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Bach è davanti alla finestra della baita, mentre sul lago è in corso lo scontro a fuoco. «Squadra 1, posizione», chiede aspettando la risposta di Lojzik, il ceco a capo del commando.
«Stiamo procedendo... che cos... merda...»
«Squadra 1, posizione!» ripete Bach a denti stretti, sforzandosi di non alzare troppo la voce.
«Helikoptéra!» grida Lojzik nella sua lingua. «Odkud pochází helikoptéra!»
Un elicottero?
«Squadra 1...»
Il boato dell’esplosione la investe sia alle orecchie, tramite la ricetrasmittente, sia da nord. Guardando verso quella direzione, vede le fiamme orlare il cielo.
Un attacco con un elicottero? Qualcosa dentro di lei affonda.
Prova ad aprire la finestra della lavanderia. Chiusa.
«Jebi ga», impreca sentendo montare il panico. Tenendo la pistola dal silenziatore, si china verso il vetro.
«Ularning vertolyotlari bor!» le grida nell’auricolare il capo della squadra 2, Hamid. Anche se non sa l’uzbeco, il tono è eloquente.
«Hanno un elicottero! Stanno...»
Stavolta l’esplosione è perfino più forte, un boato gigantesco proveniente dal lago la assorda riecheggiando nelle cuffie, facendole perdere per un attimo l’equilibrio.
È una sensazione strana, la paura che le sboccia dentro, le alza la temperatura corporea, le spalanca voragini nello stomaco. Era dai tempi di Sarajevo che non provava un terrore simile. Ormai pensava di non esserne più capace.
Punta la pistola contro la finestra e fa saltare il vetro. Raggiunge la maniglia e apre. Attende possibili reazioni dall’interno, una precauzione standard. Cinque secondi. Dieci. Nessun rumore.
Spalanca la finestra e scivola nella lavanderia, prima con i piedi e poi con il resto del corpo.