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«Siamo sotto attacco. Ripeto, siamo sotto attacco...»
Colpito dalle raffiche che arrivano dalla sponda del ponte, il SUV sbanda a destra e a sinistra. La battaglia ingaggiata dall’agente Davis con il volante fa stridere gli pneumatici, che slittano sul bagnato.
Noi tre dietro rimbalziamo da un lato all’altro come in un flipper, tendendo al massimo le cinture di sicurezza. Io e Jacobson, a forza di rollare avanti e indietro, per poco non ci prendiamo a capocciate.
Una macchina va a sbattere contro il nostro retrotreno, mandando il SUV di nuovo in testacoda in mezzo alla carreggiata, poi sentiamo un altro colpo sulla fiancata destra. I fari spuntano a una ventina di centimetri dalla faccia di Jacobson. L’impatto mi rimbomba tra denti e collo, scagliandomi verso sinistra.
Tutto si riduce a una trottola urlante, le raffiche flagellano le fiancate, il cofano, il lunotto posteriore, non si vede più nulla...
Poi il SUV si schianta contro la barriera di cemento e finalmente siamo fermi, nella direzione opposta al senso di marcia, il muso verso il flusso di macchine che vanno verso sud. Ora il fuoco incessante delle armi automatiche proviene da sinistra; alcune pallottole rimbalzano, altre rimangono incastrate nel rivestimento di metallo o nel vetro antiproiettile.
«Ci serve una via di fuga!» grida Jacobson. La prima cosa da fare è trovare un percorso e portare in salvo il presidente.
«Augie», sussurro.
Lui si lascia sorreggere a peso morto dalla cintura di sicurezza, è cosciente e indenne ma confuso, cerca di raccapezzarsi, di respirare.
Poi mi passa un pensiero in testa: guardando verso il centro città dal ponte, si riesce a intravedere la Casa Bianca. Centinaia di agenti dei servizi segreti e un’intera squadra SWAT sono ad appena sei isolati di distanza, eppure sembra di essere su un altro pianeta.
Mentre Davis litiga con il cambio in un profluvio di bestemmie, la visuale oltre il parabrezza si sgombra quel tanto che basta per vedere cosa abbiamo di fronte, a sud. Gli spari non provengono solo dalla corsia pedonale sulla sponda del ponte, ma anche dall’altra macchina del convoglio: Alex Trimble e i suoi uomini stanno rispondendo al fuoco.
Come ne usciamo? Siamo in trappola. Dobbiamo correre più veloce di...
«Via! Via! Via!» grida Jacobson con la solita cadenza marziale, senza togliersi la cintura ma con il mitra in pugno.
Davis riesce finalmente a inserire la retromarcia e le ruote fanno presa sull’asfalto fradicio; aiutandosi con il sensore posteriore, fa inversione. Le raffiche continuano, ma sono sempre più deboli. Cessano del tutto nell’istante in cui un altro veicolo s’immette nella corsia, molto più grosso del nostro SUV.
Un camion gigantesco punta dritto verso di noi, andando al doppio della nostra velocità.
Davis accelera e cerca di schizzare via. Noi finiamo scaraventati all’indietro sui sedili, ma non c’è modo di evitare il camion che procede contro di noi. Quando il radiatore del camion è l’unica cosa visibile oltre il parabrezza, mi aggrappo alla maniglia della portiera per prepararmi all’impatto.
Davis sterza di centottanta gradi, costringendo il SUV a un’improvvisa sbandata a gomito. Mentre il retrotreno slitta di nuovo verso destra, io volo addosso a Jacobson e il muso del camion, perfettamente perpendicolare al senso di marcia, centra il muso dell’auto.
Il boato dell’impatto mi toglie il respiro, una pioggia di scintille danzanti mi oscura la vista, e un’onda mi attraversa il corpo da capo a piedi. Il radiatore del camion sfonda il lato del passeggero in uno stridore di lamiere, scagliando Ontiveros come una bambola di pezza addosso a Davis. Il retrotreno si piega di sessanta gradi rispetto al resto dell’auto. Un vapore bollente invade l’abitacolo, e il SUV geme nel tentativo di non spezzarsi.
In qualche modo Jacobson abbassa il finestrino, punta l’MP5 contro la cabina del camion e apre il fuoco in un tornado di vapore caldo e pioggia. Incastrati l’uno nell’altro, i due veicoli si fermano. Jacobson non smette di sparare, mentre arriva l’altro SUV e dai finestrini aperti Alex e i suoi cominciano a crivellare il camion.
Bisogna far uscire Augie.
«Augie», dico sganciandomi la cintura.
«Fermo, signore!» grida Jacobson, proprio mentre il vano motore del SUV si trasforma in una sfera di fuoco arancione.
Augie, pallido per il terrore, si slaccia la cintura.
Apro la portiera posteriore sinistra e lo afferro dal polso. «Stai giù!» dico trascinandolo lungo la fiancata, al riparo dalla linea di tiro della cabina del camion. Poi ci gettiamo nella pioggia battente verso la macchina di Alex, vanificando qualsiasi possibilità di essere colpiti dagli assalitori, anche nella remota eventualità in cui riescano a spararci nonostante il fuoco incessante di Jacobson.
«Salga, presidente!» grida Alex vedendoci avvicinare. Insieme a lui, altri due agenti sono scesi dal SUV e hanno ricominciato a sparare sul camion.
Io e Augie ci precipitiamo verso la seconda vettura del convoglio, dietro cui s’intravede una montagna di auto puntate in tutte le direzioni.
«Sali dietro!» urlo a Augie con il volto sferzato dalla pioggia. Io salgo al posto di guida. Inserisco la retromarcia e premo sull’acceleratore.
Nonostante i danni subiti, la macchina funziona abbastanza bene da portarci via. Non mi piace abbandonare i miei uomini sul terreno. Quello che sto facendo va contro ogni lezione impartitami nell’esercito, ma sono disarmato e non servirei a nulla. E poi sto proteggendo l’unico individuo davvero insostituibile: Augie.
Mentre lasciamo il ponte che segna il confine con la Virginia e migliaia di domande mi affollano la mente, sento il boato della seconda esplosione. Era inevitabile.
Ma finché non siamo morti, siamo vivi.