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Quando Augie se ne va, i miei due ospiti, Noya Baram e Jürgen Richter, restano assorti in un silenzio stupefatto. Il cancelliere si toglie la giacca del completo, restando in gilet, e si tampona la fronte con il fazzoletto. Noya si versa un bicchiere d’acqua.
«Perché...» comincia Richter portandosi una mano al mento e strofinandoselo. «... perché la Russia dovrebbe volere una cosa del genere?»
Sempre che sia la Russia, penso.
«Non è ovvio?» dice Noya tamponandosi le labbra con un tovagliolo.
«Non per me. C’è una questione militare in ballo? Se le capacità militari degli Stati Uniti fossero compromesse, se le infrastrutture fossero a pezzi, questo li renderebbe vulnerabili a un attacco militare? Non può essere, oppure sì? La Russia attaccherebbe gli Stati Uniti? Di certo...» Il cancelliere fa un gesto con la mano. «Di certo l’America... sì, sarebbe momentaneamente vulnerabile, ma sono sicuro che ricostituirebbe in fretta la sua potenza. E poi c’è l’articolo 5.»
L’articolo 5 del Patto Atlantico stabilisce che un attacco a qualsiasi Paese della NATO è da considerarsi come un attacco a tutti i firmatari. Quindi un attacco agli Stati Uniti scatenerebbe una guerra mondiale.
Almeno in teoria. Perché un’eventualità simile non si è mai verificata. Se la Russia mettesse fuori uso le nostre infrastrutture militari e poi sferrasse un’offensiva nucleare, i nostri alleati della NATO – per esempio la Germania, il Regno Unito o la Francia – avrebbero davvero il coraggio di rispondere a Mosca? Sarebbe un bel test per la solidità dell’alleanza, perché ogni Paese che decidesse d’intervenire subirebbe senza dubbio rappresaglie nucleari.
Per questo è così importante far capire a Richter che la Germania potrebbe essere il prossimo bersaglio e che dunque non può permettere ai russi – o a chiunque ci sia dietro il virus – di compiere un simile attacco senza subirne le conseguenze.
«Ma qual è il maggiore ostacolo della Russia?» chiede Noya. «Di che cos’è che i russi hanno davvero paura?»
«Della NATO», risponde Richter.
Noya alza le spalle. «Sì, certo, Jürgen, di sicuro l’espansione della NATO fino ai confini russi è una bella preoccupazione. Ma agli occhi di Mosca, e non lo dico per mancarti di rispetto, Jürgen, agli occhi di Mosca la NATO è soprattutto l’America. Più che i loro alleati, è l’America che i russi temono di più.»
«E quindi che cosa ci guadagna la Russia?» dico balzando in piedi, incapace di rimanere seduto. «Posso capire che Mosca ci voglia mettere fuori gioco, che voglia farci regredire, infliggerci un duro colpo, ma addirittura distruggerci?»
«Jonny», mi dice Noya posando il bicchiere sul tavolo. «Durante la Guerra fredda, gli Stati Uniti... be’, siete sempre stati convinti che i sovietici volessero distruggervi, e anche loro erano altrettanto certi del vostro desiderio di annichilire loro. Negli ultimi venticinque o trent’anni, però, si sono spostati molti equilibri. L’Unione Sovietica non esiste più. L’esercito russo non è più quello di una volta. La NATO si è avvicinata ai confini russi. Ma in sostanza è davvero cambiato qualcosa? A Mosca continuano a sentirsi minacciati da voi. E, dato che ne hanno la possibilità, non ti sembra che dal loro punto di vista questa sia pur sempre un’opzione percorribile? O preferisci rischiare di sbagliarti?» Noya sospira e inclina la testa. «Purtroppo non hai altra scelta che prepararti alla possibilità di un attacco diretto in America.»
È quasi inconcepibile. Quasi. Il mio lavoro è prepararmi al peggio, anche se faccio di tutto perché accada il meglio. E chi crede di aver capito davvero come ragioni il presidente Chernokev si sbaglia. Quell’uomo sta giocando una partita a scacchi da molto tempo, ma non significa che non prenderà una scorciatoia, se può.
Il cancelliere Richter guarda l’orologio. «Manca ancora una delegazione. Pensavo che a quest’ora sarebbero già arrivati.»
«Hanno le loro gatte da pelare», dico.
Alex Trimble entra nella stanza e io mi volto a guardarlo.
«Sono qui, signor presidente. I russi sono arrivati.»