7 dicembre 2015
Senza Ted nell’ufficio accanto il piano sotterraneo è silenzioso, e sembra più buio del solito. Probabilmente è soltanto un’impressione. Quando Hoskins arriva trova una cartella marroncina sulla sedia. Contiene qualche pagina di appunti scritti a mano, stesi da Loren nella sua elegante calligrafia su carta bianca da stampante, e un post-it giallo sul primo foglio. Vuoi darci un’occhiata?, dice. È quanto di meglio siano riusciti a raccogliere gli idioti della squadra speciale. Oggi sono fuori ufficio, devo andare a Pueblo. Ci è stato segnalato che Cole potrebbe nascondersi lì.
Hoskins sfoglia le pagine, fa scorrere il dito lungo la nota introduttiva e scoppia a ridere. Idioti, Loren ha ragione. Se una squadra speciale non riesce a produrre una lista di sospetti migliore di questa, la città è davvero nei guai.
Il sospetto è un maschio, dichiarano le note. Ma davvero? Dai diciotto ai cinquantacinque anni, che a Hoskins sembra una forbice ragguardevole. Razza bianca. Un uomo con profonde perversioni sessuali e un forte complesso di inferiorità, come quasi tutta la popolazione maschile di Denver. Poi arriva la lista di nomi su cui indagare. È un elenco breve. Ogni indagine ha un punto di partenza, non accade casualmente; un caso viene costruito mattone su mattone, finché non si apre un’altra porta e non si rivela un’altra possibilità. Ma questi nomi fanno ridere.
Il primo è Tom Bird, un uomo d’affari locale nonché candidato sindaco alle imminenti elezioni comunali. Passa molto tempo a stringere mani e baciare neonati, e fa grandi discorsi sulla criminalità in città, promettendo di ridurla. Hoskins afferra una matita e tira una riga sul nome. Se Bird fosse arrivato a prendersi il disturbo di assassinare tre donne pur di promuovere il suo programma politico, be’ il suo impegno sarebbe degno di una miglior causa. Dovrebbe candidarsi alla presidenza, altro che alle comunali.
Il nome successivo è quello del pastore Jack Pelton, che aveva passato vent’anni a predicare ai fanatici religiosi della zona per poi farsi pizzicare in un racket di sesso con minorenni. La sua chiesa lo aveva espulso, ma lui sta riprendendo quota, perché a chi non piace un peccatore redento? Le chiese si riempiono ogni volta che la gente ha paura, ed è possibile che il pastore Jack stia cercando di gettare Denver nel terrore solo per far sedere qualche natica in più sulle sue panche? Hoskins tira una linea anche sul suo nome. Ci sono sistemi più facili per riempire il piattino della questua.
Persona di Interesse numero tre: Frank Costello, Esq. L’avvocato di Jacky Seever, colui che lo aveva rappresentato al processo e ne aveva incassato l’onorario, ma la cui attività andava da qualche anno a rilento. Il processo Seever gli aveva regalato un buon momento, e potrebbe essere alla ricerca di una replica: riprendere a far girare il nome di Seever sarebbe stata un’ottima pubblicità. Ma Costello ha una settantina d’anni, e si è già rotto entrambe le anche. Probabilmente non avrebbe la forza di stendere un bambino di due anni, men che meno una donna adulta. Altra riga.
Il successivo è Dan Corbin, il direttore responsabile del «Post». La diffusione del giornale è calata, lo sanno tutti, il «Rocky Mountain Post» ha chiuso i battenti già da qualche anno e il «Post» sembra incamminato nella stessa direzione. Uno scoop riguardante Jacky Seever e tre donne uccise e affidato a Sammie Peterson, la sua ex inviata di punta, equivale all’avverarsi di una polluzione notturna. Ma Hoskins ha conosciuto Corbin: è un pusillanime, uno di quelli che guardano i video di parapendio online perché hanno paura di praticarlo. È uno che gioca sul sicuro. Il tipo che nega di essersi mai fatto una pippa e poi torna a casa e se la fa in un calzino nascosto nell’armadio a muro. Il tipo che passa la sua intera vita nascondendosi dietro le parole.
Un’altra riga sul nome di Corbin.
Hoskins sa qual è l’idea di Loren e della sua squadra speciale: che l’Assassino di Seconda Mano uccida per rendiconto personale. Magari economico, o per acquistare notorietà. A Denver il nome di Seever ha un certo peso, nel sentirlo la gente drizza le orecchie e presta attenzione. Ma Hoskins è stato a casa di Carrie Simms, e ha visto il suo corpo. Ha visto le sue ferite, ha visto quelle impronte insanguinate sulla moquette. E quelle parole sul muro. La scena gli fa ripensare alla volta che aveva visitato un terreno in Texas in cui i corpi erano stati lasciati esposti alle intemperie, così che medici e detective e chiunque ne avesse motivo potessero vedere come si decomponeva un cadavere. La chiamavano la fattoria dei corpi, definizione che Hoskins aveva trovato terribile. Sembrava più adatta a un locale di spogliarelli, e in realtà lui non ricorda granché di quella visita a parte un corpo di donna in un prato di fiori di campo. L’orlo del suo vestito svolazzava al vento, e le orbite vuote degli occhi sembravano fissare il cielo. Intorno a lei era stata eretta una gabbia di rete metallica per bloccare l’accesso agli animali e impedire che la trascinassero via.
«Ciascuno di questi corpi ha qualcosa da raccontare» aveva detto il responsabile del sito durante la visita. «Dovete solo imparare ad ascoltarli.»
Hoskins ha salvato sei foto di Carrie Simms sul cellulare, quasi tutti primissimi piani. Guardarle gli fa pulsare il sangue nelle tempie, e a un tratto pensa che forse è arrivato il momento di concedersi una pausa, di uscire e fare qualche giro del parcheggio. C’è un’immagine dei tagli intorno ai polsi lasciati dalla corda che la immobilizzava, un’altra della parte posteriore del cranio sfondata come una zucca vuota. Ce n’è una della mano destra priva delle ultime tre dita. Le altre sono dello stesso genere a eccezione dell’ultima; Hoskins deve averla scattata involontariamente e in movimento, perché è sfocata come se qualcuno avesse passato le dita su un acquerello ancora fresco. È un primo piano del viso di Carrie Simms, ed è abbastanza sfocato da farla sembrare ancora viva: pare quasi che stia ridendo, o forse urlando.
Quello che Hoskins pensa che stia cercando di dirgli, e che sta sfuggendo a Loren e alla squadra speciale, è questo: l’Assassino di Seconda Mano potrebbe aver cominciato a uccidere per il proprio rendiconto personale, ma a questo punto non sembra più così. Ormai sembra alla ricerca di una cosa sola: il piacere. Nessuno tortura una vittima per giorni a meno che non goda nel farlo, e l’omicidio Simms rivela una sorta di eccitazione parossistica. Hoskins chiude gli occhi e ripensa al tostapane coricato su un fianco, ammaccato e coperto di capelli, sangue e ossa. Chiunque egli sia, l’assassino ha assaggiato il piacere e ha scoperto di gradirlo. Ha stuprato le sue tre vittime, le ha torturate e uccise in modo crudele e prolungato.
E lo farà di nuovo.
C’è un altro nome in lista: è ridicolo, ma in qualche modo non lo è.
Jacky Seever.
«Sai cosa mi piace di te, Paulie?» gli aveva detto un giorno Seever. Era stato durante uno dei loro ultimi incontri, prima dell’inizio del processo ma quando ormai Hoskins aveva ottenuto tutto il possibile da Seever, anche se a volte sembrava vero l’opposto, come se fosse Seever a strizzare lui come un vecchio canovaccio da cucina. «Tu capisci. Non come Loren. Tu mi capisci.»
«Mi sa che sei confuso. Non sono qui per capirti. Sono qui perché devo. È il mio lavoro.»
«Non lo so» aveva sorriso Seever. «Credo che a una parte di te piaccia stare qui con me.»
«Non direi proprio.»
«Ti masturbi mai pensando a quello che ti racconto, Paulie?»
«Che cosa?»
«Vedo la tua espressione mentre parlo. Ho la sensazione che non ti dispiacerebbe provare certe cose.»
«Non sono come te. Non farei mai quello che hai fatto.»
«Oh, non ne sarei tanto sicuro. Hai del potenziale, lo vedo.»
È importante ricostruire le ultime fasi della vita di una vittima, i giorni, le ore e addirittura i minuti precedenti la sua morte. Ciò può essere problematico, poiché non sempre puoi sapere quello che ha fatto una persona. Non puoi sapere con chi ha parlato o a cosa stava pensando, nemmeno la tecnologia più aggiornata è in grado di catalogare ogni secondo di ogni minuto di ogni ora della giornata di qualcuno, anche se Hoskins è sicuro che la Apple ci stia lavorando.
Come alcuni dei vecchi casi sulla sua scrivania. Omicidi commessi dieci, venti, trent’anni prima. Non si può certo prendere il telefono e chiedere a qualcuno dove si trovasse o cosa stesse facendo un giorno di diversi decenni prima. Il tempo passa, le persone dimenticano, le prove finiscono distrutte. E anni dopo i casi finiscono sulla sua scrivania.
«Non abbiamo un cazzo» dice Loren. Sono in una sala riunioni del distretto, Loren su un lato del tavolo e Hoskins sull’altro, e stanno passando in rassegna la lista dei sospetti, punto per punto.
A Pueblo, racconta Loren, non c’era traccia di Cole. Hoskins preferisce non guardarlo perché è ancora vestito come Seever, perfettamente azzimato nel suo abito e con tanto di fiorellino all’occhiello, ma non può farci niente, perché anche se ne parlasse con Black, anche se si rivolgesse di soppiatto agli Affari Interni e presentasse reclamo, loro non farebbero che scuotere la testa e ridergli in faccia. Perché la sua lamentela riguarderebbe l’abito di Loren, i suoi occhiali e la riga nei capelli, e queste cose hanno significato soltanto per lui, perché lui rivede Seever in ogni singolo gesto di Loren, in quello che indossa, nel modo in cui fuma e succhia la saliva tra i denti. Solo lui sembra trovare allarmante tutto ciò. «Sono passati cinque giorni da quando abbiamo trovato la Simms e nessuno sa ancora niente, nessuno ha visto niente. Odio quando succede. Finiamo per aspettare che spunti fuori un’altra vittima.»
Non è che stiano aspettando nel vero senso della parola. Stanno ricostruendo gli ultimi movimenti di Carrie Simms, che però da quel punto di vista si sta rivelando il peggior soggetto immaginabile. Non aveva una carta di credito grazie a cui seguire i suoi acquisti né un cellulare che avrebbe lasciato traccia dei suoi movimenti. L’ultima volta che era stata vista ancora in vita era a scuola, all’ora di biologia. La maggior parte dei compagni di studi non sapeva nemmeno come si chiamasse, riconoscendola solo in fotografia. La Simms era un tipo riservato, non aveva amici. Erano anni che non era più in contatto con i famigliari, e nessuno, nemmeno la madre, era rimasto sorpreso dalla sua morte.
«Puoi anche stare tranquillo, non credo che dovremo aspettare molto.»
«Gesù, Paulie. Non farti sentire a dire cose simili.»
«Sai benissimo cosa sta succedendo. Il nostro amico sta inserendo la terza, sta prendendo il ritmo.»
«Secondo te perché lo fa?» chiede Loren. «Per essere al centro dell’attenzione?»
«Non lo so.»
«Sto cominciando a chiedermi se lo troveremo mai. Probabilmente in questo preciso momento si sta facendo una bella risata, pensando che siamo troppo stupidi per beccarlo.»
«Lo beccheremo.»
«Sì. Ascolta, i ragazzi della squadra faranno rapporto alle cinque. Ti va di partecipare?»
«Certo, naturalmente.»
«Spero che lo stronzo sappia quante ore stiamo passando su di lui. Una cosa del genere gli farebbe piacere, soddisferebbe il suo ego.»
«Come no» dice Hoskins passandosi un dito sull’osso del sopracciglio, ancora indolenzito dal pugno di Loren. «Dammi un minuto, ti raggiungo giù.»
Loren gli scocca un’occhiata prima di andarsene, ma lui non se ne accorge. È troppo occupato a riflettere: ha l’esasperante sensazione che ci sia qualcosa che gli sta sfuggendo, come una parola sulla punta della lingua che non vuole saperne di uscire. Quello che Loren ha detto sull’ego ha acceso una lampadina, un’intuizione a cui non riesce a dare corpo, e che si spegne in un attimo, senza che lui riesca a capire cosa possa essergli sfuggito.