Sammie

«Cosa diavolo significa l’Assassino di Seconda Mano?» chiede Sammie. Dovrebbe prepararsi per il lavoro, truccarsi e sistemarsi i capelli, ma non riesce a concentrarsi, perché Corbin ha pubblicato il suo pezzo come aveva promesso ma vi ha anche fatto qualche aggiunta, e ha messo il nome di Chris Weber accanto al suo come se avessero lavorato insieme all’articolo. Sammie l’ha chiamato non appena ha visto il giornale, ha lasciato suonare il telefono finché lui ha risposto. «Non c’era niente del genere nel mio articolo.»

«L’ho aggiunto io» risponde Corbin. «A dire il vero l’idea è stata di Weber.»

«Weber?»

«Sì, era un po’ che cercava un soprannome per quel tizio. Ti piace?»

«No» dice Sammie cercando di reprimere il tremito di rabbia nella voce. «Se avessi saputo che volevi dargli un nome, l’avrei trovato io.»

«Ascolta, Sammie, volevo far uscire il pezzo stamattina e avevo bisogno di qualcosa. Weber ci aveva già pensato. Qual è il problema?»

Si morde il labbro. Corbin è divertito, lo avverte nel suo tono di voce, ma deve stare attenta a non tirare troppo la corda. È il primo pezzo che pubblica da un anno a questa parte, forse è meglio lasciar correre. A infastidirla non è tanto il nome in se stesso, anche se è pessimo (tanto varrebbe chiamarlo l’Assassino degli Avanzi), quanto il fatto che provenga da Weber.

«Sono sorpresa» riprende. «Hai pubblicato il mio pezzo, significa che faccio di nuovo parte della squadra?»

«Hai una settimana per consegnarmi un altro articolo» dice Corbin. «Anche prima, se ce la fai. Ti conviene sbrigarti, perché Weber ha già pronto un bel po’ di materiale, abbastanza da pubblicare un pezzo al giorno.»

«Non hai risposto alla domanda.»

«Per il momento diciamo che sei una collaboratrice. Ma dimostra di essere all’altezza e potrei riprenderti. Fa’ le cose come si deve e qui in corridoio c’è un ufficio vuoto che potrebbe diventare tuo.»

«Non me ne frega niente dell’ufficio.»

«Ne terrò conto. Weber sta passando la mattina al telefono, dice che ha ottenuto un’intervista. Qualcosa di buono, immagino.»

Sammie guarda l’orologio sul muro in preda allo sgomento. Ha tre quarti d’ora di tempo per arrivare in negozio, dove dovrà trattenersi per almeno sei ore. Si darebbe malata e passerebbe la giornata a lavorare all’articolo, ma non se lo può permettere. Ci sono conti da pagare, e bisogna pur mangiare. È il problema di quando si rincorre un sogno, si dice. La realtà ti tallona di continuo, mordendoti le caviglie. E i suoi denti sono acuminati.

«Una settimana?» ripete. «D’accordo. Avrai qualcos’altro entro una settimana. Forse meno.»

Si può far credere qualsiasi cosa a una persona, Sammie lo sa. L’ha visto fare, l’ha fatto lei stessa. Lo fa ogni giorno sul lavoro, finge di essere interessata alle sue clienti, si mostra coinvolta mentre spalma le lozioni sulle loro pelli, applica il fard sulle loro guance, si complimenta per il loro aspetto. E queste donne, molte delle quali non si sono mai sentite belle, neanche per un solo giorno, prendono le sue parole e se le tengono strette, e tornano quando hanno di nuovo bisogno di gentilezza.

Come oggi: Sammie non può fare a meno di guardare di continuo l’orologio, non vede l’ora di timbrare il cartellino e saltare a bordo della sua auto. Ogni minuto che passa è un ulteriore vantaggio per Weber, e se c’è una cosa che lei odia è farsi superare. È così travolta dall’impazienza che non ascolta la donna seduta davanti a lei, una cliente che torna ogni settimana e acquista tutto quello che Sammie le mette in mano. In realtà non torna per i cosmetici, torna perché si sente sola, perché vuole parlare, raccontarle la sua vita, le sue visite mediche, l’eczema di suo figlio, il fatto che i freni della sua vettura continuano a fischiare qualsiasi cosa faccia il meccanico.

«Lei è una brava persona» le dice, e Sammie ne è sorpresa, perché sul lavoro non parla mai di sé, non interrompe mai il fiume incessante di parole che si riversa fuori da alcune di quelle donne.

«Non mi conosce nemmeno.»

«Non ho bisogno di conoscerla. Lo si capisce.»

Sammie esita, è uno di quei momenti che ti sembrano importanti per qualche strano motivo, in cui senti che dovresti dire, o fare qualcosa, ma non sai neanche da che parte cominciare. Poi qualcuno nel negozio ride, una risata acuta e improvvisa che spezza l’incantesimo, e Sammie riprende ad applicare il fard sulle guance della donna provando una vaga confusione, perché chiaramente le è sfuggito qualcosa, anche se non ha proprio idea di cosa sia.

Implorando la direttrice ottiene il permesso di andarsene prima (quindici minuti, ed è come se avesse ottenuto un favore enorme) e corre letteralmente fuori dalla porta posteriore che dà sul parcheggio del personale. Si sente chiamare e si ferma, anche se dal cielo stanno cadendo sottili spilli di ghiaccio e la temperatura sta sprofondando come un sasso nell’acqua. È Ethan, il ragazzo dei panini: la sta raggiungendo di corsa dalla sua stessa uscita, aprendo un ombrello.

«Ti accompagno alla macchina» le grida, e subito dopo le si affianca e si abbassa in modo che l’ombrello la ripari dalla neve e dal vento, e a un tratto sono molto vicini, e sotto la calotta il buio si fa fitto.

«Cosa fai qui fuori?» gli chiede Sammie coprendosi la bocca con la sciarpa. «Torna dentro, prenderai freddo.»

«Sto aspettando Kelly. Dovrebbe finire a momenti. Ma se non vuoi che ti accompagni, mi fermo qui ad aspettarla.»

«No, non volevo dire questo» dice infilando un braccio sotto il suo. L’ombrello non può nulla contro il freddo, ma se non altro la ripara dalla tormenta: il ghiaccio tempesta la calotta di nylon sopra di loro, frusciando come sabbia. «Sono contenta che mi hai vista.»

Ethan sorride, un sorriso che gli illumina il volto di cui lei non si accorge: è troppo concentrata a fissare l’asfalto ghiacciato per non scivolare. Se avesse visto quel sorriso, Sammie avrebbe fatto un passo indietro, perché è l’espressione di un ragazzo innamorato, e lei non vuole illuderlo, non vuole fargli pensare di avere una possibilità.

«Ho visto il tuo articolo sul giornale» dice lui alzando la voce per sovrastare il vento. «Fantastico. Scritto benissimo.»

«Ti ringrazio.»

«Posso chiederti l’autografo prima che diventi famosa?» chiede, e con uno svolazzo le presenta una copia del «Post» e le porge una penna. Sammie cerca di scarabocchiare la sua firma sul davanti, ma la carta è fradicia di neve, rovinata. «Oh, non temere, ne ho comprate diverse copie. Me lo firmerai un’altra volta.»

«Okay. Perdonami, ma devo proprio scappare…»

«È fantastico» insiste Ethan. Il suo sorriso è radioso, Sammie non crede di averlo mai visto così estatico. «So che l’hai scritto tu, ma leggerlo mi fa sentire parte della storia. Forse è una sciocchezza.»

«No, non lo è» gli dice dandogli una stretta al braccio e poi ritraendo subito la mano, perché Kelly li sta raggiungendo da dietro, strizzando gli occhi nel vento, e non sembra affatto lieta di vederli insieme. «Ascolta, ne parleremo più avanti…»

«Sì, certo. Devo andare anch’io.»

Sammie prosegue di corsa verso la sua auto, avvia il motore, regola il riscaldamento al massimo e saluta Ethan con un cenno mentre lui si volta verso Kelly. Le labbra rosso fuoco della ragazza si muovono furiose, le parole un fiume in piena che le fuoriesce dalla bocca, ed Ethan non la guarda nemmeno, tiene gli occhi a terra, la faccia sepolta nel colletto del giaccone, al riparo dal gelo.

La madre di Carrie Simms abita nel parco di case mobili Happy Trees. Con un nome del genere uno si aspetterebbe un’area verde e rigogliosa, invece il panorama è di uno squallore sconfortante. Ne ha visti, di parchi di case mobili decenti, con villette prefabbricate ben tenute e giardini e dondoli, ma questo è solo cemento e disperazione. Accanto al cancello d’ingresso c’è un monticello di rifiuti tenuti fermi dalla neve e un fossato pieno d’acqua che potrebbe essere un laghetto artificiale ma che probabilmente non lo è. La madre di Carrie, Delilah Simms, abita al numero 15, un prefabbricato rosa sbiadito in fondo a una lunga strada. Nella finestra sul davanti campeggia un albero natalizio di alluminio, e sulla porta d’ingresso è fissata una ghirlanda di bacche di agrifoglio di plastica.

«Mrs. Simms?» chiede Sammie alla donna che si presenta alla porta quando bussa. Ha i capelli scuri ma probabilmente tinti, perché le radici sono grigie. «Mi chiamo Samantha Peterson. Sono un’inviata del “Post”.»

«C’è qualcosa che si è dimenticato di chiedermi?» ribatte la donna. Non sembra appartenere a questo posto, pensa Sammie. Ha un aspetto curato, indossa un tailleur pantalone e una semplice catenella d’oro al collo, ma sembra anche stanca, come se la vita fosse troppo per lei.

«Chiedo scusa?»

«La manda Mr. Weber?» Consulta il suo orologio. «Ora non ho tempo, e non so cos’altro potrei dirle. Erano quasi quattro anni che non parlavo con Carrie.»

«Mi perdoni il disturbo» dice Sammie indietreggiando sui gradini. Non sta andando nel modo che aveva immaginato, ma cos’altro avrebbe dovuto aspettarsi? È la procedura classica: quando viene ucciso qualcuno, si intervistano i parenti. Si prova a cavarne tutto quello che si può. I lettori adorano le storie di famiglia, e più sono drammatiche meglio è. È naturale che Weber abbia fatto tappa qui. «Mi sono sbagliata, abbiamo già tutto quello che ci serve.»

Raggiunge la sua auto quasi di corsa e riparte senza allacciarsi la cintura, perché la madre di Carrie Simms la sta ancora guardando, una mano posata sulla manopola ossidata della porta, l’altra sull’anca opposta, come se le facesse male. Sammie prosegue fino a perdere di vista la villetta rosa pallido, e solo a quel punto accosta e si ferma. Le si è rivoltato lo stomaco, ma anche se aprisse la portiera e si sporgesse fuori non avrebbe più niente da rigettare a parte la mezza tazza di caffè che ha bevuto ore fa. Deglutisce la saliva che le si è accumulata in bocca, una volta, poi di nuovo, finché lo stomaco non si placa.

Parlare con i famigliari è la regola. Weber scriverà un bell’articolo sull’impatto psicologico della tragedia, un pezzo strappalacrime, anche se dovesse stiracchiare la verità. È roba da manuale, fa tutte le mosse giuste. La sta già distanziando e manterrà il vantaggio a meno che a lei non venga qualche idea, ma al momento non sa come muoversi. I famigliari della vittima: fatto. Ha cercato di rintracciare il padrone di casa, colui che ha scoperto il corpo, ma non c’è riuscita. Potrebbe parlare con i parenti delle prime due vittime, Selene Abeyta e Tanya Brody, ma immagina che Weber l’abbia già fatto. È detestabile ma non è uno stupido, e questo non fa che renderlo ancora più odioso.

Un cane si avvicina zampettando con cautela tra i cumuli di neve. Sammie abbassa il finestrino e fischia. È una bestia bruna e magra, troppo magra. Non ha un collare, ma drizza le orecchie, si volta verso di lei e comincia ad abbaiare. E non smette più, nemmeno quando lei richiude il finestrino e riparte, rincorrendola per qualche decina di metri e cercando di azzannare il paraurti posteriore.

Quando Sammie rientra Dean è ancora al lavoro, e la casa è vuota e fredda. Sammie si siede al tavolo della cucina. È un vecchio tavolo, l’avevano pagato solo dieci dollari insieme alle sedie a una vendita di roba usata quando erano ancora sposi novelli, e Dean li aveva riparati: aveva passato ore a levigare il legno e stendere il mordente, lo chiamava il suo “progetto d’amore”, e lei rideva e lo baciava. Alla fine erano diventati come nuovi, ma ormai sono consumati e malconci; il tavolo è costellato di cerchi lasciati dai bicchieri e i cuscini delle sedie sono pieni di macchie. Sammie si chiede come abbiano fatto a rovinarsi in questo modo, e come abbia fatto lei a non accorgersene.

Sfila il cellulare dalla borsa, apre il browser e vi inserisce qualche parola. L’icona vortica per qualche istante, riflettendoci, dopodiché presenta pagine e pagine di informazioni, duecentocinquanta milioni di risultati. È incredibile com’è diventato facile trovare qualsiasi cosa in rete, quasi senza la minima fatica.

Vede quello di cui ha bisogno, vi picchietta l’indice e il suo telefono compone automaticamente il numero. Non sa perché non ci ha pensato prima, come mai ha avuto bisogno che glielo ricordasse Ralph Loren, ma lei ha accesso a qualcosa a cui Chris Weber non arriverà mai. Può visitare Jacky Seever.

«Avete chiamato l’Istituto Correzionale di Sterling» le dice all’orecchio il messaggio automatico. È una voce asessuata, robotica. Non si riesce a capire se è maschile o femminile. «Se conoscete l’interno con cui volete parlare, componetelo. I nostri orari di visita sono il mercoledì dalle dieci alle tredici…»