36

 

«La prossima casa, signore», gracchia Jacobson nella ricetrasmittente, come se non l’avessi già riconosciuta anch’io.

Grato di essere arrivato fin qui, accosto la Suburban al marciapiede. Queste auto del Secret Service sono vere e proprie corazzate, ma non sapevo quanto saremmo riusciti ad andare avanti con il retrotreno sfasciato.

L’auto di Jacobson si ferma subito dietro di noi. Mi ha raggiunto lungo l’autostrada e mi ha guidato fin qui. Sono già stato altre volte in questa casa, ma non avevo mai fatto attenzione alle strade per raggiungerla.

Parcheggio e spengo il motore. Un attimo dopo, come prevedibile, sento un’ondata nervosa attraversarmi da capo a piedi: i tremori, i postumi dell’adrenalina, la reazione post-traumatica. Finora ho dovuto mantenere il controllo per portare in salvo me e Augie. Certo, il mio lavoro è tutt’altro che compiuto, anzi so che il difficile comincia ora, però mi concedo qualche istante di sollievo per respirare a fondo e cercare di metabolizzare i vari incontri ravvicinati con la morte e di svuotarmi il cervello dal terrore e dalla rabbia che l’hanno invaso.

«Mantieni il controllo», sussurro a me stesso con voce tremante. «Se cominci a perderlo tu, lo perderanno anche gli altri.» Provo a prenderla come una normale azione di governo, qualcosa di cui non posso prevedere tutte le conseguenze. Nel frattempo, mi costringo a smettere di tremare.

Jacobson corre sul marciapiede e viene ad aprirmi la portiera. Non ho bisogno di aiuto per scendere dalla macchina, ma mi dà ugualmente una mano. Lui sembra stare bene, a parte qualche graffio e un po’ di sporco in faccia.

Nel mettermi in piedi ho un attacco di nausea e sento le gambe molli come gelatina. Temo che al momento la dottoressa Lane non sarebbe molto fiera di me.

«Tutto bene?» chiedo a Jacobson.

«Io? Certo, sì, sto bene. E lei, signore?»

«Benissimo. Mi hai salvato la vita.»

«No, è stato Davis a salvarle la vita, signore.»

Ha ragione. L’ultima manovra di Davis prima della collisione ha fatto sì che il camion impattasse soprattutto contro il muso del SUV, risparmiando noi tre seduti dietro. Il colpo di genio di un agente ben addestrato. Certo, anche Jacobson non ha perso tempo, non eravamo ancora fermi che lui già aveva il mitra spianato fuori dal finestrino. Se non ci avesse coperti, io e Augie non saremmo mai riusciti a scappare.

Nessuno riconosce lo sforzo che fa ogni giorno il Secret Service per proteggermi, e che culmina nel sacrificio della loro vita per salvare la mia, un gesto che a qualsiasi persona sana di mente suonerebbe incomprensibile: gettarsi addosso al proiettile invece di schivarlo. Tuttavia, le poche volte in cui un agente si comporta in modo stupido sprecando i soldi dei contribuenti, i media martellano l’opinione pubblica per mesi. Nessuno parla mai del novantanove per cento delle operazioni in cui fanno il loro dovere con efficienza stellare.

«Davis era sposato e aveva un figlio piccolo, vero?» Se avessi saputo che mi avrebbe pedinato anche stasera – come sempre quando visito un Paese particolarmente pericoloso come il Pakistan, il Bangladesh o l’Afghanistan – avrei insistito per l’esenzione d’ufficio di tutti gli agenti padri di famiglia.

«Era il suo lavoro, signore», dice Jacobson.

Va’ a dirlo alla moglie e al figlio. «E Ontiveros?»

Scuote lievemente la testa.

D’accordo. Non me ne dimenticherò. Farò in modo che la famiglia di Davis riceva tutto ciò che le serve, e lo stesso per i cari di Ontiveros. È un impegno personale. Ora, però, non ho tempo per pensarci, non stasera almeno.

Piangi la tua perdita più tardi, quando la battaglia è finita, diceva sempre il sergente Melton. Finché sei sul campo, devi restarci anche con la testa.

Augie scende dal Suburban a passi tremanti, e con la scarpa centra subito una pozzanghera. Ha smesso di piovere e in questa strada residenziale l’aria ha un buon odore di terra fresca, come se anche Madre Natura volesse dirci: Il peggio è passato, ora si ricomincia. Spero che sia così, ma francamente ne dubito.

Augie mi guarda come un cane bastonato, ora è solo in campo nemico, senza nulla di proprio tranne un cellulare.

La casa è una villetta neovittoriana in stucco e mattoni, circondata da un giardino ben tenuto con tanto di vialetto di ghiaia e doppio garage. L’unica luce a quest’ora tarda della sera è quella del lampione sopra il sentiero che porta alla veranda. È stata la tinta azzurrognola delle mura esterne a farle guadagnare il soprannome di «Casa Blu».

Jacobson e Augie mi seguono lungo il vialetto.

La porta si apre all’istante. Il marito di Carolyn Brock ci stava aspettando.

Il presidente è scomparso
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