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L’assassina nota come Bach accosta la porta e si chiude nel bagno minuscolo. Fa un respiro profondo, trema, si lascia cadere in ginocchio e vomita nel water.
Alla fine, ha gli occhi che le bruciano e lo stomaco annodato, fa un altro respiro profondo e si siede a terra. Sta da cani. Non può andare avanti così.
Quando sente di riuscire a reggersi in piedi, si alza e tira lo sciacquone, pulisce l’asse con alcune salviette e preme di nuovo lo scarico. Mai lasciare tracce di DNA.
Si guarda nello specchio incrostato sopra il lavandino. Indossa una parrucca con la treccia bionda e l’uniforme celeste. Non proprio alta moda, ma non poteva sceglierla lei la divisa del servizio di pulizia dei Camden South Capitol Apartments.
Quando esce dal bagno e torna nel magazzino, i tre uomini sono ancora lì, con maglietta azzurra e pantaloni scuri. Uno è talmente grosso che bicipiti e pettorali rischiano di strappargli la maglietta. Stamattina le ha dato subito sui nervi. Innanzitutto perché si distingue troppo dai colleghi. Nessuno nella loro professione dovrebbe mai dare nell’occhio. E poi perché ha l’aria di fare troppo affidamento sulla sua forza bruta, a scapito di elementi più importanti come cervello, mestiere o carattere.
Gli altri due sono tutto sommato più accettabili. Atletici e muscolosi anche loro, ma almeno sono meno appariscenti, con facce anonime, insignificanti.
«Ti senti meglio?» chiede l’energumeno.
Non appena vedono l’espressione di Bach, gli altri due smettono di sorridere.
«Meglio di come ti sentirai tu se provi a chiedermelo un’altra volta», risponde lei.
Mai discutere con una donna al primo trimestre di gravidanza, soprattutto se gli attacchi di nausea, che di solito si verificano al mattino, la tormentano tutto il giorno. E ancora di più se la donna in questione è una killer professionista.
Lei si volta a guardare il capo del trio, un tizio pelato con un occhio di vetro.
Quello alza la mano in segno di scusa. «Nessuno qui vuole mancarti di rispetto. Dico sul serio.» Ha un discreto inglese ma l’accento pesante.
Repubblica ceca, immagina Bach.
Il capo s’infila un auricolare nell’orecchio e passa a lei l’altro.
«Come siamo messi?» chiede Bach.
Nell’auricolare la risposta non si fa attendere. «È arrivato. La nostra squadra è pronta.»
«Allora mettiamoci tutti in posizione.»
Con la custodia del fucile e un’altra sacca a tracolla, Bach sale sul montacarichi e, una volta dentro, prende dalla sacca un cappotto nero e se lo infila. Si toglie la parrucca, almeno per il momento, e indossa un cappellino nero da sci. Ora è vestita di nero da capo a piedi.
Scende all’ultimo piano e sale le scale fino alla porta che dà sul tetto. Come promesso, non è chiusa a chiave. Fuori il vento è fortissimo, ma basta calcolare bene la traiettoria. Ormai è sicura che pioverà, ma non ha ancora cominciato. Se avessero cancellato quella stupida partita, l’operazione sarebbe stata annullata.
Quindi dev’essere pronta a reagire allo scroscio di pioggia che interrompendo la partita metterà in moto migliaia di persone sotto un mare di ombrelli. Una volta ha ucciso un ambasciatore turco con un proiettile passato attraverso un ombrello prima di conficcarglisi nel cranio, però era in una strada sgombra con solo un’altra persona al seguito. Stavolta, se la folla si precipiterà tutta assieme verso l’uscita, lei farà fatica anche solo a individuare il bersaglio.
Ecco a che serve la squadra a terra.
Apre la custodia tenendo il pollice premuto sul sensore e comincia ad assemblare Anna Magdalena, il suo fucile semiautomatico, poi monta il mirino telescopico e inserisce il caricatore.
Si accovaccia per mettersi in posizione, protetta dall’oscurità della sera. Tra meno di venti minuti il sole tramonterà, rendendola ancora più invisibile.
Accosta il viso al fucile e avvicina l’occhio al mirino. Lo punta verso il cancello d’ingresso sul lato dell’esterno sinistro.
Aspetterà. Forse saranno cinque minuti. O forse tre ore. E poi all’improvviso sarà tempo di agire con la prontezza più spietata e la massima precisione. Però questo è il suo lavoro e finora non ha mai sbagliato.
Oh, quanto vorrebbe godersi un bel concerto di piano! Ma ogni missione è diversa e stavolta ha bisogno di una squadra a terra con cui comunicare. Potrebbero volerle parlare in ogni momento, perciò invece di ascoltare Andrea Bacchetti che suona il Concerto per pianoforte n. 4 al Teatro Olimpico di Vicenza è costretta a sentire il rumore delle auto, i boati dello stadio pieno, i brani d’organo che vengono sparati dai megafoni per esaltare i tifosi, oltre alle sporadiche osservazioni dei membri della sua squadra.
Inspira, espira. Cerca di calmare il battito cardiaco. Tiene il dito vicinissimo al grilletto, attenta a non sfiorarlo. L’impazienza è un’emozione inutile. Il bersaglio le arriverà a tiro, come sempre.
E, come sempre, lei non lo mancherà.