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Buio, nient’altro che buio.
Trentamila persone urlano all’unisono nello stadio alle mie spalle quando tutto sprofonda nell’oscurità: lampioni, edifici, semafori, tutto spento per interi isolati. I fari delle auto lungo Capitol Street diventano riflettori che illuminano un palco, mentre gli smartphone si muovono come lucciole svolazzanti.
«Usi il cellulare», dice Augie artigliandomi il braccio in preda al panico. «Avanti, sbrighiamoci!»
Corriamo nel buio verso il furgone di Nina, i telefoni a rischiarare debolmente i nostri passi.
Nell’abitacolo si accende una luce e la porta scorrevole si apre. Nel buio assoluto che ci circonda, i tratti somatici della ragazza si stagliano nitidi, gli zigomi scarni da modella anoressica, le sopracciglia dritte che quasi si toccano in una smorfia tesa, le mani aggrappate al volante. La bocca si apre come se stesse parlando, forse per dire di fare più in fretta...
... poi il finestrino anteriore sinistro va in frantumi e metà del suo viso esplode. Sangue, carne e materia cerebrale schizzano sul parabrezza.
Costretta dalla cintura di sicurezza, rimane seduta con la testa ciondolante, le labbra ancora schiuse nell’atto di parlare, gli occhi da cerbiatta fissi nel vuoto a pochi centimetri dal cratere spalancato sull’occipite sinistro. Una bambina innocente e terrorizzata che a un tratto, in una frazione di secondo, ha lasciato dietro di sé ogni paura, finalmente in pace...
Se siete obbligati a ricevere il fuoco nemico, gettatevi a terra o abbassatevi finché non termina la raffica.
«N-nooo!» grida Augie.
Augie.
Mi scuoto dal torpore, lo prendo per le spalle e lo sbatto a terra a faccia in giù, accanto all’autopattuglia parcheggiata davanti al furgone, poi rotoliamo avvinghiati sul marciapiede. Attorno a noi sull’asfalto rimbalzano scintille, l’aria fischia crivellata di proiettili. I finestrini dell’auto della polizia si rompono, frammenti di vetro ci piovono addosso. Il muro dello stadio sputa polvere d’intonaco.
Un boato di urla e pianti, stridore di pneumatici, clacson. Mi giunge tutto come attutito rispetto al caos che ho nella testa frastornata dalle pulsazioni. L’auto della polizia si affloscia sotto le raffiche incessanti.
Spingo Augie lungo il marciapiede e gli frugo sotto la gamba dei pantaloni in cerca della pistola alla caviglia. Insieme al picco di adrenalina, sento montare tra le orecchie il vecchio rombo anestetizzante del combattimento. Se da giovane hai fatto la guerra, resti un veterano per tutta la vita.
La Glock è molto più leggera della Beretta a cui sono sempre stato abituato, e ha anche un’impugnatura più comoda. Ne ho sentito decantare la precisione, ma le pistole sono come le macchine: sai che hanno tutte fari, quadro e tergicristalli, ma ci metti sempre alcuni secondi per capire dove mettere le mani. Quindi perdo del tempo prezioso per cercare la sicura. La trovo, e mi preparo a premere il grilletto...
A sud, la luce del furgone filtra all’esterno. Tre uomini emersi dall’ombra sbucano nel mio campo visivo e corrono verso di noi. Il più grosso e muscoloso precede gli altri due, le mani strette sul calcio della pistola.
Sparo due colpi mirando al torace. Lui inciampa e cade in avanti. Gli altri li perdo di vista, devono essere tornati indietro nel buio... dove sono finiti? Quanti proiettili ho ancora? Hanno dei rinforzi? Sarà un caricatore da dieci colpi? Dove cazzo sono finiti gli altri due?
Mi volto a sinistra, mentre sul tettuccio dell’autopattuglia piombano due proiettili. Tunc tunc. Mi getto a proteggere il corpo di Augie. Sporgo la testa a sinistra, poi a destra, quindi di nuovo a sinistra, gli occhi frugano l’oscurità, altre pallottole schizzano sul marciapiede. Il cecchino sta tentando ogni angolo, ma per il momento siamo in stallo. Finché rimaniamo a terra dietro la macchina, per quanto il tiratore possa spostarsi, non ci può colpire.
D’altro canto, finché restiamo qui rimaniamo dei bersagli.
Augie si mette seduto. «Dobbiamo scappare, dobbiamo scappare!»
«Non ti muovere!» urlo tenendolo giù, facendolo appiattire sull’asfalto. «Se scappiamo adesso, siamo morti.»
Lui rimane immobile. E anch’io. Siamo in un bozzolo di oscurità. Si sentono i rumori dello stadio, la confusione dovuta al blackout, le auto che inchiodano, i clacson... nessun proiettile, però, rimbalza sull’autopattuglia.
E nemmeno sull’asfalto o sul muro dello stadio alle nostre spalle.
Il cecchino ha smesso di sparare. E se ha smesso di sparare...
Guardo a ore quattro e vedo un uomo correre attorno al muso del furgone, il braccio con la pistola teso ad altezza spalla. Premo il grilletto. Una, due, tre volte. Spara anche lui, le pallottole risuonano sulla carrozzeria, ma io sono al buio mentre lui è in piena luce: lo scontro a fuoco può finire solo in un modo.
Azzardo un’altra occhiata oltre il cofano, le vene che pulsano come lombrichi. Non vedo né il cecchino né il terzo uomo della squadra di netturbini.
Ancora stridori di pneumatici, grida maschili, voci che conosco, parole familiari...
«Secret Service! Secret Service!»
Abbasso la pistola e all’improvviso sono attorno a me, mi puntano addosso le armi automatiche da tutte le direzioni, qualcuno mi afferra da sotto le ascelle e comincia a trascinarmi. Io cerco di dire «cecchino», ma non so se mi esce davvero la voce, riesco a pensare ma non a parlare. Qualcuno urla «Via! Via! Via!» e mi ritrovo in una macchina con il motore acceso, protetto da ogni lato da gente addestrata a prendersi una pallottola al posto mio...
Poi si accende una luce accecante, con un ronzio fortissimo, e ogni cosa è di nuovo illuminata, splendente come un riflettore puntato in piena faccia. È tornata l’elettricità.
Mi sento pronunciare le parole «Augie» e «prendetelo», poi la portiera sbatte e sono sdraiato sui sedili e ancora «Via! Via! Via!» e acceleriamo sempre di più, le ruote che schizzano su una superficie sconnessa, la striscia di prato al centro di Capitol Street.
«È ferito? È ferito?» Alex Trimble mi tasta freneticamente il petto, mi scruta alla ricerca del minimo graffio.
«No», rispondo.
Ma lui non si fida, mi tasta il torace e il collo, mi costringe a girarmi per controllare schiena, nuca e gambe.
«Non è ferito», dice alla fine.
«Augie... Il ragazzo.»
«Ce l’abbiamo, signor presidente. È dietro, nell’altra macchina.»
«La ragazza che è stata uccisa... prendete anche lei.»
Lui fa un sospiro e guarda nel lunotto posteriore, l’adrenalina che defluisce lentamente. «Di quello può occuparsi la polizia...»
«No, Alex, no. La ragazza... è morta... dovete prenderla in custodia... inventatevi qualcosa con la polizia, qualsiasi cosa...»
«Va bene, signore.»
Mentre Alex parla all’autista, io cerco di decifrare l’accaduto. I puntini ci sono tutti, sparsi qua e là come le stelle di una costellazione, però non so come unirli, non ancora, almeno.
Mi vibra il cellulare. Lo vedo illuminarsi a terra, sul tappetino.
Carolyn. Può essere solo lei.
«Mi serve... il telefono», dico ad Alex.
Lui allunga la mano e me lo passa. Tremo ancora come una foglia.
Il messaggio di Carolyn dice: 1. Io, però, ho troppa confusione in testa per ricordarmi il cognome della mia maestra di prima elementare. Anche se riesco a visualizzarla perfettamente. Era alta, con un grande naso adunco...
Devo ricordarmi quel nome. Devo risponderle. Altrimenti...
Richards. No, Richardson. La maestra Richardson.
Il telefono mi cade di mano. Tremo così tanto che non riesco a tenerlo, digitare un messaggio va ben oltre le mie attuali capacità. Chiedo ad Alex di farlo per me.
«Devo parlare con Augie... Il ragazzo che era con me.»
«Appena arriviamo alla Casa Bianca, signore, lì potremo...»
«No», lo interrompo. «No.»
«No cosa, signore?»
«Non andiamo alla Casa Bianca.»