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Torno con Carolyn nello Studio Ovale, le lancette che scivolano verso le cinque con lentezza sempre più agonizzante. Restiamo in silenzio. Milioni di lavoratori e lavoratrici in tutto il Paese aspettano quest’ora del venerdì per concludere la settimana lavorativa e iniziare quarantott’ore di meritato riposo insieme alla famiglia.
Ma sono ormai quattro giorni che io e Carolyn aspettiamo e facciamo progetti per questo esatto momento, senza sapere se sarà l’inizio o la fine di qualcosa, o tutt’e due.
Lunedì scorso, a mezzogiorno, ho ricevuto la chiamata sul mio cellulare personale. Io e Carolyn stavamo mangiando un sandwich al tacchino in cucina. Sapevamo già della minaccia incombente, ma ancora non ci eravamo resi conto della sua gravità. Non avevamo la più pallida idea di come reagire. La missione algerina era già fallita in modo spettacolare davanti agli occhi di tutti. Suliman Cindoruk rimaneva libero e alla macchia. Tutta la mia squadra per la sicurezza nazionale aveva dovuto accettare di testimoniare il giorno dopo, martedì, davanti alla commissione speciale della Camera.
Quando ho messo giù il sandwich per rispondere al telefono, tutto è cambiato. La dinamica era completamente invertita. Per la prima volta, avevo un piccolissimo seme di speranza, ma ero anche più spaventato che mai.
«11 maggio alle 17.00, ora della East Coast», mi è stato detto.
A mano a mano che l’orologio si avvicinava a quell’ora di quel giorno, non sono più riuscito a pensare ai sette bambini yemeniti polverizzati da una mia decisione sotto una pila di ceneri e macerie.
Ora penso soltanto a cosa sta per succedere al mio Paese e a come difenderlo nel migliore dei modi.
«Lei dov’è?» farfuglio.
«Non sono ancora le cinque. Arriverà.»
«Non puoi saperlo con certezza», dico ricominciando a camminare su e giù per la stanza. «Non puoi saperlo. Chiama.»
Prima che Carolyn possa farlo, le squilla il telefono e lei risponde di scatto. «Sì, Alex... lei... va bene, è sola, vero? Ok... non c’è problema, tu fa’ pure... tranquillo, basta che ci metti poco.» Rimette il telefono in tasca e mi guarda.
«È arrivata», dico.
«Sì, è già qui. La stanno perquisendo.»
Guardo fuori dalla finestra, il cielo è grigio e minaccia pioggia. «Che cosa vorrà mai dirmi, Carrie?»
«Vorrei proprio saperlo. Comunque vi terrò d’occhio.»
Le istruzioni che mi sono state date prescrivevano un incontro a quattr’occhi, senza possibili eccezioni. Quindi, fisicamente, nello Studio Ovale ci saremo solo io e la mia ospite, ma Carolyn controllerà tutto da un monitor nella Sala Roosevelt.
Oscillo in punta di piedi, sento tremare le mani. Lo stomaco è in piena rivolta. «Santo cielo, non ero così nervoso dai tempi di...» Non riesco a finire la frase. «In realtà credo di non essere mai stato così nervoso in vita mia.»
«Non si direbbe.»
Annuisco. «Neanche tu sembri sotto pressione.» Carolyn non mostra mai segni di debolezza. È fatta così. E in momenti come questi è davvero una fortuna, visto che è l’unica su cui posso contare. Oltre a me, è l’unica nel governo degli Stati Uniti a sapere dell’incontro.
Carolyn esce, e io resto in piedi dietro la scrivania, in attesa che JoAnn apra la porta alla mia visitatrice.
Dopo un tempo che sembra infinito, la lancetta dei secondi che procede al rallentatore, JoAnn finalmente arriva. «Signor presidente.»
Annuisco. Ci siamo. «Falla entrare.»