Sammie

«Ho fatto sempre le scelte sbagliate» le era sfuggito un giorno. Stava parlando con Dean, dopo aver perduto l’impiego al «Post», quando era ancora arrabbiata e vulnerabile, e aveva riflettuto troppo tardi sulle parole che le erano uscite di bocca. «In tutta la vita non ho fatto una sola cosa giusta.»

«Troverai un altro lavoro.»

«Ma tu perché non guadagni di più?» gli aveva chiesto, ma conosceva già la risposta. Dean era un brav’uomo, ma non era abbastanza bravo. Era intelligente, ma non a sufficienza. Nello schema generale delle cose era uno dei tanti, trascurabile, aveva una posizione di basso rango in una società di marketing che aveva essa stessa una posizione di basso rango sul mercato, ed era sempre stato così. Non sapeva fare carriera, né gli interessava più di tanto. Stava bene dov’era, a rispondere al telefono e stendere fogli di calcolo o qualunque altra cosa facesse (la sua misteriosa carica era quella di coordinatore marketing, e nessuno sapeva cosa significasse), e non riusciva mai a capire perché lei puntasse sempre ad avere di più, per se stessa e per lui. «Tutti gli uomini che conosco guadagnano a sufficienza da mantenere la loro famiglia. Tutti tranne te.»

«È quello che desideri?» Dean sembrava sul punto di star male. Era sbagliato quello che gli stava facendo, Sammie lo sapeva; era un colpo basso, farlo sentire inadeguato a causa del suo stipendio. Sua madre l’aveva sempre ammonita di non farlo, di non sminuire suo marito, ma la faceva stare meglio. Non riusciva a fermare le parole. «Voi smettere di lavorare? Vuoi stare a casa, fare la massaia?»

No, Sammie non voleva diventare una massaia, non l’aveva mai desiderato; lavorare le piaceva, non le dava fastidio. Il problema non erano tanto i soldi quanto l’idea, anche se non avrebbe saputo spiegarsi in modo sensato. Avrebbe voluto che Dean la prendesse tra le braccia e le dicesse che sarebbe andato tutto bene, che avrebbe avuto successo nel suo lavoro, che non era una fallita… e invece lui sembrava impaurito quanto lei.

«Quello che voglio è un uomo capace di prendersi cura di me.»

Sammie impiega due ore e mezzo ad arrivare all’Istituto Correzionale di Sterling, il carcere in cui Jackie Seever passerà gli ultimi quattordici mesi di vita prima di essere caricato su un furgone blindato e trasportato a sud, nella prigione di Cañon City, dove verrà immobilizzato su un lettino al centro di una saletta piena di testimoni e gli verrà somministrata una dose letale di veleno finché non si addormenterà e il suo cuore cesserà di battere. Sterling si trova a est di Denver, nelle pianure a valle delle montagne dove il paesaggio si riduce a una distesa di cespugli emaciati e polvere gialla, di case basse che restano disperatamente aggrappate alla terra. Quaggiù fa più freddo, il vento imperversa senza ostacoli malgrado ci sia meno neve che in città: ce n’è solo uno strato sottile che attraversa l’autostrada e si solleva in piccole trombe d’aria per poi scomparire. È un luogo che fa male agli occhi. È colpa di tutto questo cielo, pensa Sammie, questo grigio infinito che si stende da un’estremità del mondo all’altra, senza nulla che spezzi la monotonia. Sammie si sente soffocare sotto questo cielo gigantesco, come se una boccia di vetro fosse stata rovesciata e calata sopra di lei.

Ha già visitato una prigione, quando aveva quattordici anni ed era al liceo. La visita faceva parte del programma preventivo contro la delinquenza minorile, anche se nella loro scuola non c’erano abbastanza delinquenti e così erano andati tutti. Nessuno aveva cercato di evitarlo, perché pur di saltare le lezioni ogni scusa era buona, anche visitare una prigione; erano stati divisi, i maschi su un pullman e le femmine su un altro, ed erano partiti per le loro destinazioni separate. Sammie non ricorda molto della giornata, solo che una delle sue compagne era scoppiata a piangere quando era stata perquisita, sonori singhiozzi che echeggiavano dai muri di cemento. E non ricorda molto delle prigioniere con cui avevano parlato, se non che erano gentili e un po’ noiose, non così diverse da sua madre, e che nessuna di loro aveva commesso reati particolarmene eccitanti tranne una, minuta e graziosa, dall’aria non molto più matura di loro.

«Ho ucciso mio marito» aveva detto. Non sembrava in soggezione al cospetto del gruppo di preadolescenti, aveva un tono concreto. «Pensavo fosse stato un incidente, ma loro hanno detto di no.»

Loro, aveva capito Sammie, erano tutti gli altri, chiunque non vivesse nella sua testa.

«L’ho fatto con un coltello» aveva spiegato dopo che qualcuno le aveva chiesto com’era successo. «Mentre dormiva.»

Dopo erano state portate a pranzo nella mensa del carcere, dove avevano mangiato maccheroni al formaggio, insalata e latte al cioccolato come a scuola.

«Non è sempre così buono» aveva spiegato l’assassina. «Hanno preparato un pranzo speciale solo per la vostra visita. Manco fosse una cazzo di festa o roba simile.»

Il carcere è diverso da come se lo aspettava. Si è documentata, ha guardato le immagini in rete, ma non era preparata alle dimensioni, al senso di vuoto che emana. È un’illusione, lo sa, perché la struttura è piena di prigionieri, ce ne sono fin troppi, ma con questo freddo e questa neve non c’è nessuno in cortile.

Sammie si infila in uno spazio riservato ai visitatori ma non spegne il motore. Si controlla i capelli nello specchietto. Ha fatto fatica a scegliere il rossetto: il colore che una donna porta sulle labbra è importante, come dice sempre alle sue clienti. Può far sembrare più bianchi i denti, può far brillare il sorriso. Il rossetto può fare la differenza. Sammie ha passato molto tempo a rovistare nel cassetto in bagno, controllando tutti i tubetti, ciascun colore con il suo nome stampato in basso. Lussuria. Peccato. Sfida. Bellissima. Perversa. Sono tutti termini sessuali e un po’ osceni. Da scopata. Non c’è un rossetto che si chiami Intelligente o Cervellona. E nemmeno Fallita, o Idiozia, o Disgustosa. Niente del genere. Dopo un po’ ha richiuso il cassetto e ha deciso di non mettersi niente. Ma ha scelto un bel paio di scarpe: nere, tacco basso, con borchie argentate lungo i bordi. Classiche e costose. Le stanno bene, ma le sono strette in punta. Ha portato la sua borsa di pelle e si è messa una camicetta nuova di zecca. È stupido, lo sa, vestirsi bene per visitare un uomo in prigione, ma chissà perché ha pensato che i jeans non avrebbero funzionato. Seever notava sempre quando una donna era elegante, le faceva i complimenti, e Sammie vuole che l’incontro vada bene.

Scende dall’auto, preme il tasto della chiusura automatica e si incammina verso la prigione. Vede una donna che avanza a passi rapidi nella sua direzione, tenendo la testa bassa per ripararsi dal vento. Un’altra visitatrice che se ne va. Ma c’è qualcosa di familiare nella sua figura, e quando a separarle restano solo pochi metri Sammie si rende conto di chi è: Gloria, la moglie di Seever.

Non è molto cambiata, è addirittura vestita come sempre. Sammie la vedeva di tanto in tanto quando lavorava al ristorante: arrivava sottobraccio a Seever, si sedeva in un séparé d’angolo e sbocconcellava un’insalata o un hamburger, mangiando solo la carne e lasciando il panino, sempre con la bocca arricciata per la disapprovazione come il cordoncino di una borsa. L’aveva conosciuta ufficialmente solo dopo l’arresto di Seever, quando stava facendo a gara con ogni altro giornalista sul pianeta per ottenere un’intervista e Gloria gliel’aveva concessa. Non era andata bene, era durata solo pochi minuti, ma Sammie è sicura che dopo tutto questo tempo Gloria non si ricorderà di lei.

Invece la riconosce. Sta attraversando il piazzale del parcheggio a passi rapidi, e sembra turbata. Forse è solo infreddolita: le sue guance sono chiazzate di rosso, e sta serrando le labbra con forza. Ma nel vedere Sammie si arresta sui suoi passi e trae un brusco respiro. Sembra quasi che si stia preparando a uno scontro.

«Mrs. Seever» dice Sammie facendo un passo avanti e tendendole la mano. Potrebbe ruotare sui tacchi e tornare a gambe levate alla sua auto, e una parte di lei vorrebbe fare proprio questo, ma ha imparato che è volte a meglio reagire e andare contro i suoi istinti. «È un piacere rivederla. Forse non si ricorda di me. Samantha Peterson. Mi piacerebbe parlare con lei, se ha un momento da dedicarmi.»

Gloria non batte ciglio.

«Lui me l’ha detto, che sarebbe venuta» ribatte a denti stretti, muovendo solo le labbra. La sua voce è diversa dal solito, si rende conto Sammie. Gloria è il genere di donna che parla in toni sommessi e femminili. Ha una vocetta acuta e infantile, quasi un sussurro. Ora invece è aspra e rauca, e Sammie capisce che il motivo è che sta per scoppiare in un pianto rabbioso. «Ha detto che non vede l’ora di vederla, dopo tanto tempo. Era così eccitato che non riusciva quasi a stare fermo.»

Sammie rimane ammutolita. Quella di Gloria Seever è gelosia. Trasuda da ogni sua parola, da ogni singolo gesto che compie. La gelosia è sempre terribile, ma questa sembra peggio del solito, un sentimento turpe per un uomo che passerà il poco che gli resta da vivere in prigione.

«Sono qui per intervistarlo» dice. «Per parlare.»

«Incredibile, dopo tutto quello che ho fatto per lui» gracchia Gloria nel vento, e il suono fa indietreggiare Sammie. «Jacky non vede l’ora di vederla.»

E l’istante successivo, senza alcun preavviso, è tutto finito. Gloria si allontana traballando sulle sue pratiche scarpe col tacco e sale al volante di una Buick. L’auto fischia quando inserisce la retromarcia e si immette sulla strada. Avrebbe bisogno di nuove pastiglie, di una nuova macchina. Per qualche istante dopo che se n’è andata Sammie non riesce a muoversi: resta impietrita sul posto, con la borsetta che le schiaffeggia la coscia e il cuore che le martella nel petto.

«Dovrà lasciarmi la borsa, cara» le dice la guardia all’ingresso con un sorriso timido. «Sono le regole, capisce.»

«Nessun problema» ribatte Sammie consegnandola e alzando le braccia perché l’agente possa percorrerle il corpo con il metal detector alla ricerca di qualsiasi cosa la gente cerchi di contrabbandare in un carcere. Si gratta la crocchia in cui si è raccolta i capelli sulla testa, e la guardia se ne accorge.

«Può sciogliere i capelli, per favore?» le chiede guardandole con attenzione la testa come se potesse averci infilato una lama.

«Certo» dice lei, anche se con meno entusiasmo di prima. Si era raccolta i capelli sulla testa per sembrare severa e più matura, l’idea non era quella di averli sciolti sulle spalle. Si toglie le forcine e la guardia le infila le mani guantate nella chioma, frugando e massaggiandole lo scalpo, passandole le dita dietro le orecchie e tirandole i capelli. Inspira con il naso, e Sammie sospetta che la stia annusando, ma forse è solo paranoica.

«Ha un’aria familiare» le dice lui guardandola. «Ci conosciamo?»

«Scrivo per il “Denver Post”» ribatte lei con una punta di timidezza ma anche con la soddisfazione di essere stata riconosciuta. «Probabilmente ha visto la mia foto sul giornale.»

«Sì» fa lui poco convinto. «Tranne che non leggo il giornale.»

«È sempre così?» chiede Sammie quando viene accompagnata in una saletta divisa in due da un divisorio di vetro. Su ciascun lato ci sono un tavolino e una sedia di plastica. Sulla parete è montata la cornetta di un vecchio telefono a disco. Credeva di incontrare Seever faccia a faccia, così da poter sentire il suo alito, vedere la rete di rughe sotto gli occhi; invece sarà soltanto una voce all’orecchio, sul lato opposto di un vetro sporco. «Per le visite, intendo dire.»

«Normalmente no» risponde la guardia tenendo le mani sui fianchi. «La maggior parte dei prigionieri riceve i visitatori nella sala comune.»

«Ma non Seever.» Non è una domanda, non esattamente.

«No, non lui. Ha avuto qualche… problema in passato.»

«Che è successo?»

La guardia le rivolge un’occhiata pietosa. Le risparmio i dettagli, dice la sua espressione. Non sono adatti a una signora.

«Seever è vecchio e grasso, ma è veloce. E subdolo. Non può più ricevere nessuno, se non da dietro un vetro a prova di proiettile.» Sorride, mostrando una dentiera che somiglia più alla bocca di un alligatore. «È ancora pericoloso.»

Seever è talmente cambiato che è come vedere uno sconosciuto. Sammie ricorda la volta in cui, rimasti soli al ristorante, si era denudata, aveva indossato solo un grembiule di gomma e guanti gialli lunghi fino ai gomiti e si era messa a lavare lentamente i piatti nel grande lavello, e quando Seever aveva girato l’angolo e l’aveva vista in quella posizione, con la schiuma sporca che le sgocciolava dai seni, aveva emesso un verso strozzato ed era diventato paonazzo in volto. Questo vecchio grasso seduto davanti a lei con i polsi incatenati e assicurati alle gambe del tavolo non può essere lo stesso Jacky Seever che allora non le aveva permesso di togliersi il grembiule mentre la scopava per sentirlo squittire ogni volta che i loro corpi sbattevano uno contro l’altro.

Lui bussa sul vetro e indica la cornetta. Lei la prende e se l’accosta all’orecchio. È scivolosa, e puzza di alcol disinfettante.

«Sammie» dice Seever. Lei chiude gli occhi, pensa alla voce di lui che viaggia attraverso il microfono, percorre fili e cavi e le si riversa nell’orecchio. Per poco non riaggancia e se ne va, ma poi pensa a Weber, alla sua espressione compiaciuta e alla sua intervista con la madre di Carrie Simms, e al fatto che in assenza di questo lei non ha niente di cui scrivere. «Sono io, Sammie. Sono Jacky.»

Lei non lo ha mai chiamato Jacky. Oh, ce n’era di gente che lo chiamava così: lo voleva lui, gli piaceva che tutti lo chiamassero per nome, ma per lei era sempre stato Seever.

«Oh» dice riaprendo gli occhi. «Ciao.»

Sente il suo respiro al telefono, vede il suo petto gonfiarsi e sgonfiarsi, ma le due cose le sembrano curiosamente scollegate, separate. Come una registrazione video con l’audio leggermente fuori sincrono, non troppo ma a sufficienza da infastidirti.

«Sono contento di vederti» riprende Seever. «Dio, sei uguale a quindici anni fa.»

«Tu no» ribatte lei, e Seever ride. Non è la grassa risata di pancia di un tempo, è un risolino sommesso e catarroso.

«Sì, me l’hanno detto.» La lingua rosa intenso fa capolino e percorre il labbro inferiore. «Come mai sei venuta fin qui, Sammie? Sei sempre stata una visitatrice autorizzata, ma finora non ti eri mai fatta vedere.»

«Mandaci qualcun altro» aveva detto Sammie a Corbin anni prima, perché stava già ottenendo tutto quello di cui aveva bisogno da Hoskins, tutto quello che Seever gli diceva sotto interrogatorio, e Corbin ci aveva provato ma Seever si era rifiutato di parlare con chiunque se non con lei. Ma il pensiero di vederlo le dava il voltastomaco, e Sammie non credeva di farcela. Sarebbe stata un’esclusiva, perché Seever non aveva mai parlato con i media, e forse era proprio per questo che Sammie era stata fatta fuori: perché non era stata al gioco. Ma adesso è qui, giusto? Finalmente sono riusciti a farla venire, e Corbin otterrà la storia che avrebbe voluto anni fa.

«Hai saputo degli omicidi a Denver?» domanda afferrando la matita e picchiettendola sul tavolo. Qualche foglio di carta e una matita: è tutto quello che la guardia le ha permesso di portare. E lei odia scrivere a matita.

«L’Assassino di Seconda Mano, è così che l’hai chiamato nel tuo articolo, giusto?» chiede Seever. «Perché sta piluccando i miei avanzi, suppongo?»

«Non l’ho inventato io.»

«Meno male. È terribile.»

«Lo so.»

«Non so chi sia, se è questo che sei venuta a chiedermi. Il detective Loren mi ha visitato di tanto in tanto. Si è fatto delle strane idee sul fatto che ai tempi avessi un complice o un pupillo, e che adesso lui stia proseguendo il mio lavoro.»

«Lo avevi?»

«Avevo cosa?» Seever sorride, sa benissimo cosa le ha chiesto Sammie ma vuole costringerla a dirlo.

«Avevi un complice? Quando… quando uccidevi tutta quella gente, lo facevi insieme a qualcun altro?»

«No.» Si stringe nelle spalle, e l’istinto di Sammie le dice che sta dicendo la verità. Potrebbe sbagliarsi, e non sarebbe la prima volta, ma non le sembra. Decide di non insistere.

«Sei in contatto con qualcuno?»

«Qualcuno chi?» chiede lui divertito. «Ormai le uniche visite che ricevo sono quelle di mia moglie, e lei vuole solo parlarmi delle soap opera che guarda in televisione e di quanto le costa il pieno di benzina.»

«Magari dici certe cose a tua moglie e lei trasmette il messaggio all’assassino.»

Un’emozione gli balena in volto, ma subito dopo scompare. Le sue fattezze tornano a rilassarsi.

«Lascia stare Gloria.»

«Non scrivi a nessuno? Niente email?»

«No. Niente di niente. Chiedi pure conferma alle autorità carcerarie.»

Seever non le dirà nulla che lei già non sappia dell’Assassino di Seconda Mano, e Sammie immaginava che sarebbe andata così ma è venuta lo stesso, perché non si può mai sapere. Abbassa gli occhi sul foglio di carta, picchietta la punta della matita lasciando una costellazione di puntini e macchioline nere. Di solito non conduce le interviste in questo modo, non è così taciturna ed esitante, ma questa è diversa, perché questo è Seever, e lei lo conosce.

«Immaginavo avessi più domande da farmi» dice lui sorridendo. Ha l’aspetto del dolce vecchietto, occhiali e capelli bianchi, ma dietro quel sorriso si nasconde un mostro, ed è questo il motivo per cui Sammie non aveva voluto visitarlo; prova una sorta di orrore strisciante all’idea che quest’uomo ha fatto ciò che ha fatto senza che lei ne se rendesse conto, che fosse ignara di ciò di cui era capace per tutto il tempo che era andata a letto con lui. «Ti credevo un asso del giornalismo. Mi aspettavo di più. Spero che quando verrà il tuo Hoskins non sarà una perdita di tempo.»

La sta provocando, sta gettando l’amo nell’attesa che abbocchi. È questo che le diceva sempre Hoskins, che parlare con Seever era come giocare alla roulette russa: non eri mai sicuro di quando sarebbe arrivato il proiettile, di quando una verità avrebbe fatto capolino in mezzo a tutte le menzogne. Seever era capace di distorcere le tue stesse parole, lasciandoti così confuso e sconcertato che dimenticavi quello di cui stavi parlando; ti insinuava idee in testa così a fondo che ti rendevi conto della loro presenza solo quando cominciavano a riprodursi e diffondersi come vermi. Ma Sammie è preparata, ha una lista di domande, è pronta ad affrontare i suoi giochi psicologici. E questa è la cosa più importante.

«Oh, di domande ne ho a sufficienza» ribatte rovesciando il foglio, e Seever sgrana gli occhi nel vedere tutto quello che ha scritto. «Sei pronto?»

«Spara.»

La prima domanda non è sulla lista, non potrà mai essere pubblicata dal «Post», ma è qualcosa che Sammie si chiede fin da quando ha scoperto ciò che Seever aveva fatto.

«Perché mi hai risparmiata?»

«Ha ottenuto quello che voleva?» le chiede la guardia.

«Penso di sì.» Sammie fruga nella borsa, controlla che ci sia tutto. «Seever non riceve mai visite?»

«Sua moglie. E lei» dice la guardia contandole sulle dita. «A volte passa quel detective, Loren.»

«Niente telefonate? Niente lettere? Non riceve mai plichi?»

«No. A parte quello che gli porta sua moglie.»

«Per esempio?»

«Cibo, a volte, quando il direttore lo permette. Biscotti fatti in casa, cose del genere. E il necessario per dipingere. Ma viene tutto ispezionato per controllare che non entri niente di proibito.»

«Il necessario per dipingere?» Sammie si era dimenticata dei quadri di Seever. Aveva fatto notizia, quando aveva cominciato a dipingere, come se una scimmia si fosse messa a scrivere un romanzo, e all’inizio le tele venivano vendute a caro prezzo, ma presto la novità si era esaurita. Sammie non sapeva che ci lavorasse ancora. «Che cosa dipinge?»

«Una volta faceva cose terribili. Cadaveri, sangue e… be’, può immaginare» esita la guardia, non volendo dire cose troppo impressionanti davanti a lei. «Ma ha smesso quando i dottori gli hanno aumentato le pillole della felicità.»

«E adesso cosa fa?»

«Niente di particolarmente interessante.»

«E i quadri dove finiscono?»

«La moglie li porta via quasi tutti. Ho saputo che qualcuno l’ha venduto, ma credo che per la maggior parte li conservi.»

«Non ce ne sono qui da vedere?»

«Nah. Quelli che la moglie non prende li buttiamo nell’inceneritore. Fosse per me, non terrei mai una cosa fatta da quell’uomo. Mi darebbe i brividi.»

«Okay, la ringrazio.»

Sammie aveva una lunga lista di domande, tutto quello che avrebbe voluto chiedergli ai tempi del suo arresto, riguardo alle vittime e alle sue pulsioni e all’esecuzione imminente, e Seever è stato sorprendentemente disponibile. Ma non ha risposto alla sua prima domanda, per lei la più importante. L’ha fissata con uno sguardo vitreo, o forse era soltanto un effetto della lastra di vetro sporca. Ha aperto la bocca, ma poi l’ha richiusa di scatto, tanto che Sammie ha sentito schioccare i denti attraverso il telefono. Sono rimasti in silenzio finché si è resa conto che la risposta non sarebbe mai arrivata e gli ha fatto un’altra domanda, cambiando argomento, dicendosi che forse Seever non sapeva perché l’avesse risparmiata, che forse nemmeno lui aveva una risposta.

Era quasi arrivata alla fine delle domande quando si è resa conto che Seever si stava stancando e spazientendo; glielo si leggeva negli occhi, e Sammie sapeva che quel momento sarebbe arrivato perché succedeva sempre nelle interviste: potevi spremere una persona solo fino a un certo punto, ma lei doveva farlo tutto in una volta, perché non ha la minima intenzione di tornare in questa prigione, né di rivedere Seever.

«Non hai mai…»

«Se potessi farti passare da questa parte, me lo succhieresti?» l’ha interrotta lui, sporgendosi in avanti fin quasi a premere il naso sul vetro. Strabuzzava gli occhi e aveva il respiro alterato, e in quel momento Sammie ha creduto di vedere il mostro, famelico e pronto a tutto; quello era l’uomo che aveva stuprato e torturato per anni, che sembrava normale in superficie ma sotto era putrido e marcio. «Quando cavalchi Hoskins e ti ficchi dentro il suo cazzo, fingi che sia io?»

Sammie non gli ha risposto, limitandosi a riagganciare la cornetta e raccogliere le sue cose. Non ha alzato gli occhi quando Seever ha cominciato a picchiettare le nocche sul vetro, né quando l’ha chiamata. Si era aspettata che potesse accadere qualcosa di simile. L’intervista era conclusa.

Ne ricaverà un gran bel pezzo, qualcosa a cui Weber non riuscirebbe neanche ad avvicinarsi.