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«Quanto tempo abbiamo prima dell’arrivo del virus?» chiedo a Augie.
«Il grande giorno è sabato. So solo questo.»
Il direttore del Mossad mi ha detto la stessa cosa.
«Allora dobbiamo muoverci subito», dico superandolo con un balzo e prendendolo per un braccio.
«Dove vuole andare?»
«Te lo dico mentre...»
Mi volto troppo in fretta e la stanza comincia a girare, perdo l’equilibrio, sento una fitta alle costole, è uno spigolo di legno – l’angolo del divano – e intanto il soffitto mi lampeggia negli occhi come una luce stroboscopica...
Faccio un passo avanti, ma qualcosa non va, la gamba cede, sembra che il pavimento sia nel posto sbagliato... come se tutto si fosse spostato...
«Presidente!» grida Jacobson gettandosi verso di me e afferrandomi al volo quando il tappeto è ormai a pochi centimetri dalla mia faccia.
«La dottoressa Lane», dico allungando la mano verso la tasca.
La stanza mi balla attorno.
«Chiama... Carolyn», riesco a dire. Agito il telefono, poi Jacobson me lo prende di mano. «Lei sa... cosa fare.»
«Onorevole Brock!» grida Jacobson nel telefono. Poi in un tono da combattimento pronuncia istruzioni e ordini, che mi riecheggiano debolmente nella testa.
Non adesso. È proprio il momento sbagliato.
«Si riprenderà, ok?»
«Quanto gli ci vorrà?»
Sabato in America. Sabato in America arriverà presto.
Il fungo atomico. Un’onda di calore rosso che brucia le campagne. Dov’è il nostro leader? Dov’è il presidente?
«Non... adesso...»
«Dille di fare in fretta.»
Non siamo in grado di reagire, signor presidente.
Hanno disabilitato i nostri sistemi, signor presidente.
Cosa facciamo adesso, signor presidente?
Cosa fa adesso, signor presidente?
«Si sdrai, signore. Stanno arrivando le medicine.»
Non sono pronto. Non ancora.
No, Rachel, non sono ancora pronto per venire da te.
Sabato in America.
Silenzio, l’impercettibile trillo di spazi vuoti, amorfi, morti.
«Dove diavolo è finita la dottoressa?»
Una luce bianca.