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Interrompo la telefonata e premo l’interruttore per accendere la luce. Sto per aprire la porta quando mi vibra il cellulare. È Carolyn.
«Jon, c’è Liz in linea.»
«Signore, abbiamo sottoposto il vice presidente alla macchina della verità», dice Liz. «I risultati sono stati non probanti.»
«Cioè?» chiedo.
«Né positivi né negativi, signore.»
«E quindi, quali conclusioni possiamo trarne?»
«Be’, a essere sinceri era l’esito più prevedibile. Abbiamo buttato giù le domande in fretta e furia, mentre di solito invece le scriviamo con grande cura. E lo stress a cui è sottoposto il vice presidente, colpevole o innocente che sia, è davvero enorme.»
Anch’io una volta ho superato la macchina della verità. Quando ero prigioniero in Iraq, mi hanno fatto una serie di domande su movimenti di truppe e posizionamenti di risorse. Ho mentito sistematicamente, ma non se ne sono accorti. Durante l’addestramento mi avevano insegnato a fregare la macchina. C’è sempre un modo per abbindolare il sistema.
«Le concediamo comunque dei punti in suo favore per essersi proposta volontaria?»
«No», risponde Carolyn. «Se non supera il test, può dare la colpa allo stress e farci la stessa domanda: se davvero fossi colpevole, perché mi sarei sottoposta volontariamente alla macchina?»
«E poi c’è un’altra cosa», aggiunge Liz. «Sapeva bene che prima o poi avremmo comunque sottoposto al test sia lei che tutti gli altri. Quindi ne ha approfittato per fare bella figura, proponendosi come volontaria per qualcosa che l’avremmo costretta a fare in ogni caso.»
Hanno ragione. Kathy è abbastanza furba da pensare a simili strategie.
Santo cielo, non ne va bene una.
«Carolyn, è ora di fare quelle telefonate.»