14

 

Nella mia residenza privata, apro il cassetto di un armadio e prendo quello che stavo cercando: una fotografia di Rachel. Ne ho a decine sparse per l’appartamento. Immagini in cui lei sorride felice, punzecchia il fotografo, ride o mi abbraccia. Questa invece non la mostro mai a nessuno. L’abbiamo scattata una settimana prima che morisse. La terapia le aveva macchiato la pelle, in testa le erano rimaste poche ciocche di capelli, il viso è scheletrico. Per chiunque, sarebbe uno spettacolo penoso. Rachel Carson Duncan al suo peggio, ormai prossima a soccombere a un male incurabile. Per me invece è la fotografia migliore, dove la sua bellezza è più indomita... a partire dal sorriso, tanto pieno di pace e allo stesso tempo così risoluto.

A quel punto avevamo già perso la battaglia. Era solo questione di tempo, ce l’avevano detto... una manciata di settimane, qualche mese al massimo. Alla fine, sono stati solo sei giorni. Sei giorni che non scambierei con nessun altro periodo della mia vita. C’eravamo solo noi, il nostro amore. Abbiamo parlato delle nostre paure, di Lilly, di Dio. Abbiamo letto la Bibbia e abbiamo pregato e riso e pianto fino a svuotarci gli occhi di lacrime. Non avevo mai sperimentato un’intimità così pura e potente. Non avevo mai provato un tale senso di comunione con un altro essere vivente.

«Fatti fare una foto», le avevo detto.

Lei aveva provato a dire di no, ma mi capiva: volevo immortalare l’attimo, perché mai mi era sembrato di amarla fino a quel punto.

«Jonathan», dice Carolyn Brock, bussando lievemente alla porta.

«Arrivo.» Con le dita mi sfioro le labbra, poi tocco la foto di Rachel. Chiudo l’armadio e alzo lo sguardo. «Andiamo.»

Sono vestito in abiti civili e ho una piccola borsa a tracolla.

Alex Trimble abbassa la testa, la mascella serrata in segno di disapprovazione. Quello che sta per succedere dev’essere l’incubo peggiore di ogni capo unità del Secret Service, ma del resto lui ha solo obbedito agli ordini. Non ha altra scelta che lasciarmi andare: forse questo lo consolerà un po’. «Sicuro di non volere neanche qualcuno di vedetta? Le assicuro che non si accorgerà di noi.»

Sorrido e dico di no.

Alex è con me fin da quando mi era stato assegnato per la mia sicurezza personale durante le primarie, quando ero ancora un governatore dalle scarsissime probabilità di vittoria. Solo dopo il primo dibattito televisivo, il mio gradimento nei sondaggi è cominciato a salire, facendomi scavalcare tutti gli altri candidati a parte la vincitrice annunciata Kathy Brandt. Non sapevo in base a quali criteri nominasse le squadre di protezione, ma essendo un outsider avevo dedotto che Alex non doveva certo essere il numero uno. Lui, però, mi aveva sempre detto: «Governatore, per quanto mi riguarda, lei è già il presidente degli Stati Uniti». E sul piano della disciplina e dell’organizzazione non ha mai commesso un errore. I suoi uomini lo temono come le reclute temono il sergente incaricato di addestrarle. E quando gli ho comunicato che l’avrei messo a capo del servizio di sicurezza della Casa Bianca, gli ho detto anche che se ero ancora vivo era merito della sua professionalità.

Non si diventa amici delle proprie guardie del corpo e loro non diventano tuoi amici. Entrambe le parti comprendono la necessità di un certo distacco emotivo, ma in Alex ho sempre visto del buono. Ha sposato Gwen, la fidanzata dell’università, tutti i giorni legge la Bibbia e ogni mese spedisce alla madre una parte del suo stipendio. È il primo a dirti che studiare non è mai stato il suo forte, ma che essere stato un fenomenale left tackle a football gli ha garantito una borsa di studio all’Iowa State, dove si è iscritto a criminologia per coronare il sogno di entrare nel Secret Service e continuare a fare nella vita quello che gli riusciva bene già sul campo: difendere il lato scoperto.

Quando gli ho chiesto di farsi carico della mia sicurezza personale alla Casa Bianca, lui ha mantenuto la sua solita espressione stoica e la schiena dritta, ma per un attimo ho colto nei suoi occhi lo scintillio dell’emozione. «Sarebbe il più grande onore della mia vita, signore», mi ha risposto a bassa voce.

«Allora useremo il GPS», mi spiega adesso. «Almeno così sapremo sempre dov’è.»

«Meglio di no», dico.

«Posti di blocco», prova, senza successo. «Ci dica solo da che parte andrà e...»

«No, Alex.»

Non capisce il motivo della mia reticenza. È convinto di essere in grado di sorvegliarmi in maniera invisibile. E, in fondo, credo anch’io che ne sarebbe capace. Perché allora non lo lascio fare?

Lui non lo sa e io non posso dirglielo.

«Si metta almeno il giubbetto antiproiettile», mi dice.

«No. Si vedrebbe.» Anche quelli di nuova generazione sono troppo grossi.

Alex vorrebbe continuare a discutere. Vorrebbe dirmi che mi sto comportando da stupido, ma non oserebbe mai. Scandisce un’ennesima implorazione, probabilmente identica a quella che mi ha appena fatto, e alla fine lascia crollare le spalle e si arrende.

«Sia prudente», dice. Una frase che milioni di persone pronunciano tutti i giorni nella maniera più innocua, ma che in questo caso assume tutta una serie di sfumature terrificanti.

«Lo sarò.»

Guardo Danny e Carolyn, le uniche altre persone che si trovano nella stanza insieme a noi. È ora che vada, da solo e senza protezione. Sono anni che mi muovo avanti e indietro come un pazzo, ma di solito non sono mai né solo né senza protezione. Il Secret Service mi accompagna passo passo, anche in vacanza c’è sempre almeno un agente a tenermi d’occhio.

Ma so che questa è l’unica via per risparmiare al Paese un disastro orribile e fare il mio dovere per proteggerlo e difenderlo come ho giurato al mio insediamento. So benissimo che i miei concittadini sono quasi sempre soli e senza protezione, anche se una pletora di telecamere, cellulari, social network e attacchi informatici rischia ormai ogni giorno di limitare la loro privacy. Ciononostante, questo per me è un grosso cambiamento, e non posso non sentirmi disorientato e nudo.

Mentre esco dal cordone di protezione e vado verso l’uscita, Danny e Carolyn sono al mio fianco. Restiamo in silenzio. Hanno tentato entrambi di farmi cambiare idea, ma ormai si sono rassegnati e cercano di darmi una mano.

Uscire di nascosto dalla Casa Bianca è più difficile di quanto possa sembrare. Scendiamo in fondo alla scalinata che porta nella mia residenza. Camminiamo lentamente, centellinando ogni passo, e ci avviciniamo solenni al momento clou. È come se, a ogni metro, la mia capacità di controllo sfumasse nell’incertezza del destino.

«Vi ricordate la prima volta che siamo venuti qui?» chiedo ripensando al giro di ricognizione fatto prima del mio giuramento.

«Come se fosse ieri», risponde Carolyn.

«Non me lo dimenticherò mai», dice Danny.

«Eravamo così pieni di... speranza, immagino. Eravamo così sicuri di riuscire a cambiare il mondo in meglio.»

«Parla per te», dice Carolyn. «Io ero semplicemente terrorizzata.»

Anch’io in realtà avevo una gran paura. Ci rendevamo conto molto bene della situazione che stavamo ereditando. Non ci facevamo illusioni sulla possibilità di riuscire a fare un lavoro perfetto. Ogni volta che cercavo di dormire, al termine di quei primi inebrianti giorni di presidenza, la mia mente abbandonava di colpo ogni ambizione di grandi conquiste in campo di sicurezza nazionale, relazioni estere, welfare, salute e giustizia, e si popolava invece di incubi in cui sbagliavo tutto e facevo precipitare la nazione nel baratro.

«Più sicuri, più forti, più giusti, più gentili», dice Danny, citando le parole chiave che ogni mattina ripetevo alla mia squadra quando ci sedevamo a discutere gli ultimi dettagli del programma di governo e le nomine dell’organico in vista dell’inizio ufficiale del mandato.

Alla fine arriviamo al piano seminterrato più basso, dove ci sono una pista da bowling, un centro operativo simile a un bunker ma ben arredato, che Dick Cheney aveva occupato dopo l’11 settembre, e un paio di altre stanze con tavoli da riunione o brandine.

Oltrepassiamo le porte e ci dirigiamo verso la piccola galleria che porta al dipartimento del Tesoro, verso est, all’incrocio tra 15th Street e Pennsylvania Avenue. Leggende e pettegolezzi su cosa ci sia sotto la Casa Bianca risalgono almeno alla guerra civile, quando l’esercito unionista per paura di un attacco all’edificio aveva pensato quale extrema ratio di far fuggire il presidente Lincoln da un passaggio segreto nel palazzo del dipartimento del Tesoro. I lavori veri e propri per la costruzione del tunnel erano cominciati, però, soltanto con Franklin Delano Roosevelt: durante la seconda guerra mondiale il rischio di un attacco alla Casa Bianca era molto più concreto. Il tracciato della galleria era stato concepito a zigzag proprio per minimizzare i danni di un eventuale bombardamento.

A sorvegliarne l’ingresso c’è un allarme, ma Carolyn l’ha già fatto disattivare. La galleria è larga circa tre metri e alta poco più di due, non troppo confortevole insomma, per qualcuno che come me supera il metro e ottanta. Altri al mio posto rischierebbero un attacco di claustrofobia, ma io per fortuna non ne soffro. Per chi ormai è abituato a non poter più nemmeno andare in bagno senza uno stuolo di collaboratori e agenti del Secret Service, l’aria fresca del tunnel sa di libertà.

Arrivati quasi in fondo alla galleria, svoltiamo a destra e sbuchiamo in un piccolo parcheggio sotterraneo riservato a funzionari di alto livello del dipartimento del Tesoro e ad altri ospiti di rilievo. È lì che mi attende l’automobile.

Carolyn mi passa le chiavi e un cellulare, che infilo subito nella tasca sinistra accanto alla busta ricevuta mezz’ora fa dalla ragazza.

«I numeri sono già nella rubrica», mi spiega. «Tutti quelli che mi hai chiesto. Lilly compresa.»

Lilly. Sento una parte di me che si spezza.

«Il codice te lo ricordi, vero?» chiede Carolyn.

«Sì, non preoccuparti.»

Dalla tasca posteriore dei pantaloni estraggo un’altra busta, chiusa dal sigillo presidenziale, che contiene un unico foglio.

Appena la vede, Danny per poco non si mette a piangere. «No. Scordatelo. Io quella non la apro.»

Carolyn allunga la mano e prende la busta.

«Aprila», le dico. «Se è necessario, aprila.»

Danny si porta una mano alla fronte e si ravvia i capelli. «Santo cielo, Jon.» Da quando sono stato eletto presidente, è la prima volta che pronuncia il mio nome di battesimo. «Hai davvero intenzione di...»

«Danny», dico abbassando anch’io la voce. «Se mi succede qualcosa, voi...»

«Ehi...» Mi mette le mani sulle spalle. Balbetta, cerca di controllarsi. «È come se fosse figlia mia. Lo so. Quella ragazza è la persona che amo di più al mondo.»

Danny è divorziato ormai, suo figlio fa l’università, ma il giorno in cui è nata Lilly lui era in sala d’attesa. Le ha fatto da padrino di battesimo, ha pianto alla cerimonia finale di ogni suo ciclo scolastico, le ha tenuto tutto il tempo la mano al funerale di Rachel.

«Ce l’hai ancora la moneta dei Ranger?» mi chiede.

«Mamma mia, anche in un momento come questo dubiti di me?» rispondo tastandomi la tasca. «Non esco mai senza. E tu?»

«Io non ce l’ho. Mi sa che ti devo una birra. Quindi tu...» Mentre parla gli trema la voce. «Tu devi tornare per forza.»

Lo guardo negli occhi. Anche se non siamo davvero parenti, Danny è parte integrante della mia famiglia. «Certo che torno, fratello.»

Poi mi volto verso Carolyn. Il nostro rapporto non comprende il contatto fisico; dopo la notte delle elezioni, non ci siamo più abbracciati.

Ma ora sì. Lei mi sussurra nell’orecchio. «Scommetterei tutti i miei soldi su di te. I tuoi nemici non sanno con chi hanno a che fare.»

«Se è vero, è solo perché ho te dalla mia parte.»

Li guardo mentre si allontanano, scossi ma determinati. Le prossime ventiquattr’ore, quarantotto al massimo, non saranno facili per Carolyn, che alla Casa Bianca dovrà recitare la parte della mia controfigura. Quello che sto facendo non ha nessun precedente. Stiamo letteralmente improvvisando.

Dopo che Danny e Carolyn sono spariti e io sono rimasto solo nella galleria, mi piego con le mani sulle ginocchia. Faccio alcuni respiri profondi per combattere le farfalle nello stomaco. «Spero proprio che tu sappia cosa cazzo stai facendo», dico a me stesso. Poi mi volto e comincio a camminare.

Il presidente è scomparso
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