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Vice presidente, presidente della Camera, onorevoli, cittadini.

Ieri sera una task force di funzionari pubblici, con l’aiuto di due Paesi alleati e di un coraggioso cittadino straniero, ha sgominato il più pericoloso attacco cyberterroristico che abbia mai minacciato gli Stati Uniti o qualsiasi altra nazione.

Se l’attacco fosse andato a buon fine, avrebbe messo in ginocchio il nostro sistema militare, cancellato tutti gli archivi bancari e i relativi backup, distrutto la rete elettrica e le reti di comunicazione, messo fuori uso i sistemi idrici e di purificazione dell’acqua e tanto altro ancora. Come probabili conseguenze di tale attacco avremmo subito un ingente numero di vittime, gravi danni alla salute di milioni di americani di ogni età, una crisi economica peggiore della Grande depressione, violenti scontri per le strade di comunità grandi e piccole in tutto il Paese. Con gravi ripercussioni sul resto del mondo. Avremmo impiegato anni a superare una simile devastazione, e per riprenderci dal punto di vista economico, politico e militare ci sarebbe voluto un decennio, se non di più.

Sappiamo che la persona che ha organizzato e lanciato l’attacco era Suliman Cindoruk, un terrorista turco, non religioso, che ha agito non solo per denaro, ricevendo una cifra notevole, ma anche, a quanto pare, per il semplice gusto di danneggiare gli Stati Uniti. Il denaro è stato fornito da un piccolo gruppo di principi sauditi molto facoltosi che, trovandosi tagliati fuori dalla sfera d’influenza del loro attuale governo, volevano provocare l’eclissamento dell’America dallo scacchiere mondiale, così da approfittarne per deporre il re, espropriare le ricchezze dei rami rivali della famiglia reale e dei loro sostenitori, e infine riconciliarsi con Iran e Siria per fondare un moderno califfato tecnocratico, in cui scienza e tecnologia avrebbero riportato il mondo musulmano ai fasti di mille anni fa.

C’è anche un altro cattivo in questa storia: la Russia. Nella giornata di sabato, ho invitato il presidente russo, il cancelliere tedesco e il primo ministro israeliano in una base operativa temporanea allestita nelle campagne della Virginia, chiedendo di potermi avvalere delle loro équipe di esperti di cybersecurity – e nel caso della Russia anche di cyberterrorismo –, notoriamente le migliori al mondo. Tedeschi e israeliani sono stati di grandissimo aiuto. Ogni cittadino americano deve essere oggi grato alla Germania e a Israele.

Il presidente russo non è venuto di persona, ma ha inviato il suo primo ministro affinché collaborasse. Sappiamo ora che i russi avevano già dato il loro sostegno all’attacco, e sappiamo anche perché. Innanzitutto, erano a conoscenza del virus e hanno preferito non dirci nulla, neanche a fronte di domande specifiche da parte nostra. Inoltre, per aiutare i principi sauditi a mantenere segreta la loro identità, avevano gestito loro stessi i trasferimenti del denaro richiesto da Suliman Cindoruk per il virus e avevano perfino assoldato alcuni mercenari e un killer a sostegno dell’offensiva. Volevano vedere il nostro Paese in ginocchio non per raderci al suolo con un attacco nucleare, ma semplicemente per essere liberi di serrare la stretta sui loro vicini e di affermare la loro influenza nel mondo. Quando il primo ministro russo è partito, sabato sera, gli ho espresso i nostri sospetti nei loro confronti garantendo la più dura delle reazioni da parte nostra. Ieri ho compiuto il primo passo decretando l’espulsione dell’ambasciatore russo e di tutti gli impiegati russi dell’ambasciata negli Stati Uniti. E oggi il secondo passo è far sapere al mondo quello che hanno fatto.

Il governo saudita è stato informato di tutto e si sta occupando dei traditori.

Suliman Cindoruk, invece, che fosse religioso o no, si è ricongiunto al suo Creatore.

Sabato non avevamo ancora nessuna certezza. Nelle ultime ore frenetiche, mentre lottavamo contro il tempo per trovare il modo di fermare il virus, il nostro quartier generale in Virginia ha subito un attacco da parte di killer professionisti e ben addestrati, il terzo da quando avevo lasciato la Casa Bianca per lavorare a questa emergenza. Quasi tutti gli assalitori sono stati uccisi, ma a terra sono rimasti anche due coraggiosi agenti del Secret Service, morti per salvarmi la vita e per salvare il nostro Paese quando entrambi eravamo in pericolo. Morti da eroi.

C’è stata anche un’altra vittima, una donna molto giovane che aveva programmato il virus ma che in seguito, insieme a un ragazzo che l’amava molto, ha deciso di non permettere che l’attacco andasse a buon fine. I due hanno disertato le file dei Figli della Jihad e hanno intrapreso una serie di azioni inusuali per avvertirci dell’esistenza del virus e per spiegarci come disattivarlo, sfuggendo a molteplici tentativi di vendetta orditi da Suliman Cindoruk. Soltanto il ragazzo è ancora vivo. Se la loro umanità non si fosse rivelata in tempo, oggi non saremmo qui a festeggiare questo risultato.

In modo abile e ingegnoso, la ragazza ci ha contattati fornendoci informazioni sufficienti e credibili, specificando che soltanto lei e il suo partner possedevano i dati necessari per la disattivazione del virus. In cambio, volevano un salvacondotto per tornare in sicurezza nella loro patria.

Il ragazzo, che era molto sospettoso nei confronti del nostro governo, è arrivato negli Stati Uniti da solo e, riunitosi con lei, ha chiesto d’interagire direttamente con me e di fissare un incontro in un luogo pubblico dove io sarei dovuto arrivare senza scorta.

Ecco perché il vostro presidente è scomparso.

Data l’entità della posta in gioco, ho deciso di accettare questo enorme rischio e di recarmi nel luogo dell’incontro in completa solitudine, seppure con un travestimento. Sono ancora convinto di aver fatto la scelta giusta, ma prego Dio che in futuro nessuno dei miei successori debba mai prendere una decisione simile.

Sono successe molte cose negli ultimi giorni, e renderemo pubblici quanti più dettagli possibile, ma naturalmente ci sono ancora valutazioni in sospeso e questioni di sicurezza di cui tenere conto.

Durante la mia assenza la stampa è andata in subbuglio, e ne aveva motivo. Dov’ero finito? Perché all’improvviso ero irrintracciabile? Pochi giorni prima, contro il parere dei miei collaboratori, avevo accettato di comparire davanti a una commissione speciale della Camera che avrebbe dovuto stabilire se ci fossero o meno gli estremi per l’impeachment.

Il vuoto che ho lasciato ha dato adito a una tempesta di supposizioni. Alcune emittenti benevole hanno suggerito che mi fossi ritirato in un angolo buio a morire in pace per l’ennesimo peggioramento della mia malattia ematica. Altre, ancora più benevole, hanno lasciato intendere che lo stress, il calo dei consensi e la perdita recente di mia moglie mi avessero spinto sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Quelle meno benevole hanno invece sguinzagliato voci secondo cui ero in fuga dal Paese con i soldi ricevuti su conti segreti per aver venduto l’America al più famoso terrorista del mondo e alla nazione che più di tutte è impegnata a danneggiare la nostra democrazia.

In effetti, queste voci incontrollate sono state alimentate dalla mia decisione di tenere all’oscuro tutti di quello che stavo facendo e del perché, a eccezione del mio ex capo di gabinetto. Non avevo detto nulla nemmeno al vice presidente Brandt, che pure avrebbe preso il mio posto se mi fosse accaduto qualcosa.

Non ho detto nulla ai leader del Congresso perché non potevo essere certo che avrebbero mantenuto il segreto. Se ci fosse stata una fuga di notizie, la nazione sarebbe stata travolta dal panico e tutti i nostri sforzi per bloccare l’attacco si sarebbero rivelati vani. Ma soprattutto avevo ragione di temere che nella ristretta cerchia dei miei consiglieri, gli unici che sapevano dell’imminente attacco cyberterroristico, si annidasse un traditore. Oltre a me e all’ex capo di gabinetto, solo altre sette persone ne erano al corrente, tra cui il vice presidente Brandt. Per questo non mi è parso opportuno informarla della mia temporanea assenza.

Dopo la mia sparizione, il presidente della Camera dei Rappresentanti ha contattato il vice presidente Brandt dicendo di avere i voti per l’impeachment alla Camera, ma di avere bisogno di qualche altro voto del mio schieramento per raggiungere i due terzi necessari al Senato. Ha dunque chiesto al vice presidente Brandt di procurargli quei voti, dichiarando che avrebbe accettato di buon grado il suo insediamento alla Casa Bianca, visto che lui, dopo il ruolo svolto nell’impeachment, avrebbe potuto continuare a controllare a lungo la Camera e l’agenda legislativa nazionale.

Il vice presidente, a suo merito imperituro, ha rifiutato l’accordo.

Non sto raccontando tutto questo per riaccendere le tensioni tra me e il presidente della Camera, ma perché finalmente si possa ricominciare tutti da zero. Avremmo dovuto combattere tutti uniti contro questa minaccia, senza distinzioni di partito.

La nostra democrazia non può sopravvivere se non si oppone a questo clima di tribalismo, di estremismo e di furioso risentimento. Oggi, in America, è sempre noi contro loro. La politica è diventata poco più che uno sport violento. Di conseguenza, la nostra determinazione nel pensare sempre il peggio di chiunque non appartenga alla nostra cerchia è in aumento, mentre va scomparendo la nostra capacità di risolvere i problemi e approfittare delle opportunità.

Dobbiamo fare meglio di così. Ci sono differenze tra noi, e c’è bisogno di discussioni vivaci e sincere. Un sano scetticismo è positivo, perché ci salva dalla troppa ingenuità e dall’eccessivo cinismo. Ma è impossibile salvaguardare la democrazia se manca la fiducia.

Le libertà garantite dal Bill of Rights e il sistema di controllo e bilanciamento reciproco sancito dalla Costituzione sono stati concepiti proprio per evitare di farci del male da soli come facciamo oggi. Ma la nostra lunga storia ci insegna che le norme scritte devono essere applicate da persone che hanno il compito di rivitalizzarle in ogni nuova epoca. È così che gli afroamericani sono passati dalla schiavitù alla parità di diritti sancita per legge, ed è così che hanno dato inizio al tortuoso cammino verso la parità di fatto, un cammino che non si è ancora concluso. Lo stesso vale per i diritti delle donne, dei lavoratori, dei migranti e dei disabili, per la lotta in difesa della libertà religiosa e contro ogni discriminazione basata sull’orientamento sessuale o sul genere.

Sono state battaglie durissime, combattute su terreni incerti e scivolosi, in cui ogni passo in avanti ha generato un’ondata di reazioni in chi vedeva minacciate le proprie idee o i propri interessi.

I cambiamenti avvengono ormai così in fretta, peraltro in un contesto in cui coesistono informazione e disinformazione, che la nostra stessa identità è messa a dura prova.

Che cosa significa oggi essere americani? La risposta a questa domanda viene da sé, se ripensiamo a cosa ci ha portati fino a qui: essere americani significa concedere maggiori opportunità, dare un senso più profondo al concetto di libertà e rafforzare i legami che tengono unita la comunità. Significa restringere la definizione di loro e ampliare la definizione di noi. Significa non lasciare indietro nessuno, non dimenticare nessuno, non emarginare nessuno.

Dobbiamo tornare alla nostra missione. E dobbiamo farlo con energia e umiltà, sapendo che il tempo è poco e che il potere non è un obiettivo fine a se stesso, bensì uno strumento per raggiungere obiettivi più nobili e necessari.

Il sogno americano ha senso soltanto se l’umanità comune è più importante delle divergenze d’interessi e se, insieme, queste due cose riescono a generare nuove e infinite possibilità.

Questa è un’America per cui vale la pena combattere e morire. Ma, soprattutto, questa è un’America per cui vale la pena vivere e lavorare.

Non ho tradito il nostro Paese né il mio giuramento di proteggerlo e difenderlo, quando mi sono assentato per combattere la minaccia da noi ribattezzata Tempi Bui. E il motivo è lo stesso per cui non ho tradito il nostro Paese quando ero prigioniero in Iraq e venivo torturato. Non l’ho fatto perché non potevo. Amo troppo gli Stati Uniti, e voglio che siano liberi e prosperi, pacifici e sicuri, e che continuino a migliorare di generazione in generazione.

Non lo dico per vantarmi. Sono convinto che gran parte di voi, al mio posto, avrebbe fatto la stessa cosa. Spero che questa fiducia ci accompagni verso un nuovo inizio.

Sappiate che abbiamo scongiurato la minaccia più grave mai affrontata dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’America ha avuto una seconda possibilità. Non dobbiamo sprecarla. E per sfruttarla al meglio dobbiamo agire tutti insieme.

Credo che dovremmo cominciare riformando e proteggendo il nostro sistema elettorale. Gli aventi diritto devono poter votare senza difficoltà, senza paura di essere esclusi dalle liste, senza timore che macchine hackerabili in pochi minuti non registrino correttamente il loro voto. E per quanto possibile, i distretti legislativi a livello statale e nazionale dovrebbero essere designati da soggetti super partes per essere più rappresentativi della diversità di opinioni e interessi, che è una delle risorse più grandi nel nostro Paese.

Pensate a come sarebbe se riuscissimo ad andare oltre la nostra base di rappresentanza e a dare voce a un più ampio spettro di opinioni e interessi. Impareremmo ad ascoltarci di più l’uno con l’altro e a insultarci di meno. Questo contribuirebbe a costruire la fiducia di cui c’è bisogno per trovare un terreno d’incontro più ampio. Con queste premesse, potremmo fare in modo che le piccole città, le zone rurali, le aree urbane depresse e le comunità di nativi americani partecipino all’economia moderna: per farlo bisogna garantire a tutte le famiglie l’accesso alla banda larga e l’acqua potabile; promuovere l’uso delle energie rinnovabili e favorire l’occupazione in modo più diffuso; varare sgravi fiscali che incentivino gli investimenti nelle zone svantaggiate, permettendo ad aziende e grandi investitori di fare gli interessi di tutti e non solo i propri.

Potremmo anche realizzare una vera riforma dell’immigrazione, aumentando la sicurezza dei confini ma senza chiudere la porta in faccia a chi viene qui in cerca di protezione o di un futuro migliore per sé e per i propri cari. Il nostro tasso di natalità è al di sotto del livello di sostituzione. Abbiamo bisogno dei Dreamers, dei lavoratori, dei professionisti e degli imprenditori che avviino nuove attività a un ritmo doppio rispetto a quello nazionale.

Potremmo istituire seri programmi di supporto e addestramento per le forze dell’ordine e le autorità locali, allo scopo di evitare vittime civili, aumentare la sicurezza degli agenti di polizia e ridurre la criminalità. E anche nuove leggi sul controllo delle armi, per far sì che non vadano in mano a chi non dovrebbe averle, per ridurre il numero inconcepibilmente elevato di sparatorie di massa, e per continuare comunque a garantire il diritto di ognuno di possedere armi per la caccia, il tiro sportivo e l’autodifesa.

Potremmo avere un dibattito autentico sul cambiamento climatico. Chi ha le idee migliori per ridurre il rischio il più velocemente possibile, creando al contempo il maggior numero di nuove imprese e di posti di lavoro? Con i progressi dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, avremo sempre più bisogno di persone così.

Potremmo fare molto per fermare l’epidemia degli oppiacei legali, per ridurre stigmatizzazioni, per educare l’elevatissimo numero di persone coinvolte che ancora non ne conoscono gli effetti letali, e per assicurarci che ogni americano abbia la possibilità economica e pratica di curarsi in modo efficace.

Potremmo mettere ordine nelle spese militari affinché riflettano l’enorme e costante evoluzione della minaccia cyberterroristica, per far sì che i nostri sistemi di difesa non siano secondi a quelli di nessun altro e per convincere altre nazioni a lavorare insieme a noi prima di trovarci a fronteggiare un’altra apocalisse. La prossima volta non saremo altrettanto fortunati, non ci saranno di nuovo due giovani geni che verranno in nostro aiuto.

Pensate a quanto sarebbe più gratificante se ogni giorno potessimo venire al lavoro chiedendoci tutti insieme chi possiamo aiutare e in che modo, invece di chiederci ognuno per conto proprio chi possiamo danneggiare e quanta copertura mediatica possiamo ricavarne.

I nostri padri fondatori ci hanno lasciato una missione perenne: creare un’unione sempre più perfetta. E ci hanno lasciato un governo sufficientemente solido da preservare le libertà dell’individuo e sufficientemente flessibile da poter affrontare le sfide di ciascuna epoca. Queste due eredità ci hanno permesso di fare molta strada. Non dobbiamo più darle per scontate, né tantomeno metterle a rischio solo per ottenere vantaggi a breve termine. Prima di ieri sera, gran parte delle nostre ferite ce le eravamo procurate da soli, compresa l’inadeguatezza dei nostri sistemi di cyberdifesa.

Grazie a Dio abbiamo ancora davanti un futuro pieno di possibilità, e non il macabro compito di farci strada tra le macerie.

Lo dobbiamo ai nostri figli, a noi stessi e ai miliardi di brave persone che in tutto il mondo ancora vogliono che il nostro Paese sia un modello a cui ispirarsi, un esempio e un amico per trarre il meglio da questa seconda possibilità che ci è stata concessa.

Facciamo in modo che questa sera venga ricordata come un festeggiamento per il disastro scongiurato e come l’inizio di un nuovo corso della nostra vita, del nostro destino e del nostro sacro onore per formare la nostra unione sempre più perfetta.

Dio benedica l’America e tutti quelli che la chiamano patria.

Grazie. E buonanotte.

Il presidente è scomparso
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