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«Presidente!»
Ignoro Alex e mi precipito fuori, corro verso il bosco, salto sul terreno sconnesso, mi abbasso per schivare rami e arbusti.
«Presidente, per favore!»
Continuo a muovermi in fretta, al riparo sotto gli alberi, in direzione delle urla maschili che riecheggiano sempre più vicine.
«Almeno mi faccia andare avanti per primo», dice Alex.
Lo lascio passare. Ha sfoderato l’arma, la testa che ruota a destra e a sinistra come un sensore.
Quando arriviamo nella radura, Augie è a terra, la schiena contro un albero, il petto ansimante. Sopra di lui, le raffiche hanno praticamente mozzato il tronco. Due agenti russi sono fermi, l’arma lungo il fianco, mentre Jacobson urla contro di loro affettando l’aria a manate.
Quando ci vede, si blocca, si volta verso di noi e con un gesto ci intima di fermarci. «Va tutto bene, nessun ferito.» Lancia un ultimo sguardo di fuoco ai russi e si avvicina a noi. «L’hanno trovato per primi i colleghi della Federazione Russa. E hanno subito aperto il fuoco. Secondo loro, erano raffiche di avvertimento.»
«Raffiche di avvertimento? E che bisogno c’era di sparare raffiche di avvertimento?»
Jacobson si volta verso di loro e dice qualche parola in russo.
I due agenti mantengono un’espressione imperturbabile, annuiscono, si girano e se ne vanno.
«Grazie a Dio, ero qui vicino», dice Jacobson. «Ho dovuto ordinargli di cessare il fuoco.»
«Grazie a Dio davvero... pensi che volessero ucciderlo?»
Jacobson riflette, poi fa un lungo sospiro e solleva una mano. «La Guardia nazionale russa è la migliore nel loro Paese. Se avessero voluto ucciderlo, a quest’ora il ragazzo sarebbe morto.»
Recentemente, il presidente Chernokev ha creato una nuova agenzia per la sicurezza interna che risponde direttamente a lui. Pare che la Guardia nazionale sia l’élite dell’élite.
«Ne sei sicuro?»
«No, signore.»
Lascio gli agenti e raggiungo Augie. Mi accovaccio accanto a lui. «Si può sapere che cosa ti eri messo in testa?»
Gli tremano le labbra, il torace fa su e giù a ritmo ancora irregolare, negli occhi spalancati balugina uno sguardo vitreo. «Loro...» Sembra che soffochi, deglutisce a fatica. «Hanno cercato di uccidermi.»
Guardo il tronco alle sue spalle. A occhio e croce, i proiettili hanno impattato il legno a un metro e mezzo da terra. Non mi sembrano affatto raffiche di avvertimento, ma immagino che tutto dipenda da dove si trovava lui in quel momento. «Perché sei scappato, Augie?»
Lui scuote piano la testa, gli occhi velati vagano nel vuoto. «Io... non riesco a bloccare il virus. Non voglio esserci quando... quando...»
«Hai soltanto paura? Tutto qui?»
Tremando come un giunco, Augie annuisce. Ora sembra proprio un bambino.
È davvero solo questo? Paura, rimorso, senso d’impotenza?
O c’è qualcosa che mi sfugge?
«Alzati.» Lo prendo per un braccio e lo costringo a mettersi in piedi. «Non c’è tempo per avere paura, Augie. Adesso io e te torniamo dentro e ci facciamo una bella chiacchierata.»