8 dicembre 2015
È giù nel sotterraneo, di nuovo nel suo ufficio. Il motivo principale è che ai piani alti non c’è posto, ma c’è anche il fatto che ormai tutta quella baraonda lo infastidisce, il continuo andirivieni di detective, il tintinnio delle email in entrata, il ronzio costante della stampante. Una volta quel caos gli dava energia; riusciva a riflettere solo lavorando con la musica a tutto volume, ma le cose sono cambiate, e ora preferisce il freddo silenzio del suo ufficio privo di finestre. Dovrebbe essere con gli altri, dare il suo contributo alle indagini, ma passare l’intera giornata lassù è inutile, perché tutti i rapporti gli arrivano via mail, raggruppati sul telefono. E poi Black non gli ha affidato il caso, gli ha solo detto di controllare che fili tutto liscio, e per ora va tutto bene. Tutto tranne il fatto che Loren si sta travestendo da Seever, ma questo disturba solo lui. Loren è sempre stato un po’ fuori, ha fatto una quantità di stranezze, e questo non ne è che un altro esempio.
A parte le mattane di Loren, le indagini procedono come dovrebbero: metodicamente, passo per passo. Due detective sono incaricati di setacciare il quartiere in cui abitava la Simms, altri due di rintracciare tutti coloro che la conoscevano. Una terza coppia di investigatori sta chiamando e facendo visita a tutti coloro che avevano avuto un collegamento qualsiasi con Seever, che avevano passato del tempo con lui, perché chiunque di loro potrebbe essere un sospetto, ma potrebbe anche essere in pericolo. È così che vengono risolti quasi tutti i casi di omicidio, con domande e risposte, telefonate e visite a domicilio; ma Hoskins non può fare a meno di chiedersi se questa volta basterà. Puoi seguire le regole finché vuoi, puoi assicurarti di avere messo i puntini su tutte le i, ma certi casi restano comunque irrisolti. Basta guardarsi intorno in questo stanzino per rendersene conto, vedere tutte le indagini finite nel nulla, tutte le vittime sepolte senza che fosse fatta giustizia, tutti gli assassini ancora a piede libero. Stanno dando per scontato che l’Assassino di Seconda Mano conoscesse Seever prima dell’arresto, che fosse al corrente dell’asportazione delle dita, perché non hanno altri elementi e si stanno appigliando a qualsiasi cosa. Si stanno appigliando alle dita, pensa Hoskins, ma teme che i suoi colleghi non la troverebbero una gran battuta.
Siede alla scrivania e accende la lampada che ha portato da casa, perché quaggiù le plafoniere non bastano se devi lavorare sul serio. Le pile dell’orologio da muro devono essersi esaurite ieri sera, perché le lancette sono ferme sulle dodici e un minuto. Hoskins accende il computer e apre una cartella, poi la richiude. Non riesce a smettere di pensare a quello che ha detto ieri Loren: «Spero che lo stronzo sappia quante ore stiamo passando su di lui. Una cosa del genere gli farebbe piacere, soddisferebbe il suo ego».
Distoglie il volto dallo schermo, prende un dossier dalla pila sulla scrivania e sfoglia qualche pagina. Finisce su uno dei casi irrisolti più vecchi che abbiano in archivio a Denver: nel 1952, una giovane donna abbandona un ricevimento per svolgere una commissione e scompare. Il suo corpo viene ritrovato due mesi dopo a quasi cinquanta chilometri di distanza. Sui margini dei fogli ci sono gli appunti a mano lasciati da altri investigatori nel corso degli anni, alcuni dei quali sono talmente sbiaditi da essere quasi illeggibili. Hoskins vi fa scorrere il dito, percorrendo le parole. A metà foglio sulla destra, scritta in inchiostro blu, c’è una frase che attira la sua attenzione. Sulla base di questo, non penso sia stato il suo primo rodeo. Una freccia accanto alle parole indica una frase dattiloscritta in cui il medico legale dichiara che prima di essere scaricato il corpo era stato lavato con cura, probabilmente con acqua mista a candeggina. E l’osservazione a penna era perfettamente centrata: probabilmente per l’assassino non era stata la prima volta, perché aveva saputo cosa fare per sfuggire alla cattura: ormai erano passati sessant’anni, e non era mai stato fatto alcun arresto. L’assassino doveva essere ormai morto oppure molto anziano; non era stato mai arrestato perché aveva saputo cosa fare, probabilmente aveva perfezionato la sua tecnica uccidendo più volte. Forse il suo primo omicidio era stato abborracciato, ma gli era servito di lezione. Per Seever era stato lo stesso. La sua prima vittima era stata ferita alla testa ma non era morta: il medico legale sospettava che fosse stata sepolta viva, che fosse morta soffocata dalla terra sotto il vespaio perché Seever era ancora inesperto e probabilmente impaurito e preoccupato, ma poi aveva imparato, eccome se aveva imparato, e velocemente, allo stesso modo in cui un cane impara a non fare la pipì sul pavimento di casa.
E il fatto è proprio questo, giusto? Questo Assassino di Seconda Mano (perché a quanto pare è così che verrà chiamato, che a loro piaccia o no) è prudente e preciso. Non si è fatto vedere da nessuno e non ha lasciato molte tracce, forse nessuna, anche se i reperti raccolti a casa Simms sono ancora in laboratorio. È stato bravo, molto bravo; alcuni potrebbero dire che ha avuto fortuna, ma nel corso degli anni Hoskins ha imparato che una persona si crea la sua fortuna, specialmente se è un assassino.
Torna alla prima pagina del dossier e guarda la fotografia della donna scomparsa nel 1952. Aveva capelli scuri e occhi grandi. Labbra carnose con uno strato di rossetto, probabilmente rosso, anche se il bianco e nero non lo lascia capire. Chiunque l’abbia uccisa aveva esperienza di certe cose. Lo aveva già fatto. E forse è così anche per l’Assassino di Seconda Mano. Forse ha già ucciso in passato, ma poi ha cambiato marcia e ha deciso di dedicarsi a persone che avevano avuto a che fare con Seever e imitare i suoi metodi. Per quale motivo?
Perché vuole soddisfare il proprio ego.
Molti assassini bramano le attenzioni altrui, vogliono farsi notare. Uccidono per il sangue, uccidono per il sesso, ma anche per il proprio ego. Sembra una stronzata freudiana, ma è vero. Sia l’Assassino dello Zodiaco in California che l’Assassino BTK in Kansas avevano inviato lettere alla polizia, provocando e stuzzicando, perché erano desiderosi di attenzione come bambini in un negozio di caramelle. E anche l’Assassino di Seconda Mano sta trasmettendo un messaggio, perché ha scelto di imitare Seever ma non nasconde le vittime come faceva lui: no, le lascia sotto gli occhi di tutti perché vuole farsi notare. Non vuole farsi catturare, questo no: vuole restare libero e continuare a fare ciò che sta facendo, ma pretende che tutti parlino di lui, e probabilmente prova una soddisfazione tale che la sera va a letto con il sorriso sulle labbra.
Hoskins picchietta le dita sulla tastiera e risveglia il computer. Setaccerà la banca dati dei casi irrisolti con vittime di sesso femminile degli ultimi cinque anni. Magari anche meno: gli ultimi due. Non dovrebbero essercene molti, Denver è ancora un luogo sicuro, non abbastanza da non chiudere a chiave la porta durante la notte, non esageriamo, ma discretamente tranquillo. Hoskins attende che il computer si sbrighi, ma il trabiccolo si blocca con una pagina caricata a metà, anche quando lui prova a riavviarlo.
«Devo solo prendere un paio di cose, non ci metto molto» sente dire, e alza gli occhi appena in tempo per vedere Ted che passa davanti alla sua porta con il cellulare incollato all’orecchio. Non si aspettava di rivederlo così presto, immaginava che fosse ancora a casa, ma gli fa piacere, vuole chiedergli scusa e chiarire le cose, e inoltre ha bisogno del suo aiuto. «Dammi due minuti.»
«Ehi, non mi aspettavo di vederti qui» gli dice portandosi sulla soglia del suo ufficio. Ted si blocca sui suoi passi, poi si volta lentamente a guardarlo. Se una persona potesse avere l’aspetto di un coniglio terrorizzato e preso in trappola, quella persona sarebbe Ted. «Sono contento.»
«Credevo che ti avessero trasferito di sopra» dice girandosi del tutto. Ha un cerotto bianco di traverso su un sopracciglio e un cerchio di lividi violacei intorno al collo. Le sclere di entrambi gli occhi sono arrossate dai capillari esplosi. Hoskins fa una smorfia e si porta una mano al volto. Ha il labbro superiore gonfio, il naso dolorante e un bernoccolo dietro la testa, ma Ted è conciato peggio, ed è stato lui a ridurlo così.
«No, ho ancora questo ufficio.»
«Ah, okay.» Ted si sfila di tasca un anello di chiavi e apre la serratura della sua porta. «Ci vediamo.»
«Ehi, aspetta.»
Si ferma, guarda Hoskins con fare circospetto.
«Ti chiedo scusa per quello che ho fatto.» Hoskins non ha alcun problema a chiedere perdono, non l’ha mai avuto, anche quando non è sincero. Ma questa volta lo è. «Ti ho visto sulla scena del delitto e ho perso la testa. Non è una giustificazione, ma ho sempre avuto problemi ad affrontare tutto quello che ha a che fare con Seev… con quel particolare caso. Non mi giustifica, ma è così.»
Ted muove le labbra senza emettere alcun suono. Guarda prima l’orologio sul muro, poi Hoskins.
«Mia madre vorrebbe che me ne andassi» riesce finalmente a dire. «Dopo quello che mi hai fatto.»
«Non farlo, Ted» dice Hoskins facendo un passo avanti. Vede che Ted si ritrae e si ferma alzando le mani. «Sei bravo nel tuo lavoro. Ti impegni molto, e ti apprezzano tutti. Non lasciarti condizionare dalle mie stronzate. Ti prometto che non succederà più.»
Ted sospira.
«Mi piace, questo posto.»
«Allora non mollare. Se vuoi posso chiamare di sopra e vedere se possono trasferirmi nella parte opposta del piano. O magari potresti andare su tu, farti dare un bell’ufficio con finestra. Ma non mollare a causa di quello che ho fatto.»
«È stato come l’altra volta, quando mi hai picchiato?» chiede Ted. «Come la volta che ti hanno cacciato dalla Omicidi?»
Hoskins esita, abbassa le braccia lungo i fianchi e serra i pugni. È normale che Ted ne sia al corrente, perché lo sono tutti. Non è certo un gran segreto.
«Sì, immagino di sì.»
Ted si guarda la punta delle scarpe da ginnastica, poi fa un altro sospiro. Certe persone se la legano al dito per tutta la vita, fanno macerare il rancore senza mai espellerlo, come se tenessero in bocca un boccone di carne rossa fino a farla diventare grigia, irriconoscibile e insapore, ma Ted non è tra queste. Lo si capisce dalla curva delle spalle e dalla ruga tra le sopracciglia: vuole solo che tutto torni come prima.
«Okay» dice alla fine. «Scuse accettate. Sinceramente, i miei fratelli mi hanno conciato anche peggio.»
«Ottimo.» Hoskins batte le mani, ed è lieto di vedere che il suono non fa trasalire il ragazzo. «Sono felice che sei tornato, perché ho bisogno di una mano con quel cazzo di computer.»
Un lento sorriso percorre il volto di Ted.
«Mi ci vorrà del tempo» dice Ted quando Hoskins gli ha spiegato di cosa ha bisogno. «Tu non riesci a consultarli?»
«Col mio livello di autorizzazione, al momento posso accedere solo ai casi ufficialmente abbandonati o a quelli che mi sono stati affidati» spiega Hoskins. «Alcuni dei casi di omicidio degli ultimi anni sono ancora aperti. Voglio solo darci un’occhiata.»
«Potrei finire nei guai per una cosa come questa, lo sai.»
Inarca le sopracciglia. «Potresti finire nei guai anche per avere curiosato nel caso Seever.»
«Oops, è vero anche questo. Okay, cos’è che devo cercare?»
«Omicidi irrisolti con vittime di sesso femminile entro i confini del Colorado. E invia una richiesta ai dipartimenti degli stati confinanti, richiedendo accesso temporaneo alle loro banche dati. Secondamano potrebbe aver viaggiato, potrebbe aver vissuto da qualche altra parte.»
«Nient’altro?»
«Non basta?»
«Non vuoi adottare criteri più specifici? Una ricerca come questa potrebbe dare fin troppi risultati. Se mi fornissi qualche altro elemento potrei restringere i parametri.»
Hoskins pensa alle dita mozzate, alla scritta sul muro. Sono riferimenti specifici a Seever, ma Secondamano potrebbe averli già usati e gli investigatori potrebbero averli presi sottogamba. Forse Secondamano uccideva in quel modo da molto tempo, ma si è stufato di essere ignorato e solo di recente ha cominciato a scegliere vittime collegate a Seever, pensando in questo modo di attirare l’attenzione. E ci è riuscito, perché loro si sono drizzati a sedere come bravi cagnolini in attesa del biscotto.
«Aspetta. Vittime di sesso femminile a cui siano mozzate una o più dita delle mani.» Era quello che faceva Seever e lo sta facendo anche Secondamano, e asportare dita non è un gesto come un altro. È un trofeo, per cui o l’ha fatto ogni singola volta oppure mai. «Comincia con questo, ma se non otteniamo nulla potremmo aver bisogno di fare un’altra ricerca.»
«Dita mozzate?» Ted fa una smorfia, tenendo le mani sospese sopra la tastiera.
«Sì. Seever lo faceva a tutte le sue vittime, e Secondamano lo sta imitando. Credevo avessi letto il dossier su Seever.»
«Non tutto, ne ho letto solo qualche pagina, è una cartella enorme. Non sapevo delle dita.»
«Non l’abbiamo mai rivelato a nessuno» spiega Hoskins, poi prende una matita e la fa ruotare sulla scrivania, e quando la matita si ferma gli sta puntando dritta verso il cuore.
«Come mai?»
«Perché è disgustoso, e perché a volte è meglio tenere segrete certe informazioni, nel caso ci sia bisogno di usarle più avanti.» Riprende la matita e la infila di nuovo nella tazza con la punta verso il basso. «Come adesso. Secondamano sa che Seever mozzava le dita alle sue vittime, e lo sta imitando. Il che significa che doveva conoscere Seever, che doveva aver ucciso insieme a lui.»
Ted rotea gli occhi e incrocia le braccia sul petto.
«E se invece avesse saputo delle dita in un altro modo?» chiede.
«E come? Non l’abbiamo rivelato praticamente a nessuno» risponde Hoskins. «Solo a pochi privilegiati. E tutti lavorano ancora nel dipartimento.»
«Okay» dice Ted, inclinando la sedia all’indietro. Sta riflettendo, fa sbucare la punta della lingua da un angolo della bocca e a Hoskins viene da ridere, ma non lo fa. A volte le buone idee arrivano dalle fonti più strane, anche da un ragazzetto in jeans aderenti che si fa chiamare Dinky. «Diciamo che nessuno ha parlato. La notizia potrebbe essere trapelata in altro modo. Un hacker potrebbe essere penetrato nella nostra banca dati, ad esempio. È già successo una volta.»
«Quando?»
«Un anno e mezzo fa. Non siamo mai riusciti a capire di preciso quali informazioni fossero state trafugate. Ma il file di Seever potrebbe essere stato copiato. Potrebbe essere stato pubblicato da qualche parte in rete, a disposizione di tutti.»
«Succede?»
«Altroché» dice drizzandosi a sedere. «Online si trova di tutto. Foto di scene del delitto, autopsie, qualsiasi cosa. Se pensi che qualcosa sia segreto, dovresti provare a cercarlo online. Resteresti a bocca aperta.»
«Tu hai fatto ricerche su Seever?» domanda Hoskins. Si sente vecchio a parlare con Ted, non capisce metà di quello che dice il ragazzo. Non sembra passato molto tempo da quando nessuno aveva computer o cellulare, e se volevi informazioni andavi in biblioteca e consultavi lo schedario dei libri o i microfilm dei giornali.
«Sì, ma non ho trovato granché» risponde Ted. «Se vuoi posso dare un’altra occhiata, vedere se riesco a rintracciare questa faccenda delle dita.»
«Sarebbe magnifico» dice Hoskins, alzandosi e dandogli una pacca sulla spalla. Gli fa piacere riaverlo nel sotterraneo. «Bravo. Mentre lavori vado a prendere il pranzo. Ti va bene il cinese?»
Quando Hoskins rientra Ted è ancora chino sul suo computer, e nel vedere la vaschetta di lo mein emette un gemito e allunga grato le mani.
«Non ti è mai venuto in mente che potresti avere qualcosa che non va nella testa?» domanda indicando le foto dei casi che Hoskins ha estratto dai dossier e appeso al muro. «Non so come fai a lavorare, con tutti questi morti che ti guardano.»
«Per questo io sono un detective e tu un informatico» risponde Hoskins. «Trovato niente?»
«Il nostro sistema ha bisogno di un aggiornamento» sospira Ted scompigliandosi i capelli. «Impiega una vita a darti qualsiasi risultato, specialmente in una ricerca ad ampio raggio come questa.»
«Oh, non c’è fretta» dice Hoskins sedendosi e aprendo una confezione di bacchette. «Non è un’emergenza, c’è solo un serial killer a piede libero e non abbiamo idea di quando ucciderà di nuovo. Niente di grave.»
«Il sarcasmo fa male, sai?» ribatte Ted con un’occhiataccia. «Ho capito. Sto facendo il possibile.»
«Okay.»
«Ah, mentre eri fuori hai ricevuto una visita.»
«Chi?»
«Il tuo vecchio collega, Loren.»
«Avrebbe dovuto chiamarmi.»
«Gliel’ho detto anch’io.» Ted si riempie la bocca di spaghetti e li succhia, facendoli scomparire come capelli nello scarico di una doccia. «Ha risposto che l’aveva fatto.»
Hoskins si sfila di tasca il cellulare. Tre chiamate perse, tutte di Loren. Non l’ha neanche sentito squillare, e sì che il volume era al massimo.
«Ti ha detto cosa voleva?»
«No. Ma ti ha lasciato quello.» Ted ruota le bacchette verso un pacchetto confezionato con una carta marroncina e appoggiato alla parete accanto alla porta.
«Che cos’è?»
«Questo non me l’ha detto» risponde tamponandosi con cura gli angoli della bocca con un tovagliolino. «Non so se te ne sei accorto, ma Ralph Loren non è esattamente il tipo più amichevole al mondo.»
Hoskins libera uno sbuffo ironico, si lascia cadere su una sedia, raccoglie il pacco e se lo posa sulle gambe. È piatto e rettangolare, più alto che largo, avvolto nella carta marroncina. Infila il dito sotto il lembo e lo scarta, e subito dopo probabilmente emette un verso allarmante, anche se in seguito non ricorderà di averlo fatto, perché Ted balza in piedi con una smorfia preoccupata sul volto.
«Che succede?» chiede, ma Hoskins non riesce a rispondere: ha la sensazione che qualcuno gli abbia ficcato un pugno in gola, soffocandolo. «Che c’è?»
Gli porge il pacco, non vuole averlo in mano un secondo più del necessario.
«E questo che cazzo è?» grida Ted disgustato, ma Hoskins non riesce ancora a trovare le parole per rispondere. Sente una stretta al petto, come se stesse avendo un attacco di cuore, ma è abbastanza sicuro che sia dovuta all’orrore che ha provato nel vedere quella cosa, nel fatto di averla tenuta in grembo. Loren gli ha portato un dipinto di Seever, un Seever originale. Hoskins non ne aveva più visti dal Natale appena dopo l’arresto, quando un quadro era arrivato al distretto, indirizzato a lui e Loren, ed era stato messo in sala riunioni, dove era rimasto una settimana perché nessuno lo voleva toccare. Raffigurava un pagliaccio crocifisso, il volto bianco rigato di lacrime sotto una fitta nevicata. Aveva la faccia di Seever, il che non era affatto una sorpresa, perché quei primi anni ogni singolo dipinto che usciva da quella prigione aveva il volto di Seever, come se lui cercasse la libertà inviando il suo autoritratto nel mondo.
«Non è male» aveva osservato Black. «Mi sorprende che abbia tanto talento.»
«Sì, magari se mi calo i pantaloni, mi piego in avanti e lei mi infila un pennello nel culo, potrei farle un bel ritratto» aveva detto Loren. Guardava in tralice il dipinto, e se all’improvviso avesse sfondato la faccia del pagliaccio con un pugno Hoskins non ne sarebbe rimasto sorpreso. Né dispiaciuto.
«Sempre il solito sboccato, eh?» aveva reagito Black.
«A quanto pare sì.»
«Anche Hitler era un discreto artista » aveva osservato Hoskins, e Black aveva fatto un verso di gola ed era rientrato nel suo ufficio, sbattendosi dietro la porta.
«Cazzarola, ragazzo» aveva detto Loren sorridendo. «Di sicuro sai guastare una festa.»
Seever aveva cominciato a dedicarsi alla pittura poco dopo il suo arresto; usava acquerelli, carboncini e tempere, qualunque materiale riuscisse a procurarsi. Molti dei lavori che sfornava erano gradevoli, non quello che ci si sarebbe aspettati da un assassino: Biancaneve distesa sul letto con le mani giunte sul petto; un ruscello di montagna; lui stesso che si specchiava sorridendo. Ma Hoskins aveva saputo che altri dipinti erano più torvi. Morti e zombi e pagliacci, i pagliacci non mancavano mai, e anche questo dipinto mostra un Seever travestito da clown, gli occhi sorridenti nei loro diamanti di cerone. Non sarebbe neanche male se non fosse per i palloncini che tiene in mano, perché due di quei palloncini che tendono le cordicelle ballonzolando nella brezza non sono affatto palloncini, sono teste, teste mozzate, e sgocciolano sangue dai colli tranciati. I loro occhi sono bianchi e vacui e senza vita, ma i volti sorridono, divertendosi un mondo a ballonzolare appesi alle cordicelle, Guarda, ma’, senza mani!, e chiunque può vedere che uno dei due è Ralph Loren: Seever ne ha catturato ogni singolo dettaglio, dal neo sulla fronte alla cicatrice sul labbro superiore. È stato bravo, non è certo un Michelangelo ma è abbastanza capace da far capire a Hoskins che l’altra testa-palloncino, quella che sembra ridere, è la sua.
«Loren ha un pessimo senso dell’umorismo» dice Ted sollevando il dipinto per vederlo meglio in ogni dettaglio. «Questo spiega perché era vestito in quel modo.»
«Con un tre pezzi elegante?» chiede Hoskins pensando al Loren con l’abito e gli occhiali di Seever, ma Ted scuote la testa confuso.
«No, era vestito da pagliaccio» dice continuando a guardare il dipinto e non vedendo il modo in cui Hoskins trasalisce e sbianca in volto. «Come faceva Seever, come in questo quadro. Rideva, e ha detto qualcosa sul fatto che i pagliacci la fanno sempre franca. Cos’avrà voluto intendere?»
Hoskins prova ad alzarsi, ma gli cedono le ginocchia e ricade sulla sedia in preda alle vertigini, come se fosse stato fatto girare un centinaio di volte su se stesso, un migliaio di volte, e fosse tornato al punto di partenza, dove tutto era cominciato.
«Dove diavolo è?» grida Hoskins. «Dov’è andato?»
«Non sapevo neanche che fosse uscito» risponde Jenna balzando in piedi e aggirando la sua scrivania. È l’impiegata d’ufficio della Omicidi, quella che risponde al telefono e archivia i documenti e fa in modo che tutto fili liscio, è lì da ancora prima che lui venisse relegato ai piani bassi ed è stata un enorme passo avanti rispetto alla ragazza che c’era prima, che era come uno di quei ragni che se ne stanno raggomitolati sotto un sasso in attesa che passi una vittima inconsapevole. Quella ragazza aveva accusato l’intero dipartimento di molestie sessuali, dicendo che non era più in grado di svolgere il proprio lavoro e chiedendo un salato indennizzo. Era stato un terribile pasticcio, ma adesso c’è Jenna, che è una brava ragazza. «Non che sia una novità, ha sempre fatto così.»
«Non ti ha detto dove andava?» chiede Hoskins.
«No.»
Supera Jenna, percorre il corridoio e scuote la maniglia dell’ufficio di Loren. È chiuso a chiave, naturalmente: a Loren non piace che si violi il suo spazio privato, che si acceda alle sue cose. Ma le porte degli uffici sono ridicole, fragili e sottili, e Hoskins non deve fare altro che tirare un calcio alla maniglia per sfondare il compensato. Dietro di lui qualcuno lancia un grido (Jenna, portandosi le mani alla base del collo) e alcuni dei detective fanno capannello e osservano la scena. Nessuno cerca di trattenerlo, o anche solo di calmarlo; si limitano a guardare, gli sguardi accesi dalla curiosità. Non sembrano sorpresi dalla sua furia; è quasi come se l’avessero prevista, e si stessero solo chiedendo quando sarebbe scoppiato il puttanaio. Molti di loro facevano già parte della squadra quando Loren e Hoskins lavoravano insieme, hanno assistito ai litigi e alle risse, e anche i nuovi arrivati avranno sentito i racconti.
«Perché sei così sconvolto?» ha chiesto Ted dopo che Hoskins ha scartato il dipinto. «Non capisco.»
E neanche Hoskins capisce come mai è così furioso, sa solo che questa storia è tutta sbagliata. Il caso non dovrebbe riguardare Seever, dovrebbe incentrarsi sul nuovo assassino, ma in qualche modo Seever è rientrato in scena, lo guarda ghignando da quel quadro, il suo nome è di nuovo sui giornali e sulle labbra di tutti. Hoskins credeva di esserselo lasciato dietro, ma poi è arrivato Loren, vestito di tutto punto con quei suoi tre pezzi, i capelli così imbrillantinati che si vede il bianco dello scalpo, e Sammie, con le sue domande e con quel suo maledetto articolo, ad agitare le acque anche dopo che lui le aveva chiesto di non farlo. Sia Loren che Sammie pensano che Secondamano abbia un collegamento con Seever, ma Hoskins crede che abbia ragione Ted: Secondamano sa delle dita, ma non tramite Seever. Secondamano non ha niente a che fare con Seever, ha semplicemente visto un’opportunità e l’ha colta al volo. Dietro a questi omicidi non c’è Alan Cole; Cole se l’è data a gambe già da un pezzo, ormai da anni. Hoskins non riesce a immaginare che sia tornato a Denver, che si sia esposto ai riflettori. E Secondamano sta uccidendo per essere al centro dell’attenzione, chiunque egli sia. Lo sta facendo per farsi notare.
Lo sta facendo per soddisfare il proprio ego.
«Cristo santo» esclama Hoskins. Ha fatto un passo nell’ufficio di Loren e si è fermato. Come se gli avessero detto che il pavimento è disseminato di mine pronte a spedirlo dritto all’inferno. «E questo che cazzo significa?»
Non è il panorama la prima cosa che ha notato, la bella vista di cui godeva anche lui dal suo ufficio. No, la prima cosa che ha visto sono i pannelli di sughero sulle pareti, visibili a malapena sotto tutte le carte e le fotografie che vi sono state fissate. Ci sono foto del vespaio di Seever, dei corpi che vengono trasportati via, della casa. Alcune sono ritagliate dai giornali, ma quasi tutte le altre sono immagini probabilmente scattate e stampate dallo stesso Loren. Hoskins fa un altro passo avanti. Ci sono immagini e referti di autopsie, cose che ha già visto, che sono avvenute in sua presenza e che porta impresse a fuoco nella memoria, ma rivederle è comunque scioccante. Sgradevole.
E poi c’è il dipinto, il pagliaccio originale, appeso sopra la scrivania di Loren, dove non potrebbe sfuggire a nessuno. Hoskins aveva sempre creduto che fosse stato gettato via, e invece eccolo qui che lo guarda. E sorride.
«Cazzo» gracchia indietreggiando lentamente. Si rende vagamente conto che il suo ufficio ha lo stesso identico aspetto di questo, con l’unica differenza che le sue pareti sono tappezzate di casi diversi, anche se alla fine non conta, è tutta un’unica merda. Loren potrà anche essere pazzo, pensa, ma allora lo sono anch’io.
Si gira, sente sulla schiena gli sguardi delle vittime come tanti spilli. Questo ufficio gli dà i brividi, vuole uscire, affondare i piedi nella neve. Tende la mano verso la maniglia, ma poi vede cosa è appeso sul lato interno della porta e trasalisce. È un costume di raso, mezzo azzurro e mezzo rosso, con un grande collare increspato e pon-pon gialli di peluche sul petto al posto dei bottoni. Un costume da pagliaccio. Ancora quei cazzo di pagliacci.
Tocca il costume, strofina il tessuto tra il pollice e le prime due dita. Sulla manica, impiastricciato nel polsino merlettato, c’è del sangue rappreso.
La stanza piena delle cose di Seever, Loren che si traveste da Seever, che si comporta come lui: non va affatto bene. In tutto il tempo che ha lavorato con Loren, Hoskins lo ha visto comportarsi in modo strano, ma mai a questo livello. Questa è ossessione pura e semplice. E dalle ossessioni nascono brutte cose.
«So dov’è andato» annuncia Jenna facendo capolino da dietro la porta. Regge il cellulare in una mano, e con l’altra continua nervosamente a raccogliersi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.
«Dove?»
«È al St. Luke, sulla Diciannovesima» dice, e prima ancora che abbia finito Hoskins l’ha superata, facendo tintinnare le chiavi dell’auto dalle dita. «Sta visitando dei pazienti.»
«Sei mai stato innamorato, Paulie?» gli aveva chiesto un giorno Seever. Erano due settimane di fila che si vedevano quotidianamente, che Seever gli riempiva le orecchie di nomi e dettagli e storie, mezze verità e incubi riguardo alle sue vittime, ai suoi omicidi e alla sua infanzia; era più di quanto Hoskins avesse mai desiderato sapere di Jacky Seever, più di quanto potesse sopportare.
«Sì» gli aveva risposto rilassandosi all’indietro sulla sedia e appoggiando un piede sul ginocchio dell’altra gamba. «Un paio di volte.»
«Hai voglia di parlarmene?» aveva domandato Seever ammiccando. «Darmi qualche dettaglio rovente per tenermi al calduccio di notte?»
Aveva sollevato le mani e le aveva scosse, facendo sferragliare le manette. Quando Seever entrava nella SI2, Hoskins faceva sempre in modo che venisse incatenato al tavolo. I colleghi lo trovavano esagerato, consideravano Seever un vecchio ormai finito, ma Hoskins aveva visto di cosa era capace e non si fidava. Seever gli raccontava della sua infanzia, gli parlava del padre che non aveva mai avuto, dei compagni del liceo che ridevano di lui e lo prendevano a sassate, sproloquiava all’infinito dei suoi ristoranti e del suo matrimonio, facendosi passare per un brav’uomo, per una persona normale, eppure Hoskins continuava a non fidarsi. Perché sapeva che si potevano conoscere mille cose di una persona senza conoscerla davvero, e che Seever aveva basato la sua esistenza proprio su questo. Con i suoi vestiti eleganti e i suoi costumi da pagliaccio, la gente non si era mai presa la briga di guardare più a fondo.
Seever era il lupo travestito da nonnina.
«Non credo che ti racconterò un bel niente» aveva ribattuto. «Stiamo parlando di te, Seever, non di me.»
«Ah, giusto.» Un gran sorriso. «A volte me ne dimentico.»
«E tu, sei mai stato innamorato?» aveva domandato Hoskins, incuriosito. Si aspettava di sentirsi dire che lo era stato una dozzina di volte, un centinaio, che aveva amato ciascuna delle sue vittime. Che amava sua moglie, che amava Carrie Simms, e Beth Howard, e il resto di loro. Invece Seever si era stretto nelle spalle, come perplesso dalla sua stessa domanda.
«Non lo so» aveva detto. Aveva abbassato gli occhi sulle manette ai polsi, le aveva scosse di nuovo. «Ogni volta che conoscevo qualcuno, che cominciavo a lavorarci insieme, non riuscivo più a non pensarci. Diventava un’ossessione, mi faceva impazzire. È amore, questo? Non lo so. Forse sì. Non lo so.»
È come se fosse di nuovo il 2008, quando vedevano Seever uscire di casa vestito da pagliaccio, lo seguivano fino all’ospedale e lo guardavano mentre intratteneva i bambini, facendo palloncini a forma di animali e cantando, e arrivavano quasi a pensare che fosse innocente, che un uomo disposto ad aiutare i piccoli malati non fosse capace di fare certe cose. Ma in lui c’era qualcosa che non andava, qualcosa che non quadrava, anche quando la sua faccia pittata sorrideva e lui si strizzava il naso e raccontava barzellette, qualcosa che Hoskins sulle prime non riusciva bene a individuare.
L’illuminazione era giunta osservandolo mentre girava per la corsia portando i bambini a cavalluccio. Era la sua faccia, il trucco che si metteva per mascherarsi. Il rosso intorno alla bocca era troppo intenso, una tinta sanguigna, e gli angoli del sorriso non erano tondeggianti bensì appuntiti come pugnali. Sembrava un clown pronto a ficcarti un coltello in gola e profanare il tuo corpo. Oh, la gente sorrideva nel vederlo percorrere le corsie dell’ospedale, ma Hoskins si era accorto di come tutti distoglievano la faccia non appena si avvicinava, come se fosse un cattivo odore, come se nel profondo, inconsciamente, sapessero cos’era davvero.
Hoskins scuote la testa cercando di scacciare questi pensieri, perché non è pazzo, siamo nel 2015 e lui si sta avvicinando da dietro a Ralph Loren, che sta facendo il fanfarone vestito da pagliaccio e truccato come Seever, con gli angoli della bocca appuntiti e rossi, troppo rossi. Sta ridendo, imitando il raglio asinino di Seever, e Hoskins avrebbe voglia di estrarre la pistola dalla fondina e sparargli alla nuca, sente addirittura la mano muoversi verso la cintura, ma invece afferra Loren per una spalla e lo costringe a girarsi.
«A che cazzo di gioco stai giocando?» gli grida, e Loren tradisce un’espressione sorpresa e poi colpevole, anche se scompare così in fretta che potrebbe non esserci mai stata. «Perché lo fai?»
«Non l’hai ancora capito?» chiede passandosi le mani guantate sulla gala intorno al collo e tendendo all’infuori le increspature. «Sto diventando Jacky Seever.»
«Seever è in prigione» ribatte Hoskins a denti stretti. «Stai sprecando il tuo tempo.»
Loren spalanca la bocca, fingendosi scioccato.
«Come osi?» esclama portandosi una mano al petto con fare innocente. «Qui sto aiutando il prossimo. E se allo stesso tempo riesco anche a indagare su un caso, tanto meglio.»
«Non stiamo cercando Seever» insiste Hoskins afferrandolo per un braccio, e in quel momento due infermiere dirette verso di loro fanno dietrofront con una tale rapidità che Hoskins riderebbe, se fosse in vena di farlo. «Dovresti cercare Secondamano. Lui è là fuori chissà dove, e tu ti trastulli con queste stronzate.»
«Ricordi cosa ti dicevo una volta?» dice Loren liberando il braccio. «Sto cacciando, Paulie. Fate molto silenzio. E sento che siamo vicini, molto vicini. Lo sapevi che a volte Alan Cole si vestiva da pagliaccio insieme a Seever? Che ballava le sue cazzo di gighe per i bambini?»
«L’hai trovato?»
«Non ancora.» Ridacchia, e Hoskins teme che sia impazzito. Questo caso è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, si dice. «Ma lo beccheremo entro il fine settimana, parola di scout.»
Loren si porta tre dita alla fronte in un saluto, fa danzare le sopracciglia e si strombazza il naso due volte, poi abbozza un inchino e se ne va, schiaffeggiando il pavimento con le lunghe scarpe.
«Dov’era finito?» chiede la badante. Hoskins ha fatto tardi, molto più del previsto, per colpa di Loren e delle sue stronzate. «Questa settimana dovrà pagarmi gli straordinari.»
«Glieli darò. Com’è stato oggi?»
«Ha orinato nel lavello della cucina. Ha detto che il bagno era troppo lontano. E poi si è fatto una risata.»
«Mi dispiace.»
«L’ha fatta sui piatti che avevo appena lavato.»
«Le chiedo scusa. Non so cos’altro posso dire.»
Ma la donna deve pensare che non sia dispiaciuto a sufficienza, perché se ne va stizzita, senza salutare. Tutto per un po’ di acqua calda, pensa Hoskins. Prima o poi non si farà più vedere, e lui dovrà richiamare l’agenzia e chiedere che mandino qualcun altro.
«Se n’è andata, finalmente?» chiede Joe. È seduto sul letto come un bambino, le ginocchia piegate davanti al petto, il giornale appoggiato sulle cosce. «Non fa che criticare tutto il giorno. È come essere sposati.»
«Fa freddo, papà. Dovresti metterti le calze.»
«Sto bene.»
«Sì, questo lo so.»
Hoskins prende un paio di calze pulite dalla credenza e fa per infilargliele ai piedi, ma poi vede che le sue unghie sono lunghe e ingiallite, si ferma e va in bagno a prendere le forbicine. Potrebbe chiedere alla badante di pensarci lei, ma l’ultima volta che l’ha fatto lei ha ignorato la sua richiesta, sicché è inutile. Non vuole avere discussioni, non ne vale la pena.
«Sta’ fermo, non voglio tagliarti» dice a Joe. Si siede in fondo al letto, gli prende i piedi in grembo. I suoi talloni gli danno una strana sensazione: sono ruvidi e accidentati come carta vetrata, ma anche soffici.
«D’accordo, d’accordo. Non è necessario pizzicare così forte.»
«Non ti sto pizzicando.»
«Mi fai il solletico. Non toccarmi lì! Maledizione.»
«Sta’ fermo. Smettila di fare il bambino.»
«Non sono un bambino.»
«Ma ti comporti da bambino. Non muoverti.»
Joe resta fermo per un istante.
«Ho qualche soldo, sai. Risparmi.»
Hoskins drizza la schiena e lo guarda.
«Sì, lo so» dice. «E allora?»
«Potremmo usarli per una di quelle case di riposo. In città ce ne sono di belle.»
«Neanche per sogno. Ho visto quello che succede in quei posti. Non ci si può fidare di nessuno. Meglio che tu stia qui.»
«Si prenderebbero cura di me.»
«Ci sono io a prendermi cura di te.»
«Lo so.»
«Un tempo dicevi che avresti preferito morire piuttosto che finire in una casa di riposo. Cos’è che ti ha fatto cambiare idea?»
«Tu hai già molto a cui pensare. Devi lavorare, trovarti una donna. Ho la sensazione di essere un tremendo guastafeste.»
Hoskins fa un piccolo sorriso.
«Non è che tu abbia avuto molte feste da guastare.»
«Vero.» Joe esita. «Quella donna ti ha detto che ho pisciato nel lavello?»
«Sì.»
«È vero.»
«Perché l’hai fatto?»
«Volevo farla incazzare. Era una giornata troppo tranquilla. C’era bisogno che qualcuno agitasse un po’ le acque.»
«Capito.»
«Questa cosa di impazzire non è poi così male, sai» conclude. Ha ripreso a guardare il giornale, facendo scorrere la punta della matita sulle definizioni delle parole crociate. «Non è male per niente.»