107
Io e Alex guardiamo le riprese della telecamera installata nella war room: l’assassina con il trucco mimetico in faccia si lascia cadere a terra, chiude gli occhi, sembra finalmente in pace.
Tiene la pistola puntata sotto il mento, il telefono sul ventre.
«Sa di essere in trappola», dico.
«Il perimetro è stato messo in sicurezza», annuncia Alex. «Il seminterrato e il primo piano sono liberi. Manca solo lei. La squadra d’intervento è già in corridoio, pronta a sfondare la porta. Adesso è meglio andarcene, signore.»
«Non possiamo, Alex, prima devo...»
«Potrebbe avere una cintura esplosiva, signore.»
«Ma se indossa una tuta aderente!»
«Potrebbe averla nascosta sotto la tuta. O il telefono potrebbe essere un detonatore. Vede? Lo sta tenendo basso, contro il ventre. Perché farebbe così, altrimenti?»
Guardo lo schermo. Prima di accostare il telefono alla pancia, ha staccato le cuffie.
Mi torna in mente Rachel incinta, che cantava a Lilly quando le scalciava nel pancione.
«Adesso dobbiamo andare, signor presidente.» Alex mi prende per un braccio. Se non obbedisco, so benissimo che non si farà problemi a trascinarmi via.
Nel frattempo Devin, Casey e Augie tentano nuove password.
«Quanto tempo abbiamo, Devin?»
«Ventidue minuti.»
«Potete portare il computer sul Marine One? Funzionerà anche da lì?»
«Sì, certo.»
«Allora andiamocene. Tutti.»
Quando Alex apre la porta, ci troviamo faccia a faccia con un commando di marine. Ci scortano lungo le scale e attraverso la casa fino in veranda, poi giù per i gradini esterni, fino all’eliporto improvvisato dove ci aspetta il Marine One. Per poco Alex non mi prende in braccio, mentre Devin culla il portatile come fosse un neonato.
«Ho bisogno del mio telefono», dico ad Alex mentre saliamo a bordo dell’elicottero. «Decolliamo e restiamo in volo finché non risolvono la questione, ma non allontaniamoci troppo. Quando avranno finito, devono portarmi subito il cellulare.»
Appena ci ritroviamo tutti sul velivolo, mi sento un po’ più a casa.
Devin si lascia cadere sul sedile di pelle chiara e torna a battere frenetico sulla tastiera. «Venti minuti al massimo», dice mentre l’elicottero decolla e avanza inclinato oltre gli alberi, verso il lago in fiamme cosparso dei rottami della barca distrutta dal Viper.
Do un’occhiata al monitor sopra la spalla di Alex. «Prova con Figli della Jihad», dico a Devin. «O anche solo le iniziali, con tutte le varianti del caso. Oppure jihad.»
«Sì, signore.»
Nello schermo l’assassina è immobile. La pistola sotto il mento, il telefono sulla pancia.
O sul pancione.
Alex avvicina la ricetrasmittente alla bocca. «Marine, il presidente è al sicuro. Sfondate la porta.»
Gli strappo di mano la radio. «È il presidente Duncan che vi parla. Prendetela viva, se potete.»