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Sull’elicottero mi costringo a bere una tazza di caffè, nella speranza di riscuotermi dal torpore farmacologico. Devo essere in forma al cento per cento. La battaglia che sto per affrontare potrebbe essere la più difficile.
È l’alba e le nuvole s’infiammano di un vivace arancione. Normalmente una vista del genere mi commuoverebbe: l’onnipotenza della natura, l’insignificanza umana rispetto alla vastità del pianeta che abbiamo ereditato. Oggi, però, guardando le nubi infuocarsi non riesco a non pensare alle sfere di fuoco della fabbrica di Los Angeles, e il sorgere del sole mi fa venire in mente che abbiamo le ore contate.
«È tutto pronto», mi dice Alex Trimble distraendosi per un attimo dalla sfilza di telefonate che sta facendo. «La sala comunicazioni è sicura, e anche la war room. I dintorni sono stati controllati e messi in sicurezza. Posti di blocco e telecamere sono operativi.»
Atterriamo leggeri al centro esatto della croce dell’eliporto, in un’ampia radura quadrata tra le vaste foreste della Virginia Sudoccidentale. Siamo nel bel mezzo della proprietà di un mio amico, un facoltoso investitore che, pur essendo per sua stessa ammissione del tutto ignorante di «computer e quelle robe lì», ha avuto il fiuto di investire milioni in una startup informatica, che ha trasformato i suoi milioni in miliardi. Questo è il suo rifugio, il luogo in cui viene per pescare o cacciare alci, quando non è a Manhattan o nella Silicon Valley. Più di quattrocento ettari di pini della Virginia, campi fioriti, per andare a caccia e a pesca, fare lunghe passeggiate e campeggiare. Io e Lilly siamo venuti qui per alcuni fine settimana dopo la morte di Rachel; ce ne siamo stati a guardare in riva al lago, a passeggiare per ore, in cerca di un modo per elaborare il lutto.
«Siamo i primi ad arrivare, giusto?» chiedo ad Alex.
«Sì, signore.»
Bene. Ho bisogno di stare alcuni minuti da solo, per riflettere sul quadro d’insieme e magari anche per darmi una ripulita. Ormai non c’è più margine d’errore.
Le prossime ore potrebbero cambiare il corso della storia per generazioni.
A sud dell’eliporto si estende il bosco, solcato soltanto dai sentieri tortuosi che conducono al porticciolo. A nord invece c’è una baita costruita una decina d’anni fa in legno di pino chiaro, il cui marrone-giallino originario ha ormai acquisito un tono più scuro per via delle intemperie. Una tonalità che si abbina ai colori dell’alba.
Uno dei vantaggi di questo posto, soprattutto per chi ragiona come Alex, è la sua inaccessibilità. Da sud o da ovest, la proprietà è inespugnabile, per via della rete elettrificata alta dieci metri con tanto di telecamere e sensori di movimento. Il lato est dà su un immenso lago, con agenti del Secret Service che sorvegliano il molo. E per arrivare in auto bisogna lasciare la strada principale, imboccare una stradina di ghiaia priva di segnaletica e svoltare su uno sterrato che al momento è controllato a vista dagli uomini di Alex.
Ho insistito per ridurre al minimo il personale di sorveglianza: questo posto è, e deve rimanere, segreto. Gli eventi che stanno per succedere devono rimanere segreti. E il Secret Service, quando è in azione, tende a dare nell’occhio... in fondo è questo il suo scopo. Stavolta serviva un compromesso tra sicurezza e basso profilo.
Cammino a passo malfermo sulla lieve salita, trascinandomi dietro l’asta della flebo perché le rotelle non scorrono agevolmente tra l’erba fitta. Qui l’aria è molto diversa, così fresca e pulita, addolcita dai pollini selvatici. Per un attimo, vorrei cedere alla tentazione di scordarmi la catastrofe mondiale che stiamo per fronteggiare.
Su un lato della radura, svetta una tenda nera. Se non fosse per il colore, o per il fatto che è chiusa da tutti i lati, sembrerebbe una tenda normalissima, invece è progettata per ospitare incontri segreti, faccia a faccia o via remoto, in totale privacy grazie all’azzeramento di ogni altro segnale e dunque all’impossibilità di venire registrati o intercettati.
E questa sarà una giornata densa di conversazioni private.
Gli agenti hanno aperto la baita. L’interno è rustico come l’esterno: palchi di corna alle pareti, fotografie in cornici di legno, una canoa intagliata che funge da libreria.
Quando entro, un uomo e una donna alzano la testa, guardano la flebo ma non dicono niente. Lui è Devin Wittmer, quarantatré anni, aria da professore universitario, pantaloni e giacca sportivi, camicia mezza sbottonata, capelli lunghi pettinati all’indietro, una spruzzata di grigio sulla barba, il viso magro e giovanile, anche se le occhiaie sono un indizio della tensione in cui ha vissuto le ultime due settimane.
Lei invece si chiama Casey Alvarez, ha trentasette anni, è un po’ più alta di David e ha un’aria tipicamente istituzionale, con i capelli corvini tirati indietro, occhiali dalla montatura rossa, camicia e pantaloni neri.
Devin e Casey sono condirettori della squadra speciale d’intervento rapido, lo zoccolo duro della task force creata quindici giorni fa quando il virus Tempi Bui ha fatto capolino la prima volta nei server del Pentagono. Ho detto che volevo i migliori, ovunque fossero e qualunque prezzo chiedessero.
Abbiamo messo insieme una trentina di persone, le menti più brillanti della cybersecurity. Alcuni sono in prestito dal settore privato, dietro blindatissimi accordi di segretezza: aziende di software, giganti delle telecomunicazioni, compagnie che si occupano di cybersecurity, fornitori militari. Due sono ex hacker, uno dei quali sta scontando una condanna di tredici anni in un carcere federale. La maggioranza, però, proviene da dipartimenti e agenzie federali: Sicurezza interna, CIA, FBI, NSA.
Metà del gruppo si occupa di riduzione del rischio: come limitare il più possibile i danni ai nostri sistemi e alle nostre infrastrutture dopo l’attacco del virus.
In questo momento, però, ho bisogno dell’altra metà, guidata appunto da Devin e Casey, dedita a escogitare un modo per fermare il virus. Sono passate due settimane, e ancora non hanno fatto un solo passo avanti.
«Buongiorno, signor presidente», dice Devin Wittner. Lui viene dall’NSA, l’Agenzia per la sicurezza nazionale. Dopo la laurea a Berkeley, ha cominciato progettando software di cyberdifesa per clienti come Apple, ma poi è stato assunto dal governo. Nel tempo, ha messo a punto una serie di strumenti per testare la sicurezza di industrie e governi in caso di attacco informatico. Quando tre anni fa un virus ransomware ha messo in ginocchio i server del ministero della Sanità francese, abbiamo mandato Devin a Parigi per identificare e neutralizzare la minaccia informatica. Mi è stato assicurato che nessuno in America ha la sua abilità nell’individuare e riparare le falle di un sistema di cyberdifesa.
«Signor presidente», mi saluta Casey Alvarez. Figlia di una coppia di messicani emigrati in Arizona che hanno messo su una catena di supermercati molto diffusa nel Sudovest, fin da piccola non ha mai mostrato nessun interesse per l’attività di famiglia e ha sempre sognato di lavorare come esperta informatica nelle forze dell’ordine. Quando si stava laureando all’Università della Pennsylvania, il dipartimento di Giustizia ha rifiutato la sua domanda di impiego. Allora lei si è messa al computer ed è riuscita a fare quello che per anni autorità statali e federali avevano tentato invano: infiltrarsi in un sito di pedopornografia nel deepweb e identificarne gli amministratori, offrendo quindi al dipartimento un’inchiesta praticamente già chiusa e sgominando quello che era considerato il più importante portale nazionale per lo scambio e lo smercio di materiale pedopornografico. A quel punto il dipartimento l’ha assunta a occhi chiusi e, qualche anno dopo, l’ha chiamata la CIA. Ultimamente ha lavorato soprattutto in Medio Oriente, insieme al comando centrale dell’esercito, occupandosi d’intercettare, decodificare e disturbare le cybercomunicazioni tra cellule terroristiche.
Tutti mi hanno assicurato che loro due sono i migliori che abbiamo. E ora stanno per stringere la mano a chi, almeno finora, ha fatto meglio di loro.
Mentre mi avvicino, seguito da Augie, sui loro volti vedo un certo rispetto. I Figli della Jihad sono la nazionale mondiale del cyberterrorismo, figure mitiche in quel mondo. Ma percepisco anche la loro grinta competitiva, per fortuna.
«Adesso Devin e Casey ti faranno vedere la war room», dico a Augie. «Loro sono in contatto con il resto della squadra d’intervento al Pentagono.»
«Seguimi», gli dice Casey.
Per un attimo, mi sento sollevato. Almeno sono riuscito a portare Augie fin qui, vivo. Dopo tutto quello che abbiamo passato, in fondo è una piccola vittoria.
Ora posso concentrarmi sui passi successivi.
Quando gli altri tre sono spariti lungo le scale, chiamo Jacobson. «Toglimi la flebo.»
«Anche se non è finita, signore?»
Lo guardo fisso negli occhi. «Tu lo sai cosa sta per succedere, vero?»
«Sì, signore, certo.»
«Bene. E allora sai che non posso andarmene in giro con un tubo nel braccio. Levamelo.»
«Certo, signor presidente.» Si mette all’opera, con tanto di guanti di lattice e altri aggeggi presi dalla borsa che gli ha dato la dottoressa. Comincia a biascicare a mezza voce, come un bambino che cerca d’imparare a memoria un manuale d’istruzioni: chiudere il morsetto, stabilizzare il catetere, mettere una garza sul punto d’ingresso dell’ago e fissarla con un cerotto...
«Ahi.»
«Scusi, signore... comunque non ci sono segni d’infezione... qui.» Mi assicura la garza con il cerotto. «Regga un attimo, per favore.»
Poco dopo, sono pronto a procedere. Vado subito nel bagnetto annesso alla mia stanza. Con un rasoio elettrico mi taglio il grosso della barba rossiccia, quindi metto la schiuma e finisco con un rasoio usa e getta. Poi mi faccio una doccia e mi godo il getto bollente sul corpo, anche se tengo il braccio sinistro fuori, in modo da proteggere la fasciatura, e lavarsi con una sola mano è un po’ scomodo. Ma ne avevo un disperato bisogno. Ora mi sento meglio e, del resto, almeno per un altro giorno, le apparenze vanno salvate.
Indosso i vestiti che mi ha dato il marito di Carolyn. I jeans e le scarpe sono ancora i miei, ma almeno mutande e calzini sono puliti, e anche la camicia, che è della mia taglia. Ho appena finito di pettinarmi quando un messaggio di Liz, direttore reggente dell’FBI, mi informa che ha qualcosa d’importante da dirmi.
«Alex! Dove sono gli altri?» chiedo.
«Dovrebbero arrivare a momenti, signore.»
«Ma è tutto a posto? Voglio dire, dopo quello che è successo ieri sera...»
«A quanto ne so, sono tutti sani e salvi e dovrebbero essere in arrivo.»
«Controlla di nuovo, Alex, per favore.» Compongo il numero di Elizabeth Greenfield. «Ehi, Liz, dimmi tutto.»
«Signor presidente, ci sono novità su Los Angeles. Il loro bersaglio non era l’azienda fornitrice della Difesa.»