarsi che non combini guai. «Per colazione ha voluto le uova. E caffè.»
«Decaffeinato?» La caffeina gli fa un brutto effetto, e sono costretti a nascondergliela, a sostituire i suoi caffè normali con tazze di decaffeinato senza che lui se ne accorga, a svuotare quasi del tutto le bottiglie di birra in frigorifero e riempirle di succo di mela. Sembra un’idiozia, è un lavoraccio e a volte pare inutile, ma sono piccoli trucchi che rendono più semplice la convivenza. È questo che è diventata la vita di Hoskins negli ultimi tempi: un accurato inganno.
«Sì» risponde la donna lentamente, e Hoskins capisce che suo padre è seduto accanto a lei, all’ascolto. È diventato un altro uomo, non è più il padre che Hoskins conosceva. A volte è come un bambino, infantile ed esigente, altre volte è silenzioso e rabbioso. Non è sempre astuto, ma sono i momenti in cui lo diventa a impensierire maggiormente Hoskins: i momenti in cui lo guarda negli occhi e vede le rotelle al lavoro, vede formarsi un piano. In quelle occasioni suo padre gli ricorda Seever prima dell’arresto, quando si credeva invincibile, convinto di essere intoccabile.
«Avete presente quella ragazza scomparsa l’anno scorso giù a Colorado Springs?» aveva chiesto Seever un giorno, avvicinandosi all’auto in cui erano seduti lui e Loren, stringendo delicatamente una sigaretta tra indice e medio con fare femmineo. «È mai stata ritrovata?»
L’avevano trovata più avanti, sepolta sotto casa sua, ma Seever godeva a buttare là provocazioni di quel tipo, era tutto uno scherzo, una fabbrica di risate, come diceva lui. Seever era astuto, furbo come una volpe, come una stramaledetta faina, e ci sono momenti in cui Joe ha la stessa espressione, come se stesse nascondendo un segreto gustoso, e Hoskins sente un rivolo freddo di paura sulla nuca, e subito si sente in colpa: si tratta di suo padre, dopo tutto, eppure c’è qualcosa, in quell’espressione, che lo terrorizza. Ma cos’altro dovrebbe fare? Suo padre sta uscendo di testa e non è colpa sua, è la sfiga che gli ha servito il suo dna del cazzo, ma è pur sempre suo padre.
Ciò malgrado, Hoskins dorme con la porta della sua stanza chiusa a chiave.
«Ha preso le sue pillole?» chiede. Ogni giorno le stesse domande, ogni giorno la stessa telefonata. Chiamerà di nuovo tra qualche ora per assicurarsi che Joe abbia pranzato, che abbia fatto il pisolino davanti alla tivù. «Gli ha dato il giornale di oggi? Deve fare il cruciverba.»
«Lo so» dice la donna con voce piatta, e Hoskins può udire l’irritazione nel suo tono. Presto se ne andrà, pensa, e io dovrò cercarne un’altra. Un altro nome che non riuscirò a ricordare. «Lo sta facendo proprio adesso.»
«Ha le pantofole ai piedi? In casa fa freddo.»
«Sì.»
«E continua a grattarsi il braccio. Le spiace spalmarci un po’ di crema?»
«Già fatto.»
«Bene.»
Dev’essere come avere un figlio, si dice. Chiamare la baby-sitter per controllare che va tutto bene, che nessuno sta giocando coi fiammiferi o se la sta facendo addosso, preoccuparsi di qualsiasi cosa. È così da quando suo padre era caduto dalla scala mentre potava un albero nel giardino di casa sua; non si era rotto niente, non si era fatto neanche un graffio, ma per sicurezza avevano fatto un’ecografia cerebrale e il dottore aveva usato una quantità di paroloni e grafici e aveva mostrato i risultati sul suo laptop, e loro due avevano annuito fingendo di capire pur non avendo la minima idea di cosa cazzo stesse dicendo. E così più tardi, mentre suo padre prenotava un’altra visita in accettazione, Hoskins aveva chiesto al dottore di spiegarglielo di nuovo in termini comprensibili.
«Nel cervello di suo padre si sono formati depositi di calcio» aveva detto questi senza guardarlo, facendo scorrere un’infinità di messaggi sul cellulare. Per lui quella conversazione era conclusa, era già passato ad altro, e per un attimo Hoskins aveva provato la tentazione di strappargli il telefono di mano e scaraventarlo fuori dalla finestra. «Se non avessimo fatto l’eco, probabilmente l’avremmo scoperto troppo tardi.»
«Scoperto cosa?»
Il dottore aveva alzato gli occhi dal telefono e aveva schioccato le labbra. Dio, Hoskins odiava i medici. Odiava tutto di loro: quanto costavano, e il tempo che ti facevano perdere, ma soprattutto quel modo che avevano di farti sentire un idiota, come se fossi troppo stupido per meritare la loro attenzione.
«Il calcio sta danneggiando il cervello di suo padre» aveva spiegato il dottore. Lentamente, come se fosse Hoskins ad avere problemi ai piani alti. «Comincerà a perdere la memoria, ancora più di adesso. A soffrire di demenza. I suoi impulsi cerebrali rallenteranno, rendendo difficili i movimenti. Potrebbe succedere in modo graduale, nell’arco di diversi anni, tanto che potreste non rendervene conto, ma la condizione di suo padre è piuttosto avanzata. Il calcio si sta accumulando da molto tempo.»
«Cristo. E cosa dovremmo fare?»
Il dottore si era stretto nelle spalle.
«Non si conoscono cure per questa condizione. Non c’è nulla che possiate fare.»
«Sicché stiamo semplicemente aspettando che muoia?» aveva chiesto Hoskins, e il dottore doveva aver sentito la rabbia e la paura nella sua voce, o forse non se n’era accorto. Forse le aveva già udite così spesso da non badarci più.
«Suppongo di sì» aveva risposto. «Ma si potrebbe dire lo stesso di chiunque. Stiamo tutti aspettando di morire, giusto?»
Suo padre sta uscendo di senno, probabilmente da una vita, lentamente, un pezzetto per volta, ed è curioso che una malattia nascosta nella struttura del suo dna abbia deciso di rivelarsi; era stata sempre presente ma nessuno l’aveva mai notato, perché capita a tutti di smarrire le chiavi di casa e scordare di spegnere il forno, forse Joe lo faceva più spesso di altri ma come si faceva a interpretarlo come un segno di ciò che sarebbe accaduto? Certo, Hoskins forse sta uscendo di senno perché è un poliziotto e ha visto cose terribili, e questo succede spesso, i poliziotti impazziscono da sempre, anche se come scusa non è poi un granché. Quel lavoro se lo era scelto, sapendo benissimo a cosa andava incontro; aveva puntato alla Squadra omicidi fin dal giorno del suo giuramento, la Omicidi l’ha portato sull’orlo della follia eppure lui ne sente ancora la mancanza, e il desiderio di tornarci è così intenso che a volte può sentirne il sapore.
O magari sta impazzendo senza alcun motivo.
Ha i suoi trucchi per resistere. Un unico trucco, in realtà, anche se potrebbero essercene altri, metodi che lui non ha ancora scoperto. Non è l’alcol. L’ha provato, molti poliziotti prima o poi vedono il fondo della bottiglia, ma bere non fa per lui. È un pessimo ubriacone. Non fuma, non va a puttane, non si buca, non gioca. Non prende neanche i farmaci che gli ha prescritto la psicologa; gli impastavano la bocca e gli facevano pizzicare le mani in un modo che non gli è piaciuto, e malgrado non gradisca parlare di sé continua ad andare una volta al mese dalla strizzacervelli, in parte per salvare le apparenze, perché quando vai dal dottore la gente pensa che tu ti stia sforzando di star meglio, anche se nel suo caso non è del tutto vero.
«Comportamento di fuga» aveva decretato immediatamente la psicologa, meno di dieci minuti dopo che si erano conosciuti. Gli aveva fatto una trafila di domande di ogni genere, una dopo l’altra, segnandosi le risposte sul quaderno senza mostrarglielo. «Il conflitto non le piace, e così lo evita.»
«È questo che pensa?»
«Trovo interessante che abbia scelto il lavoro di polizia, visto che i conflitti la rendono chiaramente ansioso.»
«Posso chiederle una cosa?» aveva ribattuto lui, e lei aveva fatto un sorrisetto agrodolce per fargli capire che non poteva impedirglielo ma non ne era affatto contenta.
«Certamente.»
«Non c’è una pratica sessuale chiamata collana di perle?» le aveva chiesto, e lei era arrossita per l’imbarazzo, poiché indossava una camicetta con diversi bottoni slacciati e una grossa collana di perle che attirava lo sguardo verso il basso, nelle profondità della sua scollatura. Si chiamava Angelika Jackson, ma Hoskins non riusciva a smettere di chiamarla Ms. Jackson, come la vecchia canzone. Ms. Jackson, if you’re nasty. Ms. Jackson, se fa la cattiva.
Ma nessuna di quelle stronzate lo aiutava, e Hoskins sarebbe potuto uscire sul serio di testa se non avesse cominciato a camminare. Sembra la cosa più stupida del mondo, si sente come uno di quei vecchi che si presentano al centro commerciale prima dell’apertura in scarpe da ginnastica e fascia sulla fronte e fanno il giro del perimetro, eppure funziona; è l’unica cosa che funziona. Correre non può, o meglio potrebbe, e a volte lo fa in palestra, salta sul tapis roulant e corre finché gli occhi sembrano sul punto di schizzargli fuori dalle orbite come foruncoli e colargli giù per le guance, ma la corsa non fa che peggiorare le cose, il suo cervello comincia a surriscaldarsi come se cercasse di tenersi al passo con le gambe, e quando la sua testa comincia a comportarsi in quel modo gli viene voglia di uscire in strada, prendere un passante a caso, uno qualsiasi, e sparargli in faccia, non in mezzo agli occhi ma al centro della faccia, riducendola a una poltiglia e poi ballandoci sopra. Ma quando cammina non gli vengono pensieri simili, tutto si ammorbidisce e diventa vago e distante, come se stesse osservando il mondo attraverso una garza.
«Perché ha così paura di impazzire?» gli aveva chiesto Ms. Jackson. «Cosa crede che possa succedere?»
Ma non era la domanda giusta, perché Hoskins sapeva che cosa sarebbe successo se avesse perso la testa. Era già accaduto: aveva aggredito quella donna non perché avesse sentito il dovere morale di darle una lezione, o perché l’omicidio della figlia lo avesse turbato come non era mai accaduto prima. No, aveva preso a botte quella donna perché aveva desiderato farlo; voleva sentirla gridare e implorarlo di smetterla, voleva vederla sanguinare. Aveva provato piacere nel sentir cedere la carne sotto i pugni, nell’udire le ossa che si frantumavano; Hoskins pensa che avrebbe potuto continuare fino ad ammazzarla, e l’idea lo fa inorridire, ma c’è un’altra parte di lui che sorride e si sfrega allegra le mani, ed è la parte che gli è stata lasciata in eredità da Jacky Seever, che gli è penetrata nel profondo dell’anima come un seme ed è stata lasciata lì a germinare, diventando qualcosa di velenoso e letale, un fungo dal ventre bianco che cresce solo al buio.
Hoskins si sta infilando il cappotto quando il suo telefono prende a squillare. Lo fissa per un lungo istante, perché quanto tempo è passato dall’ultima volta che qualcuno gli ha telefonato? Su alla Omicidi il suo apparecchio non avrebbe mai taciuto, giorno e notte, ma quaggiù i suoi casi sono dimenticati da tempo, e chiunque se ne sia occupato ha smesso da un pezzo di chiamare. Per un attimo pensa di ignorare gli squilli e andarsene, ma poi si rende conto di non farcela. Se non risponde passerà il resto della serata a domandarsi chi poteva essere. E così alla fine solleva la cornetta.
«Hoskins?»
«Sì?»
Sulle prime non riconosce la voce, gli ci vuole un momento, ma solo perché è passato molto tempo dall’ultima volta che l’ha sentita. Jonathan Black è ancora tecnicamente il suo capo, ma non sono più regolarmente in contatto come un tempo. Agli inizi era stato un sollievo, non dovergli fare rapporto ogni giorno sui progressi delle indagini, ma poi Hoskins aveva capito che non doveva più rispondere a nessuno perché non contava più nulla per nessuno. E in qualche modo essere ignorati era quasi peggio di sentire il fiato del capo sul collo.
«Sono Black.»
«Sì, l’avevo capito.»
«Come va laggiù?»
Hoskins non sa come rispondere. Il modo più facile sarebbe dire che va tutto bene, a gonfie vele, che finché i bonifici continueranno ad arrivare sul suo conto ogni due venerdì e la sua assicurazione sulla salute resterà valida e la pensione continuerà ad accumularsi non può lamentarsi. D’altro canto, forse non sta affatto bene. Resta chiuso in cantina quaranta ore alla settimana, in un ufficio privo di finestre e di speranze, sfogliando dossier su omicidi a volte ancora più vecchi di lui. Ha cominciato a sfilare le foto dalle cartelle e fissarle sui muri dell’ufficio; alcune sono foto delle vittime prima che venissero uccise, sorridenti al ballo scolastico o a una grigliata di famiglia, ma più che altro sono immagini delle scene dei delitti. Una donna su un materasso spoglio (è l’unico modo in cui sembra che la gente venga uccisa a letto, senza lenzuola e coperte), nuda dalla cintola in giù, gambe divaricate, occhi chiusi; un campo in bianco e nero, incolto e invaso di erbacce, con il corpo di un bambino a faccia in giù sulla terra compatta; un uomo disteso sopra un tombino con gli occhi aperti e luminosi, apparentemente vivo se non fosse stato per lo strano lembo molliccio di pelle che gli pendeva dal collo e per una ferita di coltello così profonda che gli aveva quasi staccato la testa dalle spalle. Queste foto potrebbero essere un segno che Hoskins non sta affatto bene, questa macabra esposizione che lo fissa cinque giorni alla settimana; forse guardare costantemente in faccia la morte significa non sentirsi bene.
«Tutto bene» dice. «Me ne stavo andando, capo. Posso fare qualcosa per lei?»
«Immagino avrai saputo dei due corpi trovati a Chatfield.»
«Sì.» Getta il cappotto sullo schienale della sedia e si risiede. Appoggia i piedi sulla scrivania. «L’ho letto sul giornale di oggi.»
«E Loren te ne ha parlato, giusto? Ti tiene aggiornato?»
Comprime le labbra e non risponde. Sarà anche uno sbirro, ma non è uno spione.
«Non è necessario che rispondi» riprende Black. «Loren non è mai riuscito a tenere la bocca chiusa. Ma in questo caso me ne frego.»
Hoskins è in parte contento di sentire che Black non intende proibire a Loren di chiamarlo; c’è una componente, in lui, che apprezza quelle telefonate e non vede l’ora che arrivino. Che vuole essere messa al corrente delle novità. Loren lo tiene informato, ma è proprio questo il problema. Il motivo per cui lui non riesce a lasciarsi dietro il passato.
«Ascolta, ti chiamo perché hanno trovato un’altra vittima, e a quanto sembra è collegata alle prime due.»
«Okay.» Hoskins sa perfettamente dove vuole arrivare Black, e prova l’impulso improvviso di riagganciare, infilarsi il cappotto e correre fuori, darsela a gambe fingendo di non aver mai ricevuto quella chiamata.
«Sembra opera di Seever.»
«Seever è in prigione.»
«So benissimo dov’è, Hoskins. Ma a questo punto abbiamo tre vittime che in qualche modo avevano a che fare con Seever, e tutt’e tre sono morte.»
«Ma perché ha chiamato me?»
«Voglio che ti occupi del caso insieme a Loren.»
«No.»
«A quanto pare l’hai presa come una richiesta» dice Black. «Credimi, non lo è.»
«La mia risposta resta no.» Hoskins si ficca il pollice in bocca e comincia a mordicchiarsi le pellicine intorno all’unghia. È un vizio che faceva imbestialire suo padre; ogni volta che lo sorprendeva a farlo Joe gli mollava uno scappellotto e gli diceva che era una pessima abitudine.
«Hai paura che mordermi le unghie mi impedisca di trovare marito?» gli aveva chiesto un giorno lui, e Joe aveva riso, più per la sorpresa che per altro, e l’aveva lasciato in pace. Per un po’.
«La scena del delitto è a Lakewood, a est della 470» prosegue Black come se Hoskins non avesse detto nulla. «Ho bisogno che ti presenti sul posto entro mezz’ora.»
«Lassù ha una quantità di detective» obietta Hoskins. «Ci mandi uno di loro.» Sta cercando di defilarsi, ma sa già che ci andrà. Non solo perché quello di Black è un ordine, ma perche lo vuole, nonostante tutto.
«Lo sai che da quando sei finito lì sotto Loren non è riuscito a tenersi stretto un solo collega, vero?» chiede Black. Il suo tono è furioso ma anche divertito, e Hoskins immagina che una volta ogni tanto anche il capo della polizia debba lasciarsi andare. «A quanto pare non riesce a essere carino con nessun altro.»
«Che lavori da solo, allora. È un bravo investigatore. Ha preso Seever, risolverà anche questo caso.»
Black ride.
«Perchè fai così, ragazzo?»
«Faccio cosa?»
«Perché sminuisci ciò che hai fatto? Perché lasci che sia Loren a prendersene il merito?»
«Non so di cosa parla.»
«Sì che lo sai» dice con delicatezza. «Magari credi di ingannare tutti, ma ti sbagli.»
«Loren è un buon detective.»
«Sì, ti ho sentito. Ma lo sei anche tu. E staresti meglio ai piani alti, lo sappiamo entrambi. Con Loren.»
«Continui così» dice Hoskins, scherzando solo a metà. «Le lusinghe le faranno fare molta strada.»
«Mi stai davvero forzando la mano?» ribatte Black. «Vuoi anche che ti faccia una sega, già che ci sono?»
«Ho visto i calli che ha sulle dita. Grazie, ma non le voglio sul mio uccello. Sarebbe come fare la punta a una matita.»
«Ascolta, mi dispiace di averti cacciato in cantina, ma era l’unico modo per non licenziarti, dopo quello che avevi combinato. È questo che vuoi? Le mie scuse?»
«Non voglio niente.»
«Sei il miglior detective che abbia mai avuto nella mia cazzo di squadra» dice Black a bassa voce e in fretta, come se non volesse farsi sentire. «Ho bisogno che tu e Loren lavoriate insieme a questo caso. Lui ha già individuato alcuni sospetti, e io ho bisogno di un arresto, che il caso venga chiuso al più presto. E nessun altro è in grado di affrontare una faccenda come questa come sai fare tu.»
«Questo è…»
«Ascolta, l’articolo che quegli stronzi del “Post” hanno pubblicato stamattina sta mettendo la strizza un po’ a tutti. Ho chiesto alla stampa di calmarsi, di concederci un minimo di vantaggio prima di scatenarsi, ma sai bene anche tu come lavora quella gente, getteranno l’intera città nel panico. Se si comincia a credere che abbiamo a che fare con un Seever Junior, succederanno un sacco di guai. Ricordi anche tu com’era sette anni fa.»
Hoskins chiude gli occhi. Ricorda bene le settimane precedenti l’arresto di Seever, quando la città aveva perso la testa. Tutti avevano paura, e se la prendevano gli uni con gli altri. Le vendite di armi da fuoco erano andate alle stelle. La gente moriva in casa propria, solo perché andava al gabinetto in piena notte senza accendere la luce e spaventava un altro membro della famiglia. Si comportavano tutti come se Jack lo Squartatore fosse calato a Denver, nell’attesa costante di sapere di un’altra sparizione, di girare l’angolo e trovarsi davanti un mostro ghignante armato di coltello; nessuno si aspettava che il mostro fosse Seever il Pagliaccio, vestito di tutto punto e comodamente seduto al volante della sua auto tedesca d’importazione.
«L’ultima vittima è Carrie Simms» soggiunge rapido Black. Come se volesse far uscire al più presto le parole, togliersi un cattivo sapore di bocca.
«Carrie Simms.» Il cuore di Hoskins fa un salto mortale nel petto, viscido e fulmineo, poi si placa.
«La Simms, Hoskins. La ragazza che era riuscita a fuggire.»
«So benissimo chi è. Sicuro che non si sia suicidata?» domanda. È l’unica cosa che gli viene in mente: a volte le donne come Carrie Simms non si riprendevano mai dai traumi, e lei era incasinata già prima che Seever le mettesse le mani addosso. Sette anni erano una lunga attesa per un suicidio, ma non si poteva mai sapere come agivano le persone, o quanto potevano aspettare per farlo. A volte un essere umano non era che una bomba a orologeria ticchettante, e a volte impiegava del tempo a esplodere.
«Non è suicidio.»
«Fanculo.»
«È quello che ho detto anch’io. Ti mando un messaggio con l’indirizzo. Loren è già sul posto.»
«Okay.»
«Non credevi davvero che ti avrei lasciato laggiù ad ammuffire per i prossimi vent’anni, giusto?» chiede Black. «Non avrai pensato di esserti liberato di tutto questo per sempre?»