30

 

Proseguiamo fino a imboccare l’autostrada, poi ordino ad Alex di prendere la prima uscita. Il cielo si è squarciato e una pioggia scrosciante batte pesantemente sul parabrezza, mentre il ritmo sincopato dei tergicristalli scandisce il mio battito martellante.

Alex abbaia ordini al telefono senza smettere di tenermi d’occhio, per accertarsi che non sia sotto shock. Semmai è il contrario: sono iperteso, ipercinetico. Ogni volta che cerco di ricostruire quello che è successo, l’adrenalina mi tende i muscoli e subito, a smussare la paura, subentra la consapevolezza di trovarmi al sicuro in un SUV blindato, poi però l’angoscia torna a esplodermi nelle vene, come se nel mio corpo si susseguissero maree opposte senza soluzione di continuità.

Finché non muoio, sono vivo. Da prigioniero di guerra era il mio motto: quando i giorni diventavano notte nella mia cella senza finestre, quando mi avvolgevano la testa nell’asciugamano e cominciavano a versare acqua, quando mi sguinzagliavano addosso i cani, quando mi bendavano e intonavano preghiere puntandomi la pistola alla tempia.

Non sono vivo per miracolo. Sono vivo e basta, e sono più vivo che mai. L’euforia mi gonfia il corpo di elettricità, acuisce ogni senso: l’odore di cuoio dei sedili, l’amaro in bocca, i rivoli di sudore che mi scendono lungo la faccia.

«Non sono autorizzato a darle altre spiegazioni», dice Alex al telefono, quasi certamente sta parlando con la polizia di Washington che cerca di fare resistenza. Non sarà facile. Dovremmo dare un sacco di spiegazioni. Capitol Street deve sembrare un campo di battaglia. Il marciapiede crivellato, la parete dello stadio piena di fori di proiettili, l’autopattuglia devastata dallo scontro a fuoco, l’asfalto cosparso di vetri. E poi i cadaveri, almeno tre... il tizio grosso che mi è corso incontro all’inizio, l’altro membro del trio che ha cercato di prendermi di soppiatto facendo il giro del furgone, e poi Nina.

Stringo il braccio ad Alex. È così muscoloso che sembra di toccare un tronco d’albero. Lui si volta. «Ti richiamo dopo», dice al telefono e mette lo smartphone in tasca.

«Quanti morti?» gli chiedo temendo il peggio. Una strage di innocenti colpiti dalle pallottole vaganti del cecchino.

«Solo la ragazza al volante, signore.»

«E gli uomini? Ne ho colpiti almeno due.»

Lui scuote la testa. «Sono spariti. Credo che i loro compagni li abbiano portati via. Era un attacco ben coordinato.»

Senza dubbio. Un cecchino sul tetto e almeno una squadra di sostegno a terra.

Eppure sono ancora vivo.

«Abbiamo appena prelevato il corpo della ragazza, signore. Alla polizia abbiamo detto che è stata un’operazione gestita dal dipartimento del Tesoro e dall’FBI nell’ambito di un’indagine anticontrabbando.»

Ottima idea. Non sarà facile darla a bere a tutti: un’operazione sotto copertura che si trasforma in una sanguinosa sparatoria fuori dallo stadio dove si sta svolgendo una partita... Del resto, però, Alex non ha avuto molta scelta.

«Immagino sia sempre meglio che raccontare che il presidente stava per essere assassinato mentre era andato in incognito al Nationals Park.»

«Ho pensato anch’io la stessa cosa, signore», dice Alex, serio.

I nostri sguardi s’incrociano. È il suo modo di sgridarmi. Il sottotesto è che queste sono le dirette conseguenze della mia decisione di rinunciare alla scorta.

«Il blackout ci ha aiutati», dice togliendomi dalla graticola. «E anche il rumore della partita in corso. C’era un casino infernale. Ora sta piovendo che Dio la manda, quindi ci sono trenta, forse quarantamila persone che cercano di uscire di corsa dallo stadio e intanto la polizia deve raccapezzarsi nel diluvio che rischia di cancellare ogni traccia.»

Ha ragione. In questo caso, il caos gioca a nostro favore. Naturalmente i media ci metteranno del loro, ma per fortuna si è svolto tutto al buio e il dipartimento del Tesoro si prenderà la responsabilità dell’accaduto. Funzionerà? Speriamo.

«Mi hai seguito», gli dico.

Lui fa spallucce. «Non esattamente, signore. Quando la ragazza è arrivata alla Casa Bianca, abbiamo dovuto perquisirla.»

«Quindi avete aperto la busta.»

«Certo.»

Ovvio. E dentro c’era un biglietto per la partita di stasera al Nationals Park. Avevo una tale confusione in testa che non ci ho nemmeno pensato.

Alex mi guarda, forse aspettandosi una lavata di capo, ma è difficile fare la predica a chi ti ha appena salvato la vita.

«Grazie, Alex. E d’ora in poi vedi di non disobbedirmi più, se ci riesci.»

Siamo usciti dall’autostrada ormai e ci troviamo in un enorme spiazzo, una specie di parcheggio che a quest’ora tarda è vuoto. Piove talmente forte che quasi non riesco a vedere l’altra macchina del convoglio. Non si vede quasi niente.

«Portate qui Augie.»

«Quell’uomo è una minaccia, signore.»

«No, non lo è.» Non nel senso in cui intende Alex, almeno.

«Questo lei non può saperlo. Forse il suo compito era quello di farla uscire dallo stadio e...»

«Se avesse voluto uccidermi, a quest’ora sarei già morto, Alex. Avrebbe potuto uccidermi allo stadio. E invece il cecchino ha sparato il primo colpo su Nina. Sono quasi certo che il secondo bersaglio sarebbe stato Augie e non io.»

«Signor presidente, il mio lavoro consiste nel dare per scontato che sia sempre lei il bersaglio.»

«Capisco. Allora ammanettalo, se vuoi. Mettigli la camicia di forza, ma portamelo qui.»

«È già ammanettato. Il ragazzo è parecchio... agitato.» Alex fa una pausa. «Signore, forse è meglio che io stia a bordo dell’altra macchina. Devo monitorare minuto per minuto la situazione allo stadio. La polizia vuole delle risposte.»

E solo lui può gestire questo pandemonio. Solo lui sa cosa si può dire e cosa no.

«Al mio posto verrà con lei Jacobson, signore.»

«Bene. Adesso portami il ragazzo.»

Alex parla nella ricetrasmittente che ha appuntata sul bavero della giacca. Subito dopo, con un certo sforzo, apre la portiera del SUV e il vento impetuoso spinge nell’abitacolo una massa d’acqua che non risparmia nessuno.

Gli agenti si danno il cambio. Jacobson, il vice di Alex, sale a bordo al posto suo. È meno massiccio del suo capo, ma ha un fisico duro e asciutto, e una faccia di un’intensità quasi spaventosa.

Bagnato fradicio, con l’impermeabile scintillante di gocce, si siede al mio fianco. «Signor presidente», mi saluta nel suo solito tono pratico, ma lo fa guardando fuori dal finestrino con un senso di urgenza, quasi fosse pronto ad avventarsi contro qualcuno.

Un attimo dopo, torna fuori per prendere in consegna il ragazzo che è accompagnato da un altro agente. Augie infila prima la testa e poi il resto del corpo, spinto da Jacobson con violenza su uno dei sedili di fronte al mio, nell’ampio abitacolo del veicolo. Ha i polsi ammanettati. I capelli stopposi gli coprono la faccia.

«Tu adesso te ne resti lì seduto e non ti muovi», gli dice secco Jacobson. «Ci siamo capiti?»

Augie si dimena, strattona la cintura che l’agente gli ha appena stretto sul torace.

«Secondo me ha capito», dico.

Jacobson si siede accanto a me, pronto a intervenire.

Poi finalmente lo sguardo di Augie, o almeno quel che si riesce a vedere tra i capelli, incontra il mio. Forse ha pianto, ma è difficile capirlo sul volto zuppo di pioggia.

«È morta per colpa sua!» grida. «L’ha fatta uccidere!»

«Augie, sai benissimo che questa accusa non ha senso», dico con calma, cercando di sembrare il più rilassato possibile. «È stata tutta una vostra idea, non mia.»

La faccia gli si contorce in una smorfia, le lacrime gli scendono sulle guance. Singhiozza, gli tremano le labbra. Sembra un attore che tenti d’impersonare il paziente di un manicomio nella morsa degli infermieri, grugnendo, bestemmiando e strillando, e tuttavia il suo dolore deriva da un evento reale, non è il prodotto di una mente in frantumi.

Per il momento parlargli non servirebbe a nulla, quindi lo lascio sfogare.

L’auto ricomincia a muoversi, torniamo verso l’autostrada, riprendendo il lungo tragitto che porta alla nostra destinazione.

Per un po’ resto zitto. Augie, ammanettato, farfuglia mischiando l’inglese alla sua lingua madre, singhiozza a gola spiegata nel tentativo di riprendere il controllo.

Io ne approfitto per riflettere su quello che è successo. Mi faccio delle domande: perché sono ancora vivo? Come mai hanno sparato prima alla ragazza? Chi sono i mandanti?

Perso in questi pensieri, mi rendo conto all’improvviso che nell’abitacolo regna per la prima volta il silenzio.

Augie mi guarda, in attesa che io prenda nota della sua ritrovata compostezza.

«Quindi...» dice con voce incrinata. «Ora lei si aspetta che io l’aiuti dopo tutto quello che è successo?»

Il presidente è scomparso
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