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Mentre io li aggiorno sulla situazione in corso, i miei ospiti fanno una colazione leggera a base di bagel, frutta e caffè nella cucina che dà sul giardino e sul bosco. Ho appena ricevuto una telefonata da Los Angeles, dove la Sicurezza interna e l’Ente federale per la gestione delle emergenze stanno lavorando con la città e con lo Stato della California a un metodo alternativo di distribuzione dell’acqua. Esistono già vari protocolli da applicare in caso di malfunzionamento o chiusura degli impianti di trattamento delle acque, perciò almeno a breve termine la situazione non dovrebbe degenerare, anche se si continua a fare di tutto per rimettere in funzione l’impianto il prima possibile. Non invierò sul posto la mia squadra speciale, ma stiamo mandando altri nostri tecnici.

So che potrei avere torto, che potrebbe non essere un diversivo, e magari sarà proprio Los Angeles l’epicentro degli attacchi. In questo caso, avrei commesso un errore imperdonabile. Ma senza qualche dato in più, non ho intenzione di spostare la mia squadra, che in questo momento sta lavorando nel seminterrato insieme a Augie e ad altri esperti di cybersicurezza israeliani e tedeschi in costante sinergia con il resto dei nostri al Pentagono.

Accanto al cancelliere Jürgen Richter è seduto il giovane e biondo Dieter Kohl, capo della BND, il servizio d’intelligence tedesco. Il primo ministro israeliano, invece, ha portato con sé il suo capo di gabinetto, un settantenne robusto e un po’ impacciato che per lungo tempo è stato generale dell’esercito.

L’idea è quella di mantenere il summit il più segreto possibile, per questo ho limitato il numero degli invitati. Un collaboratore per ogni capo di Stato, oltre agli esperti informatici. Non siamo più nel 1942, quando Franklin Delano Roosevelt e Churchill riuscirono a incontrarsi per parlare della guerra in un punto lungo l’Intracoastal Waterway, nella Florida Meridionale. La sera cenarono nell’ottimo ristorante Cap’s Place, e mandarono poi lettere di apprezzamento al proprietario, che sono diventate la reliquia di un locale altrimenti conosciuto per i frutti di mare, la Key lime pie e l’atmosfera anni ’40.

Oggi invece, con Internet, i social media e la rapacità spesso sconsiderata della stampa, gli occhi del mondo seguono passo dopo passo i capi di Stato più importanti, rendendo loro quasi impossibile muoversi in incognito. L’unico vantaggio di cui ancora disponiamo è la sicurezza: date le costanti minacce terroristiche, possiamo tenere nascosti i dettagli dei nostri spostamenti.

Noya Baram domani parteciperà a una conferenza a Manhattan, perciò sta facendo visita ai parenti che vivono negli Stati Uniti. Sua figlia infatti vive a Boston, suo fratello poco fuori Chicago e sua nipote sta finendo il primo anno alla Columbia. Quindi ha un alibi di ferro. Resta poi da vedere se i giornalisti mangeranno o meno la foglia.

Il cancelliere Richter invece ha usato come copertura la malattia della moglie: già da tempo aveva programmato per venerdì, cioè ieri, una visita al centro oncologico Sloan-Kettering. In questo momento sta trascorrendo il fine settimana a New York con alcuni amici.

«Scusatemi», dico al gruppetto radunato nel soggiorno della baita. Mi sta di nuovo vibrando il telefono. «Devo rispondere. Oggi è... una giornata difficile.»

Vorrei avere almeno uno dei miei collaboratori al mio fianco, ma ho bisogno che Carolyn resti alla Casa Bianca. Per ora non c’è nessun altro di cui possa fidarmi.

Mi allontano, andando verso il bosco. Gli uomini del Secret Service gestiscono la sicurezza del perimetro, ma un piccolo drappello di agenti tedeschi e israeliani si aggirano per la proprietà.

«Signor presidente», comincia Liz Greenfield. «Si tratta di Nina, la ragazza. Abbiamo le impronte. Si chiamava Nina Shinkuba. Non sappiamo granché su di lei, solo che aveva quasi ventisei anni ed era nata nella regione dell’Abcasia, in Georgia.»

«Il territorio dei separatisti. La zona contesa.» I russi hanno appoggiato le rivendicazioni autonomiste dell’Abcasia. Il breve conflitto del 2008 tra Georgia e Russia ha a che fare con questa faccenda, almeno nominalmente.

«Esatto, signore. Il governo georgiano sospettava che Nina Shinkuba fosse responsabile di un’esplosione in una stazione ferroviaria sul lato georgiano della frontiera contesa nel 2008. C’erano stati una serie di attacchi su entrambi i lati del confine, prima che scoppiasse la guerra tra Abcasia e Georgia.»

Che poi è diventata una guerra tra Russia e Georgia.

«Quindi Nina era una separatista?»

«Sembra di sì. Per il governo georgiano, era una terrorista.»

«Quindi una militante antioccidentale. Ma questo la rende anche filorussa?»

«I russi sostenevano i separatisti. Russia e Abcasia combattevano dalla stessa parte. È logico.»

Ma non automatico.

«Vuole che proviamo a sentire cos’hanno da dire su di lei i georgiani?»

«Aspettiamo ancora un po’. Prima voglio chiederlo a qualcun altro.»

Il presidente è scomparso
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