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Bach inclina l’ombrello per ripararsi dalle raffiche di pioggia spostate dal vento che la costringono a muoversi più a zigzag di quanto vorrebbe.
La prima volta che sono venuti i soldati, pioveva così.
Si ricorda il tambureggiare della pioggia sul tetto. La casa immersa nel buio, l’elettricità interrotta da settimane nel suo quartiere. Il calore del fuoco acceso. La sferzata di aria gelida seguita all’apertura improvvisa della porta, che all’inizio lei aveva attribuito alla forza del vento. Poi le urla dei soldati, gli spari, i piatti rotti in cucina, le proteste rabbiose del padre mentre lo trascinavano da una stanza all’altra. È stata l’ultima volta che ha sentito la sua voce.
Finalmente raggiunge il magazzino, entra dalla porta sul retro, piega l’ombrello per infilarlo dietro di sé nello spiraglio e, una volta entrata, lo capovolge sul cemento senza chiuderlo. Più avanti, nello stanzone, sente le voci degli uomini che si occupano dei feriti, gridando e insultandosi a vicenda per addossarsi la colpa in una lingua che lei non capisce.
La paura, però, è un esperanto.
Cammina pesantemente perché si accorgano del suo arrivo. Avrebbe preferito non annunciarsi, nel caso in cui ci fosse un’imboscata pronta ai suoi danni – le vecchie abitudini sono dure a morire – ma sa che è sempre meglio non cogliere di sorpresa un gruppo di uomini armati e aggressivi.
Sentendo l’eco dei suoi tacchi contro l’alto soffitto del magazzino, gli uomini si voltano; due di loro allungano d’istinto la mano verso la pistola.
«È scappato», dice il capo, il tizio pelato, vedendola avvicinarsi. Indossa ancora la maglietta azzurra e i pantaloni scuri.
Gli uomini si scostano, aprendole un passaggio verso i feriti appoggiati contro le casse da imballaggio. L’energumeno, quello che le è sempre stato antipatico, è senza maglietta e ha una fasciatura improvvisata sulla spalla destra, gli occhi serrati e una smorfia di dolore in faccia. Probabilmente il proiettile l’ha trapassato da parte a parte, danneggiando muscoli e tessuti ma lasciando intatti ossa e organi interni.
Il secondo uomo respira a stento, anche lui a petto nudo, gli occhi vitrei e il volto di un pallore cinereo. Uno dei compagni gli tiene premuto uno straccio sul pettorale sinistro.
«Dov’è il medico?» chiede un altro.
Non li ha scelti lei i membri della squadra. Le avevano assicurato che si trattava dei migliori sulla piazza. Avendola assoldata loro e pagata fior di quattrini, Bach ha pensato che anche per quei nove basisti non avrebbero badato a spese.
Dalla tasca dell’impermeabile tira fuori una pistola, il silenziatore già montato, e spara alla tempia prima dell’energumeno e poi dell’altro ferito.
Ora i basisti sono sette.
Tutti indietreggiano, sconvolti dal doppio tonfo smussato che ha messo fine alla vita dei compagni. Nessuno di loro allunga la mano verso la fondina, nota Bach.
Lei li guarda negli occhi uno per uno, tanto per vedere se si azzardano a fare una faccia da «abbiamo un problema». Forse, però, se l’aspettavano. L’uomo ferito al petto sarebbe morto di lì a poco. L’energumeno, invece, se la ferita non si fosse infettata sarebbe sopravvissuto, ma era diventato un peso per la squadra, non più una risorsa. E loro non possono permettersi zavorre. La partita non è ancora conclusa.
L’ultimo su cui Bach sofferma lo sguardo è il capo. «Tu occupati dei cadaveri.»
Lui annuisce.
«Sai qual è il prossimo punto d’incontro?»
Lui annuisce di nuovo.
Bach fa due passi verso di lui. «C’è qualcos’altro che mi vuoi chiedere?»
Lui scuote la testa, deferente.