27 novembre 2015
Sette anni dopo, quasi tutti hanno ormai dimenticato Jacky Seever. Eccetto Carrie Simms. Lei ha passato ogni giorno di questi sette anni pensando a Seever, a quello che le aveva fatto nei giorni in cui l’aveva tenuta legata e imbavagliata nel suo garage. Non sono cose facili da dimenticare, e a volte Carrie si sveglia nel cuore della notte con un’emicrania provocata dalla forza con cui ha serrato le mascelle per impedirsi di gridare. Il dentista le ha dato un aggeggio di gomma da mettersi in bocca durante la notte, simile a quelli che usano i giocatori di hockey per non rompersi i denti, ma lei non ha bisogno di un paradenti, avrebbe bisogno di un paracervello con cui mettere a tacere la sua mente e impedirsi di sognare Seever. Di un parasogni, ecco di cosa avrebbe bisogno. O di una lobotomia. Un tempo Carrie era il tipo di ragazza che parlava molto e aveva la risata facile, ma negli ultimi sette anni è diventata quasi silenziosa, una donna che non vuole farsi notare. Ha solo ventisei anni ma le radici dei suoi capelli sono quasi tutte grigie, dagli angoli degli occhi si irradiano rughe profonde e a volte la mano le fa male come se sentisse la mancanza del dito mozzato.
Però è viva.
A volte pensa alla sua esistenza prima di Seever, la sua vita A.S., Avanti Seever, come le piace chiamarla. Non ricorda molto di quella vita, solo che a volte aveva fame e freddo, che era quasi sempre strafatta e che era circondata da un cast continuamente cangiante di nullità, persone che vedeva una volta e poi mai più. Ma tutto ciò succedeva Avanti Seever, e forse se quella sera non avesse conosciuto Seever in quel bar, se non fosse andata a casa sua, a questo punto sarebbe già morta, di overdose o qualcosa del genere, e sarebbe stata soltanto colpa sua, come se si fosse suicidata. Seever voleva ammazzarla, ma nei pochi giorni che lei aveva passato nel suo garage, incaprettata, imbavagliata e a volte bendata, Carrie aveva imparato una lezione importante: aveva scoperto di voler vivere. Sembra stupido, sembra banale, ma quelle ore terribili passate con Seever avevano reso la sua vita tanto più preziosa, e quando era finalmente riuscita a fuggire da quel garage, schiaffeggiando l’asfalto con i piedi nudi nel terrore di voltarsi e vederlo alle sue spalle, in procinto di afferrarla per i capelli e trascinarla di nuovo nel buio, quelli erano stati gli istanti più belli che avesse mai vissuto. Non è grata a Seever per quello che le ha fatto, non esattamente, ma forse un po’ sì, in fondo, in minima parte.
Adesso non si fa più, non beve più. Non lavora: suo nonno è morto lo scorso inverno e le ha lasciato qualcosa, e lei si mantiene con quei soldi e con i prestiti studenteschi, perché sta studiando per diventare tecnica veterinaria: gli animali le sono sempre piaciuti, loro non ridono e non ti fissano la mano con un moncherino al posto del mignolo come se fosse la cosa più orribile che hanno mai visto. Gli animali non hanno mai cercato di farle del male come ha fatto Seever, o come faceva suo zio quando era piccola. Se una bestia ti attacca lo fa per un motivo, non per divertirsi; non vuole vederti soffrire senza ragione. Gli animali non ridono sentendoti gridare, e dopo non ti accarezzano i capelli promettendoti che finirà presto e mentendo. Carrie vive sola, in un cottage in affitto dietro una casa più grande; probabilmente in origine era un garage o un capanno, ma è stato ristrutturato, la lavatrice e l’asciugatrice sono incastrate nell’armadio a muro, tanto che si fa fatica ad aprirle per infilarci la biancheria sporca, e in bagno c’è solo lo spazio per una cabina doccia, niente vasca, ma a Carrie va bene così. Un giorno, pensa, si diplomerà, troverà un lavoro e una sistemazione migliore. Magari conoscerà anche un uomo con cui uscire la sera, o forse si prenderà un cucciolo. Un cane: un cane abbaierebbe se qualcuno provasse a penetrarle in casa, la proteggerebbe. O magari un gatto. Probabilmente prenderà un gatto. Appena trasferita nel cottage avrebbe voluto prenderlo, e aveva chiesto il permesso al padrone di casa, un vecchio coreano che viaggiava molto e amava giocare a golf, ma lui le aveva detto di no, un gatto avrebbe pisciato sulla moquette e il deposito lasciato da Carrie non sarebbe bastato a coprire le spese.
«Dunque pensi che la moglie di Seever sapesse che eri lì?» le aveva chiesto il detective Hoskins, e Carrie avrebbe voluto avere una risposta per lui, ma non ne era sicura.
«Non lo so» aveva detto, e aveva avvertito l’occhiata di studio con cui Hoskins cercava di capire se stesse mentendo oppure no, ma era la verità: lei non lo sapeva. A volte si domandava se fosse davvero viva o si trovasse in una realtà virtuale e il suo vero corpo fosse raggomitolato in posizione fetale chissà dove, sospeso in un fluido e collegato a un computer gigante come in quel film di cui non ricorda mai il titolo. Perché la sua vita non era stata altro che un lunghissimo, interminabile brutto film. Poteva solo sperare di svegliarsi a un certo punto e scoprire che nulla di tutto ciò era accaduto.
Carrie non possiede una televisione, non se la può permettere, e prima di coricarsi di solito legge. I libri li prende in biblioteca, perché per ora non li può comprare. A volte si addormenta col libro ancora aperto e la luce accesa, abitudine che Mr. Cho le ha rimproverato, perché anche se è lei a pagare le proprie bollette lui non vuole che sprechi elettricità. E così Carrie cerca di spegnere la luce prima di andare a letto, anche se il buio non le piace molto, non le è mai piaciuto. Quando era piccola, una volta che era rimasta a dormire con le compagne da un’amica, era stata rinchiusa per scherzo in un bagno buio, e per qualche orribile istante non era riuscita a trovare l’interruttore, ed era sicura che il grande specchio sopra il lavandino si sarebbe illuminato di un rosso stregato e che sarebbe comparso uno spaventoso fantasma, a prenderla. Era sempre buio quando lo zio entrava in camera sua, e Seever la teneva bendata perché non sapesse mai dove l’avrebbe toccata, e ridacchiava ogni volta che lei sobbalzava o si ritraeva. Ma Mr. Cho non sa nulla di suo zio o di Seever, e Carrie non ha intenzione di informarlo; lui è solo preoccupato per la bolletta dell’elettricità, e così Carrie prova a dormire al buio perché è quello che fanno le persone adulte e deve superare le sue paure. Suo zio è morto e Seever è rinchiuso in prigione e lei sta bene, sta bene, è al sicuro ed è sola e nessuno può farle del male.
Il problema non è addormentarsi, è non svegliarsi in continuazione. Ci sono incubi in abbondanza, di solito su Seever, e a volte i sogni sono repliche dei suoi veri ricordi, ma lei non riesce più a capire la differenza tra quello che è accaduto e ciò che sta immaginando. Come il ricordo di quando era bendata e coricata su un pezzo di moquette sotto cui avvertiva chiaramente il freddo del cemento, e sentiva cigolare una porta, e pensava che fosse Seever, che fosse già tornato malgrado se ne fosse appena andato, ma forse non era lui, perché a Seever piaceva parlare, gli piaceva il suono della propria voce, e chiunque le si fosse avvicinato quel giorno non aveva detto una parola. Ma lei aveva sentito un odore, una lieve traccia di profumo che le aveva fatto venire in mente i fiori viola che crescevano accanto alla porta di casa di sua madre, e quando aveva cercato di chiedere aiuto, provando a formare parole intorno al bavaglio, aveva avvertito uno sbuffo d’aria tiepida e un altro cigolio, e il profumo era svanito, come se non ci fosse mai stato.
«Dovresti parlarne con uno specialista» le aveva detto Hoskins dopo che Seever era stato rinchiuso e condannato e tutti si erano lavati le mani di quella faccenda e si aspettavano che anche lei tornasse alla normalità come se nulla fosse successo. «Potrebbe esserti di aiuto.»
«Potrei dirle anch’io la stessa cosa» aveva ribattuto Carrie, e Hoskins ne era rimasto sorpreso, come se non si rendesse conto della propria stessa brutta cera, di tutti i chili che aveva perso.
«Un dottore potrebbe darti qualcosa per dormire» aveva insistito lui, e Carrie era scoppiata a ridere, perché a quel punto era pulita da quasi un anno: niente droga, niente alcol, niente problemi, ma la gente non sembrava mai capire quanto era facile ricaderci, che un sonnifero poteva condurre a una birretta prima di coricarsi, giusto per rilassarsi, e poi le birre sarebbero diventate tre e le pillole sei, e da lì sarebbe stata una discesa a precipizio; Carrie ci è già passata. È pulita e vuole restarlo. E così sopporta l’insonnia, la affronta, e adesso eccola qui, sono le tre del mattino e lei è sveglissima e trema sotto le coperte mentre fissa nel buio della sua camera da letto. Ha sognato di nuovo Seever, le sembra, il suo odore, la sua acqua di colonia da due soldi, il suono raschiante della barbetta ispida contro la sua spalla nuda quando si sdraiava dietro di lei, stringendola a sé con le braccia intorno alla vita. In quei momenti le toglieva la benda perché potesse vedere il suo braccio sul ventre, perché potesse scorgere la grossa cassetta degli attrezzi rossa lungo il muro e la pila di vasi vuoti sulla parete opposta. Carrie non era mai stata un tipo violento, neanche quando aveva questa o quella droga che le impazzava nelle vene, ma in quelle situazioni pensava che se solo fosse riuscita ad arrivare a quella cassetta o a quella catasta di vasi avrebbe avuto un’arma in mano, e gli avrebbe tagliato la gola senza un attimo di esitazione, e poi gli avrebbe mozzato l’uccello e gliel’avrebbe ficcato in bocca, facendogli pagare quello che le aveva fatto, anche se non sarebbe mai bastato, neanche lontanamente. Ma non era mai riuscita ad arrivarci finché non era riuscita a liberarsi, e a quel punto l’unico pensiero che aveva in testa non era la vendetta, era quello di andarsene da lì.
Carrie non riesce a smettere di tremare. Il sogno era così realistico che sente ancora l’odore di Seever, insieme a qualcos’altro, e a un tratto si rende conto che è il suo stesso sudore, sgradevole, inacidito dal terrore. Fatica a credere di aver potuto sudare tanto con il freddo che c’è in casa, e fa per drizzarsi a sedere, dicendosi che probabilmente è la caldaia, che dovrà disturbare Mr. Cho nel bel mezzo della sua gita golfistica a Phoenix, quando un braccio le circonda il collo e la fa riaffondare nel guanciale così rapidamente che lei non riesce neanche a gridare.
«Non temere, lo farò durare» dice una voce, e Carrie sente lo strofinìo della barba ispida sul lobo dell’orecchio, e avverte una zaffata di acqua di colonia così forte che per poco non la soffoca. È Seever, pensa, e cerca di lottare, ma lui è avvantaggiato dalla sorpresa, anche se non è forse vero che lei se l’era sempre aspettato? Seever non è in prigione, è qui con lei, nel suo letto, e finirà quello che ha cominciato, e questo non è un sogno.