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Mi riscuoto dal flusso di ricordi ed entro nel parcheggio prestabilito, distante cinque chilometri dalla Casa Bianca, faccio manovra e spengo il motore. Nessuno in vista.
Prendo la borsa e scendo dall’auto. L’ingresso sul retro sembra quello di un magazzino, con una piccola rampa di scale che termina davanti a un’ampia porta senza maniglia.
Al citofono mi risponde una voce gracchiante. «Mi scusi, lei chi è?»
«Charles Kane», rispondo.
Un attimo e la porta si apre. Spingo per entrare.
Dentro sembra di essere in una zona di carico dove non c’è nessuno, solo scatole di UPS e FedEx, casse di legno e carrelli. A destra vedo un grande ascensore con le porte spalancate, le pareti ricoperte da un’imbottitura spessa.
Premo il tasto più in alto e le porte si chiudono. Ho un po’ di affanno, mentre l’ascensore pachidermico si scuote e, in un grattare metallico, va giù per un attimo prima di iniziare a salire.
Ancora un capogiro. Appoggio una mano alla parete imbottita e aspetto. I moniti della dottoressa Lane mi riecheggiano in testa.
Quando arrivo in cima e le porte si aprono, avanzo cauto in un corridoio ben arredato, tra le pareti color giallo pallido, cui sono appese riproduzioni di Monet che mi guidano verso l’unica porta, quella dell’attico.
Quando arrivo alla porta, si apre senza che io faccia nulla.
«Charles Kane, al suo servizio», dico.
Amanda Braidwood è in piedi all’interno dell’attico, le braccia spalancate mentre apre la porta e mi squadra. Indossa una felpa leggera e sformata sopra una maglietta aderente. Ha un paio di leggings neri e i piedi scalzi. Nell’ultimo periodo si è lasciata crescere i capelli per una parte in un film che ha finito di girare il mese scorso, ma stasera ha una coda di cavallo da cui scende qualche ciuffo lungo i contorni affilati del viso.
«Ma buonasera, caro ’signor Kane’. Mi scuso per il sotterfugio, ma il portiere all’ingresso principale è un po’ impiccione.»
L’anno scorso, una rivista patinata ha definito Mandy una delle venti donne più belle del pianeta. Meno di un anno dopo la consacrazione con il suo secondo Oscar, un’altra rivista l’ha annoverata tra le venti star più pagate di Hollywood.
Lei e Rachel avevano convissuto per tutti e quattro gli anni di Harvard e poi erano rimaste in contatto, per quanto possibile a un avvocato del North Carolina e un’attrice cinematografica di fama mondiale. Il nome in codice Charles Kane è stato un’idea di Mandy: circa otto anni fa, sorseggiando del vino nel cortile sul retro della residenza da governatore, ci eravamo trovati tutti e tre concordi nel definire il capolavoro di Orson Welles il miglior film della storia.
Lei scuote la testa e le spunta un sorriso. «Mamma mia.» Si scosta per farmi entrare. «Barba, basette... Come ti sei lasciato andare», scherza baciandomi sulla guancia. «Be’, non rimanertene lì sul pianerottolo come un postino. Su, entra.»
Il suo profumo e la sua femminilità mi avvolgono all’istante. A Rachel non piacevano molto i profumi, ma il suo gel da bagno e la sua crema per il corpo – o come cavolo si chiamano tutti quei saponi e impacchi – odoravano di vaniglia. E io non sentirò mai più quel profumo, dovrò passare il resto della mia vita senza le sue spalle nude e senza la morbidezza del suo collo.
Dicono che non c’è un rimedio da manuale per superare la morte di un coniuge. Il concetto mi sembra ancora più valido se il soggetto in questione è un presidente degli Stati Uniti in un momento terribile come questo: non ho il tempo materiale per elaborare il lutto. Devo prendere troppe decisioni che non possono aspettare, fronteggiare minacce tali che anche solo un calo momentaneo dell’attenzione potrebbe avere conseguenze disastrose. Mentre la malattia di Rachel si aggravava, noi stavamo sempre più attenti alle mosse dei nordcoreani, dei russi e dei cinesi, certi che i loro leader avrebbero sfruttato ogni minimo segnale di vulnerabilità da parte del sottoscritto. Ho persino preso in considerazione le dimissioni pro tempore – Danny aveva già preparato tutte le carte necessarie – ma Rachel mi ha costretto a non mollare. Non avrebbe mai accettato che la sua salute interferisse con il mio mandato. Questo è sempre stato una sorta di imperativo categorico per lei, anche se non ha mai saputo spiegarmi il perché, né io l’ho mai compreso del tutto.
Tre giorni prima che morisse – a quel punto eravamo tornati a casa nostra a Raleigh perché potesse andarsene dove aveva sempre vissuto – la Corea del Nord aveva condotto un’esercitazione durante la quale era stato lanciato un missile balistico intercontinentale, che era finito al largo della costa e io avevo ordinato un volo di ricognizione sul Mar Giallo. Il giorno in cui l’abbiamo seppellita, mentre ero davanti alla sua bara con accanto mia figlia e osservavo le manciate di terra ammonticchiarsi nella tomba, un terrorista si è fatto esplodere davanti alla nostra ambasciata in Venezuela e meno di un’ora dopo mi sono ritrovato la cucina invasa da generali e membri della Sicurezza nazionale che mi aiutavano a decidere il da farsi.
Nel breve termine, immagino che un lavoro superimpegnativo aiuti a elaborare un lutto. Si è in genere troppo indaffarati per avvertire la tristezza o sentirsi soli. Prima o poi, però, la realtà dovrà fare il suo corso: hai perso l’amore della tua vita, tua figlia non ha più una madre, una donna meravigliosa non ha potuto portare a termine l’esistenza lunga e piena che avrebbe meritato. E in un certo senso tu ti senti grato per la difficoltà del tuo lavoro. Ma anche per il presidente degli Stati Uniti ci sono momenti di estrema solitudine. Non me n’ero mai accorto prima. Nei due anni iniziali del mio mandato ho dovuto prendere centinaia di decisioni difficili, decine di volte ho dovuto arrendermi all’ineluttabilità del destino e pregare, ho vissuto tantissimi momenti in cui nonostante il mio stuolo di collaboratori la scelta orribile spettava a me, e a me soltanto. Però non mi ero mai sentito solo. Con me c’era sempre stata Rachel, pronta a dare un’opinione sincera sul mio operato, a ripetermi che dovevo fare del mio meglio e infine, quando non c’era più nulla da fare, ad abbracciarmi.
Rachel mi manca sempre, in ogni momento, e in ogni modo in cui una donna può mancare a suo marito. Stasera rimpiango soprattutto il suo intuito quasi paranormale che in un batter d’occhi le faceva capire se avevo più bisogno di essere sgridato o piuttosto rassicurato che tutto si sarebbe risolto, in un modo o nell’altro.
Non ci sarà mai un’altra Rachel. Questo lo so bene. Ma mi piacerebbe non essere sempre solo. Lei mi costringeva a parlare di cosa sarebbe successo dopo la sua morte. Per prendermi in giro, mi chiamava lo scapolo d’oro. Può darsi, ma in questo momento mi sento solo un nerd sfigato, che delude sempre chi gli vuole bene.
«Bevi qualcosa?» mi chiede Mandy.
«Non ho tempo.»
«A essere sincera, non ho capito perché mi hai chiesto di fare questa cosa. Comunque sono pronta. Basta tergiversare.»
La seguo nell’appartamento.