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Il bosco è una copertura perfetta per Bach. Gli alberi alti e lussureggianti formano una galleria che permette solo a tratti ai raggi del sole di penetrare, limitando la visibilità: l’alternanza tra luce e ombra le gioca brutti scherzi agli occhi. Non vede praticamente nulla.
Si ritrova catapultata sulle pendici del monte Trebević, in fuga, alla ricerca di un nascondiglio, dopo l’ultimo atto, quando aveva dato quello che si meritava a Ranko, il soldato serbo dai capelli rossi che per pietà, per sesso o per entrambe le cose le aveva insegnato a sparare.
«No, non così, usi troppo le braccia!» aveva detto Ranko mentre si sedevano nel locale sventrato dalle bombe che era la loro roccaforte segreta sulle montagne. «Io proprio non ti capisco, ragazza mia. Un giorno becchi al primo colpo una bottiglia di birra da trenta metri, e un altro fai tutti questi errori da principiante? Adesso ti faccio vedere un’altra volta.» Le aveva strappato il fucile di mano e l’aveva appoggiato sul trespolo. «Devi rimanere ferma, così», aveva detto pronunciando le sue ultime parole. Poi lei gli aveva infilato il coltello da cucina nel collo.
Raccolse il fucile che ormai aveva imparato a padroneggiare e, dalla finestra che dava su Sarajevo, mirò ai compagni di Ranko, i miliziani serbi che avevano ucciso a pugni suo padre e gli avevano inciso una croce sul petto solo perché era musulmano. Pam pam pam pam pam, sputò rapido il fucile, falciandoli l’uno dopo l’altro.
Per più di una settimana rimase nascosta sulle montagne, al freddo, senza bere né mangiare, spostandosi continuamente per la paura di rimanere nello stesso posto, mentre i serbi perlustravano la zona in cerca della ragazza che aveva ucciso sei dei loro, uno da vicino e cinque dalla distanza.
Con lo zaino e il fucile sulla schiena, Bach avanza cauta: a ogni passo pianta bene il piede prima di proseguire. Alla sua destra vede una sagoma sobbalzare, la mano scende verso la pistola, il cuore manca un battito. Ma è solo un animale, forse un coniglio o uno scoiattolo, che sparisce prima ancora che lei riesca a metterlo a fuoco. Rimane ferma, finché non sente l’adrenalina scemare.
«Due chilometri a nord», le dicono nell’auricolare.
Lei continua ad avanzare lentamente, con estrema prudenza. D’istinto le verrebbe da muoversi il più veloce possibile, ma in questi casi la disciplina è essenziale. Non conosce questo bosco. Diversamente dal solito, non ha potuto fare un sopralluogo. Il terreno, reso impervio dalla vegetazione e dal buio, è incerto e sdrucciolevole, con rami, radici e pietre che le intralciano il cammino.
Fa un passo, sposta il peso in avanti, si ferma, ascolta. Poi di nuovo passo, peso in avanti, ferma, in ascolto. Passo, peso in...
Un movimento.
Davanti a lei, sbuca da dietro un albero.
L’animale è grande quanto un cane di grossa taglia, ha una folta pelliccia spruzzata di bianco e nero, orecchie appuntite che vibrano attente, un muso allungato e due occhi brillanti che la fissano.
Non dovrebbero esserci lupi da queste parti. Sarà un coyote? Per forza.
Un coyote si frappone tra lei e la sua destinazione.
Ne arriva un altro, un po’ più indietro, più o meno delle stesse dimensioni, la testa protesa verso l’alto.
Poi un terzo, un po’ più piccolo e scuro, distanziato dagli altri due; è alla sua sinistra e ha qualcosa di rosso che gli penzola dalla bocca.
E ancora un quarto, a destra. Formano un semicerchio.
Uno schieramento di difesa. O di attacco.
Bach propende per la seconda ipotesi.
Otto occhi brillanti la fissano.
Lei fa un passo in avanti e sente un ringhio basso, si accorge che il muso del primo coyote tremola, rivelando denti che lei non riesce a distinguere, ma che presume appuntiti. Spronati dal capobranco, anche gli altri snudano le gengive e cominciano a ringhiare.
Sono davvero dei coyote? Dovrebbero avere paura degli esseri umani.
Cibo, pensa. Stanno difendendo del cibo, magari li ho interrotti mentre spolpavano una bella carcassa saporita di cervo. Quindi in questo momento la vedono come una potenziale ladra di carne.
A meno che il pasto non sia lei.
Non ha tempo da perdere. Cambiare strada sarebbe troppo complicato e rischioso. Qualcuno dovrà cedere il passo e di certo non sarà lei ad arrendersi per prima.
Senza muovere un muscolo in più di quelli strettamente necessari, estrae dalla fondina la SIG Sauer con il lungo silenziatore.
Il capobranco abbassa la testa, ringhia più forte, le fauci scattano verso di lei.
Bach mira all’esiguo spazio in mezzo agli occhi, poi sposta lievemente la canna verso l’orecchio e spara un solo colpo attutito.
Il coyote guaisce, corre in circolo e in un attimo scompare. Le è bastato colpirlo di striscio sulla punta dell’orecchio. Anche gli altri spariscono all’istante.
Se avessero attaccato tutti e quattro contemporaneamente, convergendo su di lei con traiettorie diverse, sarebbe stata nei guai. Quasi certamente sarebbe riuscita comunque a ucciderli, ma avrebbe sprecato più munizioni e avrebbe fatto più rumore.
Attaccare il capobranco è sempre la scelta giusta.
Una delle poche lezioni su cui biologia e storia combaciano è che tutti, uomini e animali, dalle più rudimentali forme di vita agli organismi più sofisticati, preferiscono obbedire anziché decidere.
Colpisci il capo e il resto del branco si farà prendere dal panico.