19 dicembre 2008

Se fosse un film, comincerebbe con questa inquadratura: due uomini che scendono da una vecchia berlina marrone, vestiti con abiti d’occasione e scarpe ancora più economiche. Uno di loro porta un cappello, un panama nero, che gli dà l’aria del viaggiatore nel tempo appena arrivato dagli anni Venti. Ma non siamo nell’era del Proibizionismo, e non siamo a Miami; siamo a Denver nell’anno 2008, e fuori fa freddo, tanto che l’uomo col cappello fa la figura dello stupido, anche se non glielo diresti mai in faccia, soprattutto se ci tenessi a mantenere intatto il culo, perché quest’uomo potrà anche sembrare uno stupido ma in realtà è un vero bastardo, cosa che puoi capire subito guardandolo bene negli occhi. Potresti pensare che sia stata una donna a regalargli quel cappello, sfidandolo a indossarlo, dicendogli che gli sarebbe stato bene, che gli avrebbe dato un’aria distinta, ma ti sbaglieresti. L’uomo si chiama Ralph Loren, un nome che sembra uno stupido scherzo ma non lo è, e comunque nessuno prende in giro il detective Loren, nessuno, non puoi permettertelo nemmeno se sei graziosa, giovane e con due tette così. Loren non ha alcun senso dell’umorismo: non è che abbia uno spirito strano o cattivo, non ce l’ha e basta. È nato senza questa componente interiore, e la vita è dura senza qualche risata sparsa qua e là, ma è anche vero che uno non sente la mancanza di quello che non ha mai avuto. O almeno è così che si dice.

Ma è l’altro uomo che dovresti osservare bene, quello che scende dal lato destro dell’auto, quello alto con due ampie spalle e un’ombra di barba sul volto. Aggira il cofano della vettura senza nemmeno evitare la neve sporca ammucchiata sul marciapiede ma attraversandola deciso. Se ne pentirà più tardi, di ritorno alla sua scrivania, quando si ritroverà le calze fradicie e fredde e i piedi gelati. Paul Hoskins è il genere di uomo che non pensa troppo a ciò che fa e se ne pente in seguito. Lo è sempre stato e lo sarà sempre, fino alla fine dei tempi, amen.

«Finalmente ci siamo, eh?» dice Hoskins alzando gli occhi sulla casa che sono venuti a visitare. È una grande villa di mattoni, più alta che larga, con un ampio bovindo affacciato sul prato davanti. È una costruzione tradizionale, diversa da quelle che di norma si vedono a Denver; il quartiere in cui si trova risale agli anni Ottanta, edificato in fretta e furia per le masse di nuovi arrivati da ogni dove (a sentire la gente del luogo erano quasi tutti californiani, nient’altro che cretini del tutto incapaci di guidare), ma la casa in cui stanno per entrare non ha l’aspetto dozzinale di alcuni degli altri edifici nella stessa strada. Il terreno che la circonda è disseminato di alberi e cespugli ben distribuiti, anche se in questa stagione il fogliame è sbiadito e scuro, e ragnatele di luci natalizie colorate si intrecciano sui rami. Sul retro c’è perfino un laghetto artificiale con un moletto di assicelle e una barca a remi a due posti. Nello stagno ci sono pesci e rane, ma ora la superficie dell’acqua è coperta da un sottile strato di ghiaccio, e Hoskins si domanda se l’intera fauna debba essere rimpiazzata ogni anno, se ogni primavera arrivi un furgone carico di scatole termiche di polistirolo piene di nuove creature. «Andiamo a prendere il fetente?»

Loren sospira, scosta il lembo della giacca e stacca la cinghia che tiene fissa la pistola nella fondina per poterla estrarre più rapidamente in caso di bisogno. I due uomini sono poliziotti, detective e colleghi; lavorano insieme da molto tempo e resteranno insieme ancora un po’, ma nessuno dei due è particolarmente affezionato all’altro. A tenerli uniti è il fatto che lavorano bene, funzionano, e ciò accade meno spesso di quanto dovrebbe. Un buon rapporto tra colleghi somiglia molto a un buon matrimonio, e come può confermare chiunque un buon matrimonio è una cosa rara.

Ma anche nel migliore dei matrimoni le cose possono precipitare.

«Era ora» dice Loren. «Se non dovrò più rivedere questo pezzo di merda, morirò felice.»

Risalgono il lungo vialetto di accesso, che è stato sgombrato dalla neve dal figlio dei vicini per dieci dollari, e arrivano alla porta. È grossa e solida, di quercia, e la finestrella di vetro opaco su un lato è scura. È presto, qualche minuto prima delle sette del mattino, e c’è un gran silenzio. L’interno della casa sembra buio e senza vita, ma Hoskins avverte un vago profumo di caffè caldo che gli fa brontolare lo stomaco.

«Pronto?» chiede Loren.

«Sì.»

«Sì?» ripete beffardo. «Ma quando ti scenderanno i testicoli? Hai una vocetta che fa venire voglia di prenderti a pugni.»

Hoskins non ribatte. Sono dieci anni che sopporta queste stronzate da parte di Loren, e ha imparato che è meglio non reagire. È più sicuro. Loren è sempre pronto a smerdare chiunque sia in ascolto, ma non tollera che a farlo siano gli altri. Il loro ultimo scontro risale a tre anni prima, quando Hoskins aveva fatto una battuta sulla madre di Loren (perché è così che devi fare se vuoi provocare qualcuno, gli prendi di mira la mamma, anche se non la conosci, anche se è già morta) e questi gli aveva rotto il naso. C’era stata un’indagine e un ammonimento ufficiale. Qualche seduta con lo psicologo del dipartimento. Ma presto erano stati di nuovo costretti a lavorare insieme. E se Hoskins ha imparato una cosa riguardo al suo collega, è questa: è sempre meglio tenere la bocca chiusa. Non che abbia paura di Loren, perché in caso di rissa riuscirebbe a farsi valere; ma alla resa dei conti (espressione in cui fin dall’età di nove anni aveva sempre visto un che di violento) trova che se non c’è niente da dire è meglio non parlare. Suo padre soleva dirgli che avrebbe dovuto tenere più spesso la bocca chiusa, e aveva ragione: spesso il silenzio facilita le cose, le rende più semplici.

Loren suona il campanello, premendo il pollice sul tasto illuminato con tale forza da sbiancarlo fin sopra la prima nocca, poi comincia subito a bussare. Non è un tipo paziente. È una pentola d’acqua pronta a bollire sul fuoco, un palloncino troppo gonfio. Il suono sordo dei suoi pugni sul legno della porta fa venire il mal di testa, ma Hoskins non dice nulla.

Passa del tempo (una trentina di secondi o qualche minuto, Hoskins non lo sa) prima che la porta si apra. A quest’ora del mattino Hoskins immaginava di trovare Jacky Seever in vestaglia, o magari addirittura con un paio di mutande ingiallite sul davanti; invece indossa un abito come sempre. Seever è il tipo di persona che porterebbe un abito anche per tagliare l’erba in giardino; probabilmente dorme vestito. Completi tre pezzi, tutti invariabilmente grigio ardesia o blu scuro, giacca, pantaloni e panciotto con una cipolla d’argento nel taschino. Sono tutti ben tagliati e costosi e gli danno l’aspetto dell’uomo di mondo, e potrebbero essere il motivo per cui Hoskins lo odia tanto, perché lui non si è mai potuto permettere abiti simili col suo stipendio da sbirro, ma ci sono anche altre ragioni. Ci sono i suoi vestiti, certo, ma anche le sue unghie, sempre perfettamente tagliate e curate, e i capelli con la riga da una parte e coperti di lacca fino a diventare duri come l’asfalto. E gli occhiali: Gesù Cristo, quegli occhiali con la montatura metallica e le lenti fotocromatiche che si scuriscono alla luce sono stati la prima cosa che Hoskins ha odiato di Seever. Quei cazzo di occhiali. Chiunque porti occhiali come quelli di sua spontanea volontà dev’essere uno stronzo. Hoskins è cresciuto in povertà, e prova un disprezzo naturale per i bellimbusti che fanno mostra del loro denaro, e Seever è uno di questi; ma è anche qualcosa di peggio, perché è ricco ma è pure una serpe. Un fasullo, come diceva sempre il suo vecchio.

«Signori?» esordisce Seever. Dice a tutti di chiamarlo Jacky, ma Hoskins non ci è mai riuscito. Per lui, questo lurido stronzo non sarà mai altro che Seever. «Un po’ prestino, no? Posso fare qualcosa per voi?»

«Oh, ciccione di merda» ribatte Loren in tono gioviale, facendo un passo avanti così da costringere Seever a indietreggiare e lasciarli entrare. Seever è basso di statura, e non riuscirebbe a impedirglielo nemmeno se ci provasse, e così non lo fa. «Sai benissimo perché siamo qui.»

Sul davanti del panciotto di Seever c’è uno sbaffo di zucchero a velo, e tra le nocche si vede una traccia di marmellata di fragole. Sciatteria. Negli ultimi tempi mangia più del solito, e con maggiore frequenza. I due detective l’hanno visto entrare in ristoranti e minimarket e uscirne con contenitori fumanti di cibo take-away e confezioni da sei di Diet Coke. Seever mangia quando è sotto stress, e rendendosi conto che la polizia lo sta sorvegliando a ciclo continuo per cercare di incastrarlo ha cominciato a esagerare. Nel corso dell’ultima settimana è visibilmente ingrassato. Il suo ventre molle sporge sopra la vita dei calzoni e tende i bottoni del panciotto di tweed. Il completo starebbe bene a qualcuno un po’ più in forma, forse anche a lui stesso fino a qualche tempo fa, ma ormai è troppo stretto, e la camicia non riesce a coprire del tutto la parte bassa della pancia, coperta da ispidi peli neri e segnata da smagliature violacee. Una sorta di scollatura a rovescio.

Hoskins segue il suo collega dentro casa, fermandosi quel tanto che basta a consegnare un foglio a Seever. È un mandato di perquisizione. Dichiara che sono in cerca di marijuana, ma in realtà non gliene frega niente della droga. Per quanto li riguarda, le pareti della cucina potrebbero essere composte di mattonelle di Mary Jane. Avevano semplicemente bisogno di entrare in quella casa, e avevano perso settimane ad aspettare che Seever facesse una cosa qualsiasi che non fosse riempirsi la pancia e grattarsi il culo, e quello era il meglio che il giudice Vasquez era riuscito a trovare. Il meglio che qualsiasi giudice sarebbe stato disposto a concedere, perché Loren non piaceva a nessuno di loro; lui se ne sbatteva altamente, ma a volte questo rendeva le cose un po’ difficili, e così era stato Hoskins a chiedere il mandato, era stato lui a elargire sorrisi e spiegare la situazione, a elemosinare il loro aiuto. Con Loren era così, lo era sempre stato. Lui voleva quello che voleva, e qualcun altro doveva procurarglielo.

«Erba?» chiede Seever reggendo il mandato tra indice e pollice manco fosse un pezzo di carta igienica usata. Lo legge e ride, un suono come di vetri rotti. «Qui non ne troverete.»

«Non c’è problema» ribatte Loren. Sta sorridendo, o almeno ritraendo le labbra dai denti, anche se nel farlo sembra più un cane rabbioso che un uomo. «Ho l’impressione che troveremo quello che cerchiamo.»

Seever richiude la porta, confinando fuori la fredda luce del mattino, e per un attimo Hoskins non vede più nulla. Il che non va bene. Gli scuri sono tutti chiusi, l’interno della casa è buio. I suoi occhi non hanno avuto il tempo di abituarsi. Si chiede se Seever lo sappia, se sfrutterà il momento per dare fuori di matto e cercare di uccidere i due poliziotti che sono venuti a prenderlo per rinchiuderlo per il resto dei suoi giorni. Ma Seever non si muove, resta fermo davanti alla porta con le mani abbandonate lungo i fianchi, perché in realtà, comunque si atteggi o qualunque cosa dica, Seever è un codardo.

«Da dove volete cominciare?» domanda. Il suo tono è gioviale e sereno. «Dal piano di sopra? Gloria è da sua madre per il fine settimana, sicché potete…»

«Il vespaio» dice Loren. «Voglio cominciare da lì.»

Ma il vespaio, quella stretta intercapedine sotto la casa, è allagato, ridotto a una distesa d’acqua maleodorante disseminata di detriti non identificabili e chiazze galleggianti di grasso. In piedi davanti all’apertura sul pavimento della lavanderia, Hoskins guarda giù nel vespaio, e osserva i loro volti riflessi sull’acqua nera, agita la mano e viene imitato dal suo gemello più in basso.

«La pompa della fossa biologica è rotta» dice Seever sorridendo. È un sorrisetto furbo, pensa Hoskins. Come se fosse riuscito a fregare tutti. «Volevo chiamare un idraulico, ma non ne ho avuto il tempo.»

Loren si porta il pugno alle labbra e dà un colpo di tosse catarrosa. Ha un raffreddore che non vuole lasciarlo in pace, un po’ a causa della stagione, un po’ per tutte le ore che ha passato all’addiaccio, seduto in macchina a osservare Seever nell’attesa di questo momento. Hoskins e Seever attendono pazienti che smetta di tossire e si pulisca la bocca con il vecchio fazzoletto che si è sfilato di tasca.

«Ti credi molto furbo, vero?» domanda alla fine. «Pensi di averci fregati, ma io non mi lascio abbindolare.»

«Cosa sta dicendo?» fa Seever, ma nel suo sguardo si sta facendo strada qualcosa. Sta cominciando ad avere l’aria del cane intrappolato, sgrana gli occhi impauriti, e non è che l’inizio.

«Va sostituito il bocchettone» prosegue Loren. Si toglie il cappello e lo porge a Hoskins. Poi si sfila la giacca e allenta il nodo della cravatta. «Buon per te che sono capace di farlo. Il mio vecchio faceva l’idraulico e mi portava sempre con sé.»

«Chiamerò qualcuno…»

«Nah, posso prosciugarlo in un attimo» taglia corto, perché sa cosa troverà lì sotto, sotto quel pavimento e l’acqua stagnante. Lo sanno tutti. «Risparmierai una bella cifra, a non chiamare un idraulico. E io non ho fretta. E tu, Paulie? Devi andare da qualche parte?»

«No.»

«E tu, Seever?» C’è un puntino nero sugli incisivi di Loren. Un granello di caffè, o magari di pepe. «Hai un appuntamento galante?»

Seever scuote la testa. Il sorrisetto furbo è scomparso da un pezzo.

«Ottimo» conclude Loren. Si piega in avanti, si slaccia le scarpe e se le sfila. Ha un buco nella calza sinistra da cui spunta l’alluce. Getta via le scarpe, mandandone una a sbattere contro il fianco della lavatrice. Poi si siede, fa penzolare le gambe nell’apertura e si cala lentamente nell’intercapedine, a mollo nell’acqua stagnante. «Lo sistemo in un attimo, poi aspetteremo che defluisca. Magari potresti offrirmi una tazza di caffè, Seever. Sarebbe gentile da parte tua.»

A Hoskins la casa fa venire i brividi, anche se sulle prime non riesce a capire perché. Forse è lo strano odore di umido che ogni tanto gli arriva alle narici, appena coperto dal profumo di pino dell’albero di Natale o da quello di vaniglia delle candele; oppure potrebbe essere la montagna di vasi da fiori di vetro in garage, accatastati in un angolo fin quasi al soffitto, sporchi e impolverati. Ma in ultima analisi sono probabilmente le fotografie a inquietarlo più di tutto. Sono dappertutto, incorniciate e ben montate, e ritraggono quasi sempre Seever. La moglie appare di rado; lei è quella che le ha realizzate, socchiudendo l’occhio e scattando, catturando mille volte l’immagine del marito. Se i due avessero avuto dei figli, o anche solo un cane, forse l’effetto sarebbe stato diverso. Invece c’è solo Seever: con gli occhiali scuri, intento a reggere una trota scintillante d’acqua; a Disney World, un po’ impacciato all’ombra dell’enorme pallina da golf argentata; davanti al Grand Canyon o al Golden Gate Bridge. Sempre accanto a qualcosa di importante, sempre con questo o quel monumento alle sue spalle. È inquietante, vedere la sua faccia su tutte le superfici di casa, i suoi occhietti porcini che osservano chi passa.

È in bagno, mentre si asciuga le mani con lo stupido, piccolo strofinaccio con il motivo di rose, cercando di evitare le parti ruvide ricamate, che Hoskins nota la foto che campeggia sul serbatoio del gabinetto. Il motivo per cui uno dovrebbe voler guardare la propria foto mentre sta facendo i suoi bisogni gli sfugge, ma lui che ne sa? Niente.

La foto sul gabinetto ritrae Seever, naturalmente. In questo caso è in posa davanti a casa, con i muri di mattoni e l’ampio bovindo alle sue spalle, il numero civico chiaramente visibile accanto alla porta. Sorride e allarga le braccia, reggendo un mazzo di garofani rossi in una mano guantata di bianco.

È vestito da pagliaccio.

«Adoro visitare quei bambini in ospedale» aveva detto settimane fa, prima di cominciare a preoccuparsi, quando il fatto che due sbirri lo pedinassero ovunque lo faceva ancora ridere come una barzelletta. Li vedeva parcheggiati e intenti a osservarlo e si avvicinava a fare due chiacchiere, dicendo qualche stronzata sul tempo o sulle prospettive dei Broncos nel campionato in arrivo. Quella volta lo avevano seguito fino a uno dei ristoranti di sua proprietà e lui li aveva invitati a pranzo. Si erano seduti in un séparé, Hoskins e Loren su un divanetto, Seever su quello di fronte, e avevano pasteggiato con polpettone e piselli, torta di mele e caffè. «Far sorridere quei bambini: è questo che mi rende felice.»

Loro sapevano tutto del suo volontariato; lo avevano visto all’ospedale, entrare nelle stanze dei bambini in attesa di guarire oppure di concludere lì le loro vite orribilmente brevi. C’erano bambini che non pesavano quasi niente e bambini calvi, bambini che erano stati ustionati o malmenati, bambini che si erano rotti una gamba giocando all’aperto. Sulle prime avevano pensato che Seever fosse un pervertito, un pedofilo oltre a tutto il resto, ma non era così. Ai piccoli era simpatico, e faceva un buon lavoro. Era un pazzo malato, ma con i piccoli era bravo, e quando era in costume e saltellava qua e là strizzandosi il naso e facendo animali con i palloncini sembrava quasi una persona normale.

«Perché ti vesti da pagliaccio, Seever?» aveva chiesto Loren versandosi una cucchiaiata di zucchero nel caffè. «Molti bambini se la fanno sotto, quando vedono un clown.»

«Non è vero» aveva obiettato Seever. Aveva il primo bottone della camicia slacciato, e Hoskins poteva vedere il crocefisso d’oro al centro della clavicola. «I bambini adorano i pagliacci.»

«Non ne sarei troppo sicuro.»

«Oh, li adorano tutti» aveva concluso Seever ammiccando. «Sono amici della collettività. Sapete, credo che un pagliaccio potrebbe sempre farla franca.»

L’acqua impiega quattro ore a prosciugarsi, e non appena il fondo di terra morbida è visibile viene chiamato un tecnico della Scientifica. Indossa tuta di gomma, maschera e guanti gialli. Impugna una paletta, simile a quelle che si usano per piantare fiori in giardino.

Ma lui non pianta fiori. Né cerca marijuana.

È là sotto da meno di dieci minuti quando si fa sentire, agitatissimo, e questa volta è Hoskins a a scendere dall’apertura. Si tira su le gambe dei calzoni e cammina a papera fino al tecnico, che è accovacciato nell’angolo più lontano.

«C’è una puzza tremenda» lo avverte questi. «Non mi vomitare la colazione. Non quaggiù.»

È vero, il tanfo è orribile. A Hoskins ricorda quando la sua ex moglie aveva gettato del maiale crudo nella spazzatura, dicendo che era andato a male e immangiabile, e il cassonetto era rimasto per giorni sotto il sole estivo, e la carne era lentamente marcita diffondendo un olezzo che faceva rivoltare lo stomaco e impazzire i cani dell’isolato.

«Che cos’è?» domanda.

Il tecnico indica il terreno ai suoi piedi, la lieve depressione che ha creato con la paletta. Si vede un brandello di tessuto. Flanella azzurra e bianca. Probabilmente una maglietta. Il resto dell’indumento è ancora sottoterra, nascosto alla vista. Accanto al brandello, parzialmente avvolto nel tessuto, c’è un braccio. È così putrefatto che in certi punti si vede l’osso esposto, ma qua e là è rimasta della carne, e la pelle squarciata è annerita e arricciata lungo i bordi, come un pezzo di carta bruciata.

«È qui» grida Hoskins indietreggiando, allontanandosi. Il tanfo è troppo forte. Lo farà rigettare. «L’abbiamo trovato.»

Sente un tafferuglio sopra la sua testa, piedi che percuotono le tavole del pavimento. C’è un urlo di dolore, poi la voce di Loren. Hoskins non riesce a decifrare le parole, ma ne riconosce il tono, i suoni a lui noti del suo collega. E poi, più forte, a sovrastare la voce di Loren, si sente Seever. Sta piangendo.