A Denver vivono seicentomila persone. Forse sono troppe. Una quantità di nuovi arrivi dalla California, è quello che dicono i residenti. Un’invasione di gente della West Coast, con il loro modo assurdo di guidare e le loro idee sinistrorse. Ecco perché la città sta andando a rotoli, dicono i nativi. Ecco perché i prezzi delle case vanno alle stelle, ecco perché la gente viene uccisa. Guardate cosa succede a Los Angeles. Tutta quella violenza. E adesso è arrivata anche qui.
Ma in realtà può succedere ovunque.
Per esempio: una strada tranquilla alla periferia della città. Le villette sono piccole e vecchiotte, quasi tutte di mattoni, i giardini sono ampi. A un isolato di distanza c’è una scuola elementare dove i bambini giocano all’aperto senza che gli adulti li controllino troppo da vicino. Oggi però non ci sono bambini fuori, perché sono quasi tutti a scuola e gli altri sono a casa, probabilmente davanti alla televisione. Fa troppo freddo per giocare all’aperto. Molte delle case sfoggiano decorazioni natalizie, più che altro luci e ghirlande, e una ha esposto un presepe di plastica sul prato. Non è a grandezza naturale ma quasi, e Gesù Bambino è stato rubato e sostituito con un cartone di latte vuoto e avvolto in una coperta, anche se nessuno ancora se n’è accorto. È un bel posto in cui abitare, non troppo lontano dalle luci scintillanti della grande città, ma distante a sufficienza. Un buon quartiere in cui fare famiglia.
C’è un uomo che cammina in strada (in termini legali è un uomo, ha vent’anni compiuti, ma ha anche la faccia sfregiata dall’acne e le braccia ossute di un ragazzo). È pallido e minuto, e avrebbe bisogno di lavarsi i capelli. Nei prossimi anni si rafforzerà, comincerà ad andare in palestra e a sollevare pesi e a ingerire molte proteine, e la domenica laverà la macchina a torso nudo perché tutti possano ammirare i risultati.
O meglio, farà tutto questo se vivrà abbastanza a lungo.
Si chiama Jimmy Galen; non possiede una macchina e deve recarsi ovunque a piedi, puntandoli in una direzione e partendo. Non gli piace camminare sulle strade principali, cerca di percorrere sempre vie secondarie e scorciatoie, attraversando quartieri e giardini pubblici, scavalcando steccati, costeggiando canali di scolo. Non gli piace far vedere che non ha una macchina, non gli va di pensare alle occhiate impietosite che gli automobilisti gli rivolgono vedendo come ingobbisce le spalle nel vento, come strizza gli occhi al sole. E così prende le strade secondarie, nella speranza di non incrociare nessuno che conosce.
«Che ti importa di quello che pensa la gente?» chiede sua madre quando lui se ne lamenta. «Che problema c’è a camminare?»
«Non puoi capire» risponde lui. «Non sei tu che devi farlo.»
Ed è vero, perché sua madre un’auto ce l’ha. Jimmy le vuole bene e non vuole litigare, ma come può cavarsela senza quattro ruote in questa città? Come può trovarsi una ragazza?
«Sei ancora giovane» gli dice sua madre. «Camminare ti fa bene.»
«Tu la macchina ce l’hai.»
«Devo andare al lavoro.»
«Anch’io. Potresti comprarne una anche a me.»
Lei sbuffa dal naso e torna a guardare il telegiornale. Non guarda altro da giorni, fin da quando è stata uccisa Carrie Simms. Non è passato molto dai tempi in cui non voleva parlare di Seever né sentirlo nominare, perché sepolto sotto quel vespaio avrebbe potuto esserci il suo Jimmy, il nome di suo figlio avrebbe potuto essere uno dei tanti su quella lista.
«L’avevo incontrato una sola volta» spiegava Jimmy quando lei attaccava a parlare di quei morti, di solito dopo qualche bicchiere di vino, ma lei non voleva sentirglielo dire. «Prima di trasferirci, per sei mesi avevamo abitato nella sua stessa strada. Un paio di volte gli avevo tagliato l’erba del prato.»
«Il mio Jimmy è un ragazzo fortunato» aveva detto sua madre alla bella giornalista molti anni prima, quando il processo Seever era in pieno svolgimento e tutti parlavano di lui, ed era stata così contenta di leggere il proprio nome nell’articolo che lo aveva ritagliato e conservato. «Seever non era attratto da lui, e così l’ha risparmiato.»
«Sai bene che non possiamo permetterci un’altra macchina» ribatte sua madre. «Se tuo padre fosse ancora vivo… ma non ha importanza. Non ci bastano i soldi.»
Jimmy si infila un giaccone. Non vuole assistere all’ennesimo tracollo materno riguardo a suo padre, che si era addormentato al volante in autostrada e non aveva neanche visto l’albero contro cui si era schiantato. Sono ormai passati tre anni, e lei tira ancora in ballo il marito morto ogni volta che Jimmy le chiede qualche soldo, come se col marito ancora in vita sarebbero stati milionari. Jimmy immagina che dovrà mettere da parte i soldi per un’auto, anche se ci vorranno anni per averne abbastanza da comprare qualcosa di decente. «Cavoli tuoi, se è quello che vuoi» diceva sempre suo padre.
«Esco» annuncia, ma sua madre è troppo concentrata sulla notizia di quella donna. Per un attimo pensa di staccare la spina del televisore e rammentarle che il prossimo potrebbe essere lui, che l’assassino della Simms potrebbe voler fare un’altra vittima, che è quello che hanno detto i poliziotti quando hanno chiamato, raccomandandosi che facessero attenzione e spiegando che si stavano mettendo in contatto con chiunque avesse avuto a che fare con Seever. Pensa di dirle che forse farebbe bene ad accompagnarlo al lavoro per assicurarsi che non gli accada niente. Ma se lo facesse, lei si lascerebbe prendere dalla sua immaginazione e non lo mollerebbe più un istante, pretenderebbe di accompagnarlo ogni giorno e andarlo a prendere al lavoro, e la sera sbircerebbe nella sua stanza per assicurarsi che stia bene. E così non dice niente, si limita a infilarsi il giaccone e chiudere completamente la lampo prima di uscire al freddo. È mezzogiorno, e l’Assassino di Seconda Mano o comesichiama sembra interessato solo alle donne, non c’è nulla da temere.
Fuori si gela. Jimmy non ha mai sentito un freddo simile. Di solito si sta bene, ma questo… questo è un freddo speciale. Non sufficiente a far chiudere le scuole, non ancora, ma probabilmente domani scatterà l’emergenza: non vogliono che i ragazzi si becchino i geloni mentre aspettano l’autobus o vanno a scuola a piedi. Ma quanto meno adesso sono tutti al calduccio, in classe, non qui fuori con lui mentre arranca tra i cumuli di neve che quegli stronzi dei vicini non spalano mai via dal marciapiede, tanto che ora che arriverà al lavoro avrà i piedi completamente fradici e non sarà in grado di sentirli finché non cominceranno a scongelarsi, facendogli un male del diavolo.
È soprattutto pensando ai suoi piedi che Jimmy decide di prendere l’autobus, anche se detesta i trasporti pubblici. Odia i mezzi superlunghi che la città ha adottato, simili a due vermi collegati da una fisarmonica, e odia il fatto che malgrado siano quasi tutti nuovi di zecca, chissà perché puzzano comunque di piscio. I sedili di plastica sono lucidi e non hanno pezzi di gomma da masticare appiccicati, i pavimenti sono per lo più puliti, ma l’odore persiste. Come se un tizio si fosse piantato nel bel mezzo dell’autobus, nella fisarmonica che unisce le due parti, si sia calato la cerniera e abbia pisciato tutto intorno.
Ma quello che Jimmy Galen odia più di qualsiasi altra cosa dei mezzi pubblici è il fatto che tutti possono vederlo a bordo. Tutti. E prendere l’autobus è forse ancora peggio che andare a piedi, specie se i tuoi amici ti vedono, e ti sfrecciano davanti mentre sei in attesa sotto la pensilina e ti mostrano il dito, gridando e ridendo, perché a loro i genitori hanno comprato la macchina mentre tu sei solo uno sfigato che aspetta l’autobus per andare al centro commerciale, dove vendi merdosi cimeli sportivi ad altri sfigati come te o a vecchi solitari che non sanno come spendere meglio i loro soldi.
«Se ti iscrivessi all’università serale, potrei lasciarti usare la mia auto per andare ai corsi» le ha detto sua madre quest’autunno, quando tutti erano tornati a scuola e le strade sembravano deserte.
«Mi sono appena diplomato.»
«Due anni fa» ha precisato con uno sbuffo dal naso. «Di questi tempi, se vuoi trovare un buon impiego devi avere una laurea.»
«Tu non ce l’hai.»
«Allora le cose erano diverse. I tempi sono cambiati.»
«Ci penserò.»
Ma Jimmy non ci ha pensato, perché il college non gli interessa. Il college è per gli intelligenti, per i cervelloni, e lui non è così brillante. Se non altro è quello che gli diceva sempre suo padre, e che avevano confermato anche i professori del liceo. A dire il vero, i professori del liceo dicevano sempre che Jimmy non esprimeva il suo intero potenziale, il che tradotto significava che era un coglione, che poi era quello che diceva suo padre. E anche se sua madre gli ripeteva sempre di non crederci, dicendogli che in realtà nessuno lo capiva, Jimmy pensava che probabilmente avevano ragione tutti gli altri. Alle medie aveva passato un intero anno a chiedersi se era ritardato, ma ritardato vero, per poi rendersi conto che era semplicemente stupido. Non abbastanza da trarre beneficio dalla mancanza di cellule cerebrali, ma scemo a sufficienza. Dunque perché buttare via i soldi per il college? Jimmy immagina che continuerà a lavorare nel negozio, facendo carriera lì dentro. Non è male come impiego, e i suoi colleghi non gli dispiacciono. Sono gentili con lui, non lo fanno sentire un cretino. Jimmy sta molto meglio senza quegli stronzi dei suoi ex compagni di scuola, che lo trattavano come un sacco da boxe. Si farà nuovi amici, diventerà il direttore del negozio. Troverà un appartamento e una ragazza.
Sta pensando a queste cose mentre aspetta l’autobus, infagottato in un angolo della pensilina con le maniche del giaccone abbassate a coprire le mani, la faccia sepolta nel colletto, il suo alito umido sul tessuto. È solo, perché chiunque altro è abbastanza furbo da non uscire con un clima simile oppure possiede un’automobile. Jimmy è talmente immerso in questi pensieri, così furioso per il fatto che sua madre spenda centinaia di dollari al mese per il vino in scatola e non prenda neanche in considerazione l’idea di cofirmare una richiesta di prestito per una macchina in più, che si accorge a malapena che qualcuno è entrato nella pensilina e gli si è seduto accanto, malgrado ci siano altre tre panchine di metallo libere. Non si accorge di niente finché non sente qualcosa di appuntito che gli penetra nel fianco, bucando il giaccone e la maglietta e la sua pelle.
«Cazzo fai?» esclama cercando di balzare in piedi, ma il tizio gli ha afferrato il retro del collo con una mano e con l’altra gli sta affondando il coltello nel fianco. L’anno prima uno degli amici di Jimmy si era ferito accidentalmente a una coscia durante una festa, e aveva raccontato a tutti che aveva impiegato un po’ ad avvertire il dolore, che non aveva sentito niente finché non aveva abbassato gli occhi e visto il coltello da bistecca che gli sbucava dalla gamba. Ma ora Jimmy capisce che sono tutte balle, perché il dolore è istantaneo, anche se il coltello non può essere affondato più di un paio di centimetri, forse meno.
«Non faccio niente» sibila il tizio. «Niente di niente.»
«Non ho un soldo in tasca» dice Jimmy. Sta sudando, grosse gocce che gli percorrono la schiena e gli si infilano tra le chiappe. «Prendi pure il portafoglio, ma dentro non c’è niente.»
«Non voglio i tuoi soldi.» Quando Jimmy ha cercato di girarsi il tizio ha aumentato la stretta dietro la sua nuca, e così ora non può fare altro che fissare la neve che cade. Il tizio ha un alito da fumatore, e porta un’acqua di colonia che Jimmy ha già sentito da qualche parte, o magari è un dopobarba.
«Allora cosa vuoi?»
«Oh, lo vedrai.»
Finirò per pisciarmi addosso, pensa Jimmy. Non ha mai avuto tanta paura in vita sua, e sente che la vescica sta per cedergli, che si bagnerà calzoni, gambe e scarpe. Magari, si dice, più tardi ne riderò: pensavo che sarebbe stata la neve a infradiciarmi le calze, non potevo certo immaginare che sarebbe andata anche peggio. In questo momento, l’idea di avere un po’ di neve nelle scarpe sembra un lusso.
«Ecco quello che succede a prendere ’sti cazzo di mezzi» dice.
«Zitto.» Il tizio lo costringe ad alzarsi e uscire dalla pensilina, di nuovo al freddo. Non c’è nessuno in giro, nessuno a cui chiedere aiuto, non ci sono neanche auto di passaggio. È come se fossero tutti morti, come se loro due fossero i soli sopravvissuti sul pianeta, in cammino sul terreno ghiacciato sotto un cielo grigio ardesia. Gli fa venire in mente quella serie tv che piace tanto a sua madre, quella in cui sono quasi tutti morti e le strade sono percorse da zombi caracollanti. Guardando quella serie, il fatto che siano tutti morti ti sembra quasi una figata, ma questo è diverso, questo non va bene, questo non gli piace per niente.
«Dove stiamo andando?» domanda, ma ormai è troppo tardi, il tizio gli ha dato uno spintone e gli sferra un calcio dietro il ginocchio, facendolo cadere in avanti nel bagagliaio aperto di una macchina parcheggiata lungo la strada col motore acceso, un gran bel trucco, facile facile, come se avesse programmato tutto, avesse provato ogni mossa fino a perfezionarla. Jimmy cerca di drizzarsi a sedere, di alzarsi, di fuggire, ma non ci riesce perché è disteso su un tessuto scivoloso, e prendendolo tra le dita capisce che è seta, ne vede i colori vivaci e i pon-pon di peluche cuciti sul davanti come quelli di un pagliaccio. Ma non sta troppo a pensarci, perché deve uscire da questo bagagliaio, ha sentito dire che la cosa da evitare è che uno psicopatico ti porti via, in un luogo isolato dove può fare di te quello che vuole, e malgrado l’avvertimento sia di solito rivolto alle ragazze, Jimmy pensa che probabilmente valga anche per lui.
«Ehi…» comincia a dire, e…
Jimmy preferirebbe essere morto, e pensa che prima o poi succederà. Non sa dove si trova, né quanto tempo è passato. È stanco, ha fame e sta soffrendo. E ha freddo. Non sa quando è stato spogliato, ma non ha più uno straccio addosso, nemmeno le calze, e deve trovarsi in una cantina o in un sotterraneo, perché il pavimento è di cemento grezzo e ogni volta che il tizio sale o scende nel locale accanto può sentirne i passi sui gradini di legno della scala.
«Non sono gay, voglio che tu lo sappia» gli dice l’uomo accovacciandosi accanto a lui e lasciando penzolare le mani tra le cosce come se stessero avendo una conversazione normale, e Jimmy annuisce, perché non gli interessa, non gliene frega un cazzo fritto se il tizio è gay o no, vuole solo andare a casa. Vuole dormire di nuovo nel suo letto e mangiare il polpettone e il purè di patate di sua madre, e non le chiederà più di comprargli una macchina, mai più, se solo potrà tornare da lei. «Non lo sto facendo per te.»
«Non lo so» gracchia Jimmy. Ha sete, e ha gridato talmente tanto che la gola gli si è gonfiata fin quasi a chiudersi. Sa che ha dato una risposta senza senso, ma non ha importanza, perché il tizio annuisce pensoso come se gli avesse appena detto quello che voleva sentire. Gli piace parlare, e a Jimmy ha raccontato della sua vita, del suo lavoro ma soprattutto di una donna.
«Lo sto facendo per lei» prosegue. Ha un attrezzo in mano, Jimmy non sa come si chiama ma ha l’aria di essere appuntito, e crudele, e pinzoso. Chiude gli occhi per non vedere, ma il tizio gli dà una serie di buffetti in faccia finché non li riapre, perché se c’è una cosa che detesta è essere ignorato. «Ha bisogno di questo, e io farei qualsiasi cosa per lei.»
«La prego, basta» implora Jimmy, ma questo tizio, chiunque egli sia, non è il genere di persona che ascolti ragione o preghiera, e così va avanti, naturale che va avanti, sembrano ore ma potrebbero essere solo minuti perché il dolore deforma il tempo, lo allunga come caramello al luna park, lo tende e lo curva su se stesso finché non c’è più un inizio e non c’è più una fine.
Appena prima di perdere conoscenza per l’ultima volta, Jimmy vede il cavalletto in un angolo, e la catasta di tele sul pavimento accanto. Ripensa a suo padre, a quando si sdraiava sul divano davanti alla tele e metteva su un DVD di quell’insegnante di pittura, quello che era morto da un pezzo ma di cui suo padre aveva ordinato l’intera collezione di video, quello con i capelli afro e la voce pacata, e quasi sempre si addormentava, dicendo che il suono sommesso dei pennelli sulla tela lo tranquillizzava. Cos’era che ripeteva sempre, quel tizio con i capelli afro? Jimmy prova a ricordare, non ha la forza di aprire gli occhi ma deve saperlo, riesce a rammentare le calze bianche di suo padre sul bracciolo del divano e il modo in cui sua madre cercava di fare piano per lasciarlo riposare, e Jimmy a volte si sedeva per terra e sgranocchiava un pacchetto di cracker guardando il tizio che dipingeva e grattava via le figure degli alberi e le ombre, ed erano bei tempi, quelli, forse i migliori che abbia mai avuto.
«I nostri non sono errori.» Ecco cosa diceva quel tizio: Jimmy ricorda, e il ricordo lo fa sorridere. Ha la bocca piena di sangue ma sorride lo stesso al pensiero che è riuscito a ricordare, anche se le parole sembrano giungere da una vertiginosa distanza. «Sono solo lieti contrattempi.»