Gloria
Quando Gloria era piccola, sua madre veniva fermata in strada dagli sconosciuti che le gridavano dai finestrini delle loro automobili. «È la donna più bella che abbia mai visto» le dicevano, e sua madre annuiva e proseguiva a camminare, la borsetta sottobraccio e le labbra serrate. E anche quando non diceva niente, la gente la guardava, a volte di sottecchi, ma più spesso apertamente, e fischiava, e faceva commenti sconci. Sua madre non ne parlava mai, non ripeteva mai quello che le dicevano. Era come se non fosse mai successo, come se non avesse importanza. Gloria non se ne capacitava, non capiva come si potesse ignorare un complimento. Forse era troppo giovane per comprenderlo, o forse troppo brutta.
«Oggi un uomo ha detto che la mamma è bella» aveva detto una sera. Aveva otto anni, e stavano cenando. Si erano appena seduti, loro tre al tavolo e il vecchio cane accoccolato ai loro piedi con il muso sulle zampe, in attesa che cadesse qualche briciola.
«E tua madre cos’ha risposto?» Suo padre aveva posato la forchetta sul piatto con tale lentezza da non produrre alcun suono. Sua madre, seduta sul lato opposto del tavolo, non si era mossa. Non aveva nemmeno alzato gli occhi dal piatto, malgrado la stessero guardando entrambi, in attesa che dicesse qualcosa.
«Non ha detto niente» aveva risposto Gloria.
Suo padre era un uomo alto, magro ma nerboruto. Quando entrava in una stanza era come se ne risucchiasse via tutta l’aria, tutta la vita. Non era per niente bello, con quei peli scuri che gli sbucavano dalle orecchie e i punti neri sparsi sul naso; non era attraente nemmeno nella foto delle nozze appesa in sala da pranzo, ma chiunque sarebbe parso insignificante accanto a sua madre, che era davvero meravigliosa nel suo abito bianco, malgrado non sorridesse. Gloria si era sempre chiesta come si fossero trovati a vicenda, i suoi genitori; come sua madre, bella come una regina, fosse finita a cucinare in uno dei ristoranti del marito e a fare la massaia nella squallida casetta di mattoni in Ninth Street, ma non gliel’aveva mai chiesto se non molti anni dopo, e sua madre non aveva saputo risponderle, le aveva detto che non riusciva a ricordare come fosse accaduto. Suo padre sapeva essere cattivo come una serpe, ma aveva anche i suoi momenti di gentilezza, e c’erano occasioni in cui Gloria li vedeva felici insieme, li vedeva ridere, tenersi per mano, baciarsi, vedeva suo padre che portava il caffè a letto a sua moglie e le massaggiava i piedi, ma le situazioni potevano rovesciarsi all’improvviso, oh, gli umori di suo padre erano mutevoli e inaspettati.
«Non ha detto alcunché» l’aveva corretta sua madre quella sera, senza alzare gli occhi dal monticello di piselli al burro sul suo piatto. «È così che si dice.»
«Quell’uomo aveva ragione» aveva detto suo padre. Fissava sua moglie, e il suo sguardo sembrava rovente, soffocante. «Tua mamma è così bella che forse dovrò ucciderla prima che me la portino via.»
Poi aveva riso.
Per tutta la vita Gloria si era chiesta cosa si provava a essere talmente belle da ridurre gli uomini a cani sbavanti davanti a un osso. In realtà loro non sembravano sempre così; a volte nel vedere sua madre parevano furiosi, come se i suoi occhi scuri e il suo viso perfetto fossero fatti apposta per infastidirli.
Ma Gloria non sapeva cosa voleva dire essere belle, né l’avrebbe mai saputo. Aveva preso da suo padre: era alta, magra e insignificante. Da piccola sentiva dire che sarebbe migliorata col tempo, che le bambine brutte diventavano belle donne, ma a lei non era successo; a quarant’anni era la stessa del giorno in cui era venuta al mondo. Sua madre non aveva mai fatto osservazioni, ma suo padre sì.
«Ho sempre preferito le ragazze intelligenti alle bellezze» diceva, anche se sapevano entrambi che non era vero, visto che non c’era niente che gli piacesse di più che guardare sua moglie; e se Gloria non era una stupida, non era neanche un genio. «Un giorno sarai una buona moglie.»
Non che sua madre non lo fosse, ma in lui attizzava qualcosa, qualcosa di sgradevole e stupido e possessivo, anche se lo vedeva solo Gloria. Come la volta che, quando lei aveva dieci anni, suo padre si era convinto che sua madre avesse una relazione col macellaio, solo perché gli sorrideva quando ordinava l’arrosto per la cena, e anche una cosa innocente come un sorriso diventava sospetta, finché una sera non gliel’aveva chiesto apertamente, accusandola di essergli infedele, e per tre ore le aveva puntato addosso un fucile, uno di quelli che in autunno usava per la caccia al cervo. Erano rimasti così a lungo, sua madre in piedi, addossata al banco della cucina, suo padre seduto a tavola con il calcio del fucile piantato sulla coscia, mentre la televisione ronzava in sottofondo e la carne arrostiva nel forno. Sua madre non aveva gridato nel vedere il fucile, non era sembrata minimamente sorpresa, e Gloria si era chiesta se non fosse sempre stata in attesa di quel momento, se non avesse passato la sua intera vita matrimoniale nella certezza che il marito l’avrebbe ammazzata mentre la cena si carbonizzava.
«Va’ in camera tua» le aveva ordinato, ma Gloria si era nascosta dietro il divano in salotto, portando le ginocchia al petto e ascoltando, inspirando la polvere e cercando di non sternutire. Non riusciva a sentire tutto quello che diceva suo padre, ma era sicura che sarebbe successo qualcosa di brutto. Gloria era ancora una bambina ma era cresciuta in fretta: aveva dovuto farlo, come succedeva a molte sue coetanee, e aveva capito che l’amore del padre per la moglie sconfinava nell’ossessione, che lui la trattava allo stesso modo in cui un uomo avido tratta il suo denaro, come se fosse una sua proprietà. Doveva nasconderla, laddove nessuno potesse vederla, come un tesoro in una camera blindata. Oppure ucciderla e farla finita.
Gloria si era addormentata dietro il divano, in attesa di uno sparo che non era mai arrivato, e si era svegliata mentre sua madre la portava in braccio in bagno, sussurrandole di fare i suoi bisogni prima di andare a letto per evitare incidenti notturni. Non aveva acceso la luce, e il bagno era rischiarato solo dal chiarore giallo e confortante proveniente dal corridoio.
«Perché papà ha fatto così?» aveva chiesto Gloria oscillando sul gabinetto, ancora mezza addormentata e confusa. Sua madre si era accovacciata accanto a lei, in attesa che finisse per aiutarla a sfilarsi i pantaloni e metterla a letto, e in quel momento le era sembrata tutt’altro che bella, ma soltanto stanca e triste, e molto vecchia.
«Non lo so» aveva risposto. «Forse lo fa perché mi ama così tanto.»
«Quando ti sposerai la tavola calda sarà tua» le diceva suo padre quando era bambina, e lei andava a sedersi in un séparé, uno di quelli sul retro dove non avrebbe disturbato, e una cameriera le portava un frappè e una porzione di patate fritte, e lei immaginava come sarebbe stato possedere quel locale, cosa avrebbe fatto per migliorarlo. Avrebbe messo tavoli nuovi al posto dei vecchi e si sarebbe sbarazzata delle brutte felci di plastica negli angoli. Avrebbe messo altre pietanze sul menu. Torte o crostate. Sua madre sapeva cucinare tutto tranne le torte. Era l’altitudine, protestava. Denver era un chilometro e mezzo sopra il livello del mare, troppo elevata perché una torta potesse lievitare, e le sue erano sempre sgonfie come se qualcuno fosse passato e vi avesse gettato sopra un sasso.
Ma Gloria non aveva mai avuto un ragazzo. Nessun accompagnatore ai balli scolastici, nessun venerdì sera al drive-in. Sua madre cercava di combinarle serate con i giovani della parrocchia, ma finivano sempre in niente. Suo padre non diceva una parola ma Gloria sapeva che sospettava fosse lesbica. Era chiaro dal modo in cui a volte la guardava, e anche da quello che le aveva detto una volta finito il liceo, per convincerla a iscriversi all’università. «Dovrai essere in grado di mantenerti da sola» aveva detto in tono poco convinto, senza guardarla negli occhi. «Per ogni eventualità.»
Era l’estate dopo il primo anno di college (si era iscritta alla facoltà di storia) quando conobbe Jacky. Era tornata a Denver e lavorava come cameriera al ristorante di suo padre, e quel giorno era uscita a fumare.
«Te ne posso scroccare una?» le chiese lui avvicinandosi da dietro e facendola sobbalzare, perché suo padre non sapeva che fumava e se l’avesse scoperta gliel’avrebbe fatta pagare cara. Suo padre non passava più molto tempo al ristorante, e nemmeno sua madre (stavano più che altro a casa, passando il loro tempo a fare giardinaggio, guardare la televisione e cose simili), ma Gloria era lo stesso paranoica. «Ho dimenticato a casa le mie.»
Lei sfilò il pacchetto dalla tasca del grembiule e glielo porse, più sorpresa che altro. Da quando aveva cominciato a lavorare al ristorante le avevano rivolto in pochi la parola (era pur sempre la figlia del padrone, e per giunta un’estranea) e non sapeva bene come reagire al suo sorriso amichevole.
«Grazie» disse lui. «Te ne sono grato.»
«Figurati.»
Rimase a fumare accanto a lei, addossato al cassonetto verde dei rifiuti, piegando una gamba e piantando la suola di una scarpa da ginnastica sulla lastra di metallo. Non era bello, ma c’era qualcosa nel suo volto e nel suo modo di muoversi, che le faceva venire voglia di guardarlo. Aveva un che di sfuggente e scivoloso, come un granchio che avanza furtivo sulla sabbia.
«Io sono Jacky» disse. Non le porse la mano, cosa che le piacque. In giro c’erano troppe persone con strette mollicce e palme sudate, e lei sentiva sempre il bisogno di passarsi la mano sulla gonna, ma non poteva farlo perché l’avrebbero giudicata una cafona. «Lavo i piatti.»
«Lo so.»
«E tu sei Gloria, giusto?» le chiese guardandola di sbieco con gli occhi luminosi. «Una delle cameriere?»
«Sì.»
Fosse stata una ragazza diversa, avrebbe avuto qualcosa da dire. Avrebbe fatto un commento sul suo orologio, o sul tempo, o sul cattivo odore che c’era sempre lì fuori, specialmente d’estate, malgrado tutta l’acqua bollente che versavano sul patio di cemento: qualcosa, qualsiasi cosa pur di far uscire le parole. O se fosse stata bella come sua madre, non avrebbe avuto bisogno di dire un bel niente. Lui l’avrebbe guardata e sarebbe stato sufficiente. Invece poteva solo essere se stessa, e aveva sentito dire da una sua compagna di studi che le brutte dovevano impegnarsi il doppio con gli uomini, e malgrado l’avesse detto scherzando era la verità. Ma Gloria non aveva idea di cosa fare, non era né bella né brillante, e così rimasero lì in piedi, uno accanto all’altra, aspirando grandi boccate dalle loro sigarette e soffiando nuvole di fumo verso il cielo.
Tre giorni dopo Jacky le chiese di uscire.
«Perché mi hai invitata?» gli domandò Gloria a fine serata. Erano andati al cinema a vedere un film di navi spaziali e alieni che lei non aveva capito. «Devi vedere i primi due» aveva tagliato corto Jacky quando lei gli aveva chiesto spiegazioni. Le aveva comprato una porzione di popcorn e una Coca, e lei aveva le dita unte di burro. Era stata sul punto di leccarsele, ma Jacky la stava guardando, e così aveva usato un tovagliolo di carta.
«Perché no?» rispose lui. «Ero sorpreso che una ragazza come te non avesse già un fidanzato.»
Lei si sentì avvampare in volto.
Il fine settimana successivo Jacky la portò a cena in un bel ristorante, dove praticamente l’intero staff passò dal loro tavolo per fare conversazione. Gloria non aveva mai frequentato nessuno come Jacky: ricordava il nome di tutti, anche di quelli che aveva conosciuto di sfuggita tre anni prima, e teneva a mente dettagli, date e avvenimenti che chiunque altro avrebbe dimenticato. E faceva continue domande, sul lavoro, la scuola, la famiglia del suo interlocutore. Alla gente piaceva parlare di sé. In seguito Gloria si sarebbe resa conto che Jacky faceva incetta di informazioni allo stesso modo in cui uno scoiattolo conserva le nocciole per l’inverno: nell’eventualità che gli potessero servire in futuro.
«Hai lavorato qui?» gli chiese Gloria quella sera a cena, subito dopo che uno degli aiuto-cuochi si era allontanato dal loro tavolo, sorridendo e pulendosi le mani sul grembiule. Per cinque minuti lui e Jacky non avevano fatto che raccontarsi barzellette sconce mentre lei piluccava in silenzio l’insalata.
«No. Perché me lo chiedi?»
«Ti conoscono tutti.»
«È la prima volta che li vedo in vita mia» rispose lui con un piccolo sorriso. «Ma adesso siamo amici.»
Jacky collezionava amici come altri collezionano monete o francobolli. Era sempre carico, come un attore di teatro, e alcuni ne erano nauseati, a volte tutta quell’energia poteva sembrare insincera, ma la maggior parte della gente veniva risucchiata nella sua orbita. Lei stessa lo era, affascinata dai racconti e dalle battute, dal fatto che Jacky sapeva sempre cosa chiedere, come pilotare una conversazione in modo che l’altra persona si sentisse il centro del mondo. Era fatto per vendere cose o fare politica, non certo per lavare piatti in un ristorante, ma quando lei glielo disse lui si strinse nelle spalle e sorrise.
«Ho fatto molti lavori» disse. «Mi piace provare di tutto.»
Era passato da una quantità di cucine, per sei mesi aveva fatto il guardiano notturno in una casa di riposo, aveva perfino lavorato in una camera mortuaria. Gross Mortuary, le disse, non perché fosse gross, disgustosa, era semplicemente il nome del proprietario. Vi svolgeva più che altro mansioni di routine, ma in qualche occasione aveva dato una mano con i defunti. Era così che li chiamava. Non i corpi, i morti o i cadaveri. I defunti. Li vestiva con gli abiti della domenica, applicava il fard sulle guance, sollevava le loro teste sui cuscini di raso assicurandosi che fossero pettinati così da soddisfare i parenti che avrebbero pagato il conto.
«Non ti faceva impressione?» le chiese lei un giorno. «Lavorare con i morti?»
Stavano passeggiando al parco, mano nella mano, quando gli rivolse quella domanda, e Jacky le rispose senza voltarsi a guardarla, fissando dritto davanti a sé, con gli occhi strizzati per difendersi dai raggi del sole.
«No» disse. «Non era affatto male. Forse è l’impiego migliore che abbia mai avuto.»