43.



A quaranta chilometri da Zurigo c'è la città di Menziken. Il treno che proveniva da Ginevra si fermò per quattro minuti esatti, il tempo previsto per caricare la posta, e poi riprese la sua corsa - inevitabile, esatta, puntuale come il destino - sui binari, verso la meta.

A cinque minuti da Menziken, due uomini mascherati fecero contemporaneamente irruzione negli scompartimenti D4 e D5 della carrozza di lusso numero sei. Dato che nessuno dei due scompartimenti conteneva dei passeggeri e che entrambe le porte delle toilette erano chiuse a chiave, gli uomini mascherati scaricarono le pistole nei sottili pannelli dei gabinetti, aspettandosi di trovare i corpi quando avessero aperto le porte.

Non trovarono nessuno. Niente.

Come fosse stato concertato in anticipo, entrambi gli uomini si precipitarono nello stretto corridoio e per poco non si scontrarono. «Alt! Fermi!» Le grida provenivano dalle due estremità del corridoio. Coloro che le lanciavano portavano l'uniforme della polizia ginevrina.

I due uomini mascherati non si fermarono, ma si misero a sparare selvaggiamente in entrambe le direzioni.

Gli spari vennero restituiti e i due uomini caddero.

Furono perquisiti; non si trovarono documenti d'identità. La polizia di Ginevra ne fu contenta. Non desiderava essere coinvolta.

Uno degli uomini, però, aveva un tatuaggio sull'avambraccio; un simbolo, di recente battezzato 'svastica'. E un terzo uomo, non visto, non mascherato, non caduto, fu il primo a scendere dal treno a Zurigo, e si precipitò verso un telefono.

«Eccoci ad Aarau. Potete fermarvi qui a riposare per un po'. I vostri abiti sono in un appartamento al secondo piano. Credo che la macchina sia parcheggiata sul retro e le chiavi siano sotto il sedile di sinistra.» Il loro autista era inglese e Canfield l'apprezzò. L'uomo non aveva detto una parola da Ginevra. Canfield tirò fuori una grossa banconota dalla tasca e gliela offrì.

«Non è necessario, signore» disse l'autista, allontanando con la mano la banconota senza girarsi.

Aspettarono fino alle otto e un quarto. Era una notte buia, con solo una mezza luna in cielo coperta da basse nubi. Canfield aveva provato la macchina, andando su e giù per una strada di campagna per arrivare ad abituarsi a guidare solo con la mano sinistra. L'indicatore della benzina segnava il pieno, e loro erano pronti.

Più precisamente, Elisabeth Scarlatti era pronta.

Era come un gladiatore, pronta a battersi all'ultimo sangue. Era fredda, ma piena di fervore. Era un'assassina.

E le sue armi erano di carta - infinitamente più pericolose per i suoi avversari di mazze o tridenti. Ed era anche, come dev'essere un bravo gladiatore, estremamente sicura di sé.

Era più che la sua ultima grande impresa: era il momento culminante di tutta una vita. La sua e di Giovanni. Non l'avrebbe abbandonato.

Canfield aveva studiato e ristudiato la carta; sapeva che strade doveva prendere per raggiungere la Falke Haus. Avrebbero rasentato il centro di Zurigo in direzione di Kloten per girare a destra al bivio di Schlieren e seguire la strada centrale verso Bulach. Dopo un chilometro e mezzo a sinistra, lungo la Winterthurstrasse, sarebbero apparsi i cancelli della Falke Haus.

Aveva spinto la macchina fino a centoquaranta all'ora, poi era sceso fino a cento nello spazio di quindici metri senza provocare la minima scossa ai sedili. Il Geheimpolizist di Ginevra aveva fatto un ottimo lavoro. Ma era anche stato pagato bene. Quasi l'equivalente di due anni di stipendio di un impiegato medio della pubblica amministrazione svizzera. E la macchina aveva una targa per cui nessuno poteva fermarla, per nessun motivo: quella della polizia di Zurigo. Come fosse stato possibile averla, Canfield non l'aveva chiesto. Elisabeth aveva insinuato che potessero entrarci i soldi.

«È tutto qui?» chiese Canfield mentre conduceva Elisabeth Scarlatti verso l'automobile. Si riferiva a quell'unica borsa per documenti.

«E sufficiente» disse la donna seguendolo per il vialetto.

«Ma aveva almeno duemila pagine, centomila cifre!»

«Ormai non hanno nessun significato.» Elisabeth tenne in grembo la borsa mentre Canfield chiudeva la portiera.

«E se le fanno delle domande?» Canfield inserì la chiave dell'accensione.

«Le faranno senz'altro. E in questo caso, risponderò.» La donna non desiderava parlare.

Viaggiarono per venti minuti senza sbagliare mai la strada. Canfield era contento di sé stesso. Era un navigatore soddisfatto. A un tratto Elisabeth parlò.

«C'è una cosa che non le ho detto, e che a lei non è sembrato il caso di tirar fuori. Ma è giusto che ora ne parli.»

«Che cosa?»

«E possibile che nessuno di noi due esca vivo da questo convegno. Ci ha pensato?» Canfield, naturalmente, ci aveva pensato. Aveva deciso di correre quel rischio, se era lecito definirlo così, fin dall'incidente di Boothroyd. Poi il rischio era cresciuto fino a diventare un grave pericolo da quando si era reso conto che Janet poteva essere sua per la vita. Il suo impegno era divenuto totale da quando aveva saputo cosa le aveva fatto il marito.

Con quella pallottola che gli aveva trapassato la spalla, a tre dita dalla morte, Matthew Canfield era diventato a modo suo un gladiatore, quasi come Elisabeth. Ora la sua rabbia era alle stelle.

«Lei si preoccupi dei suoi problemi, e io mi preoccuperò dei miei. Okay?»

«Okay... Posso dirle che lei mi è diventato molto caro... Oh, la smetta di fare quell'aria da bambino! La tenga in serbo per le signore! Io non sono una di loro! Su, pensi a guidare!» Sulla Winterthurstrasse, a cinquecento metri dalla Falke Haus, un tratto di strada diritta era fiancheggiato su entrambi i lati da pini torreggianti. Matthew Canfield schiacciò l'acceleratore e guidò la macchina alla massima velocità possibile. Mancavano cinque minuti alle nove ed era deciso a far si che la sua passeggera arrivasse in tempo all'appuntamento.

Improvvisamente, là in fondo, nella luce degli abbaglianti, apparve un uomo che faceva dei segnali. Agitava le mani, incrociandole sopra la testa, fermo in mezzo alla strada. Si sbracciava facendo il segnale universale: stop, emergenza. Non si mosse dal centro della strada nonostante la velocità a cui arrivava Canfield.

«Si regga!» Canfield continuò a correre, senza badare all'uomo.

E in quel mentre, da entrambi i lati della strada partirono colpi d'arma da fuoco. «Giù!» gridò Canfield. Continuò a pigiare il pedale dell'acceleratore, abbassandosi e tirando su la testa di scatto per guardare come meglio poteva la strada diritta davanti a lui. Ci fu un grido lacerante lanciato in una nota di morte - che proveniva dalla parte opposta della strada. Uno degli uomini appostati per l'imboscata era stato colpito dal fuoco incrociato.

Superarono la zona dell'agguato; sui sedili erano sparsi dappertutto frammenti di vetro e di metallo.

«Tutto a posto?» Canfield non aveva tempo per la compassione.

«Si. Sto bene. Quanto manca?»

«Non molto. Se riusciamo a farcela. Potrebbero aver colpito una gomma.»

«Anche in questo caso, possiamo sempre continuare, giusto?»

«Non si preoccupi! Non ho intenzione di fermarmi per chiedere un cric!» Apparvero i cancelli della Falke Haus e Canfield svoltò bruscamente nella strada. Era una leggera discesa che portava a un immenso spiazzo circolare davanti a un enorme portico di pietra con una collezione di statue disposte a pochi metri una dall'altra. L'ingresso principale, un grande portone di legno, era sette metri più in là dei gradini centrali. Canfield non potè avvicinarvisi perché c'era almeno una dozzina di lunghe limousine nere allineate attorno allo spiazzo. In piedi vicino a esse, gli autisti chiacchieravano oziosamente.

Canfield controllò la sua rivoltella, se la mise nella tasca destra e ordinò a Elisabeth di scendere dalla macchina. Insistè perché scivolasse lungo il sedile per uscire dal suo lato dell'automobile.

S'incamminò un poco dietro di lei, facendo un cenno col capo agli autisti.

Erano le nove e un minuto quando un servitore in livrea aprì il grande portone di legno.

Entrarono nel vasto atrio, un imponente tabernacolo di compiacimento architettonico. Un secondo servitore, pure in livrea, li condusse verso un'altra porta e l'aprì.

. Dietro quella porta c'era il più lungo tavolo che Matthew Canfield avesse mai pensato si potesse costruire. Doveva misurare quindici metri da un capo all'altro. E due metri buoni nel senso della larghezza.

Seduti attorno al grande tavolo c'erano quindici o venti uomini.

Di tutte le età, tra i quaranta e i settantanni. Tutti con abiti costosi. E tutti che guardavano verso Elisabeth Scarlatti. A capotavola, a metà sala di distanza, c'era una sedia vuota. Chiedeva a gran voce d'essere occupata, e per un attimo Canfield si chiese se toccava a Elisabeth. Poi si rese conto che non era così. La sedia per lei era all'estremo del tavolo più vicino a loro.

Chi doveva sedersi su quella sedia vuota?

Pazienza. Per lui non c'erano sedie. Sarebbe restato in piedi accanto al muro a guardare.

Elisabeth si avvicinò al tavolo.

«Buonasera, signori. Molti di noi hanno già avuto occasione di incontrarsi. Quanto agli altri, li conosco di fama, ve lo posso assicurare.» L'intero gruppo attorno al tavolo si alzò come un sol uomo. L'uomo a sinistra del posto di Elisabeth girò intorno alla sedia e gliela scostò.

Elisabeth si sedette, e gli uomini ritornarono ai loro posti.

«Vi ringrazio... Ma sembra che manchi una persona.» Elisabeth fissò la sedia a quindici metri di distanza, esattamente di fronte ai suoi occhi.

In quel momento si aprì una porta dalla parte opposta della stanza, ed entrò un uomo alto, avanzando impettito. Indossava l'elegante, fredda uniforme da rivoluzionario tedesco. La camicia marrone scuro, il cinturone nero lucente di traverso sul petto e attorno alla vita,! calzoni da cavallerizzo rigidi color biscotto, gli stivaloni che gli arrivavano appena sotto le ginocchia.

L'uomo aveva la testa rasata, e il suo viso era la copia deformata di sé stesso.

«Ecco, ora la sedia è occupata. È soddisfatta?»

«Non completamente... Dal momento che conosco, in un modo o nell'altro, ogni persona importante seduta a questo tavolo, amerei sapere chi è lei, signore.»

«Kroeger. Heinrich Kroeger! Desidera sapere altro, madame Scarlatti?»

«No, nient'altro. Nient'altro... Herr Kroeger.»



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