6.



Matthew Canfield, ispettore contabile, era sdraiato sul letto del suo scompartimento di lusso e fumava il penultimo sigarino del suo pacchetto. Sulla New York - Chicago Limited non avevano sigarini, perciò aspirava ogni boccata di fumo con una certa sofferenza.

Avrebbe raggiunto New York il mattino presto, sarebbe trasbordato sul primo treno per il Sud, e sarebbe arrivato a Washington prima dell'ora stabilita. Ciò avrebbe fatto un'impressione migliore su Reynolds che se fosse arrivato di sera. Avrebbe dimostrato che lui, Canfield, era capace di chiudere velocemente un problema, senza lasciare niente in sospeso. Certo, col suo attuale incarico non era difficile. L'aveva portato a termine alcuni giorni prima, ma era rimasto a Chicago come ospite del senatore al quale aveva dovuto chiedere spiegazioni riguardo all'assegnazione di stipendi a impiegati inesistenti.

Si domandava perché l'avevano richiamato a Washington. Si era sempre domandato perché lo richiamavano. Forse perché era fermamente convinto che non si trattasse mai solo di un altro lavoro, ma piuttosto che un giorno o l'altro, in un modo nell'altro, Washington avrebbe scoperto chi era.

L'avrebbero affrontato. Con le prove.

Ma era improbabile. Non era successo. Matthew Canfield era un professionista - poco importante, doveva riconoscerlo - ma sempre un professionista. E non aveva rimpianti di sorta. Aveva diritto a ogni soldo che riusciva a raccattare.

Perché no? Non aveva mai preso molto. E lui e sua madre meritavano qualcosa. Era stato un tribunale federale di Tulsa, nell'Oklahoma, che aveva affisso l'avviso dello sceriffo sul negozio di suo padre. Un giudice federale che aveva decretato: bancarotta involontaria. Il governo federale non aveva voluto sentire altre spiegazioni da suo padre salvo quella che non aveva la possibilità di pagare i debiti.

Per un quarto di secolo un uomo poteva lavorare, tirar su una famiglia, mandare un figlio all'università di Stato - tutti quei sogni realizzati - solo per essere distrutto da un unico colpo di un martelletto di legno su una piccola lastra di marmo in un'aula di tribunale.

Canfield non aveva rimpianti.

«Ha un nuovo lavoro per il suo curriculum, Canfield. Le procedure sono semplici. Non è difficile.»

«Bene, signor Reynolds. Sempre pronto.»

«Si. Lo so che lo è... Comincerà fra tre giorni al molo trentasette di New York. Dogana. Le darò tutte le informazioni che posso.» Ma, naturalmente, Benjamin Reynolds non informò Matthew Canfield con la completezza con cui avrebbe potuto farlo. Reynolds voleva che fosse Canfield a riempire gli spazi che lui aveva lasciato in bianco. Il padrone Scarlatti operava dai moli della West Side dai numeri intermedi -quello lo sapevano. Ma qualcuno doveva vederlo. Qualcuno doveva identificarlo. Senza che glielo dicessero.

Questo era molto importante.

E se c'era qualcuno che poteva farlo, era un tipo come Matthew Canfield, che sembrava essere attratto dagli inferi della tangente, della corruzione, delle operazioni losche.

E lui lo fece.

Nel turno di notte del 3 gennaio del 1925.


***

 

Matthew Canfield, ispettore doganale, controllò le fatture del piroscafo Genoa-Stella e fece segno all'allarmato caposquadra di incominciare a scaricare le casse di lana di Biella dalla stiva uno.

E poi accadde.

Dapprima una discussione. Poi una rissa con gli uncini.

L'equipaggio della Genoa-Stella non tollerava una violazione delle procedure di scarico. Gli ordini li prendeva da qualcun altro. Certamente non dai doganieri americani.

Due casse furono scaraventate a terra dalle gru, e sotto l'imballo di paglia la puzza dell'alcol era inconfondibile. Tutti gli addetti al molo restarono di ghiaccio. Alcuni uomini corsero alle cabine del telefono e un centinaio di corpi scimmieschi sciamò attorno alle casse, pronto a respingere gli intrusi coi loro uncini.

La prima discussione fu dimenticata. La colluttazione fu dimenticata.

Il contrabbando era la loro fonte di sussistenza, e si sarebbero fatti ammazzare per difenderla.

Canfield, ch'era corso su per le scale alla cabina di vetro che sovrastava il molo, osservò quella folla inferocita. Incominciò una gara di urla tra gli uomini sulla banchina di scarico e i marinai della Genoa-Stella. Per quindici minuti gli avversari si gridarono contro, accompagnando le urla con gesti osceni. Ma nessuno tirò fuori un'arma. Nessuno lanciò un uncino o un coltello. Stavano aspettando.

Canfield si accorse che nessuno nell'ufficio della dogana faceva una mossa per chiamare le autorità.

«Per l'amor di Dio! Chiamate la polizia!» I quattro uomini che si trovavano nella stanza con Canfield non reagirono.

«Mi avete sentito? Chiamate la polizia!» Ancora silenzio da parte di quegli uomini terrorizzati che indossavano l'uniforme da doganiere.

Finalmente uno parlò. S'avvicinò a Matthew Canfield, guardando, oltre la parete di vetro, l'esercito di gangster là sotto. «Nessuno chiamerà la polizia, giovanotto. Non se vuol farsi vedere al porto domani.»

«Come in qualsiasi altro luogo» aggiunse un altro, che si sedette tranquillamente e raccolse un giornale da una piccola scrivania.

«Perché no? Qualcuno laggiù potrebbe essere ammazzato!»

«La sistemeranno da soli» disse il doganiere più anziano.

«Da che porto viene, poi? Erie? Doveva avere delle regole diverse. Le regole del traffico mercantile sui laghi sono diverse...»

«Queste sono cazzate!» Un terzo uomo si avvicinò a Canfield. «Senti, idiota, vedi di badare ai fatti tuoi, okay?»

«Che razza di discorsi sono questi? Dico, che razza di discorsi sono questi?»

«Vieni qui, idiota.» Il terzo uomo, il corpo magro e il viso lungo che parevano smarriti nella larga uniforme, prese Canfield per il gomito e lo condusse in un angolo. Gli altri finsero di non vederli ma continuarono a lanciare rapidi sguardi furtivi ai due. Erano curiosi, persino preoccupati. «Hai moglie e figli?» domandò piano l'uomo magro.

«No. E allora?»

«Noi si. E questo il fatto.» L'uomo magro infilò la mano in tasca e ne tirò fuori alcune banconote. «Ecco. Qui ci sono sessanta carte... Basta che non fai casino, huh? Chiamare la polizia non servirebbe a niente comunque... Ti sgancerebbero.»

«Gesù! Sessanta dollari!»

«La paga di due settimane, ragazzo. Fa' una festa.»

«Okay... Okay, lo farò.»

«Ecco che arriva, Jesse.» L'uomo più anziano accanto alla finestra parlò a voce bassa all'uomo vicino a Canfield.

«Vieni un po', idiota. Fatti un'istruzione» disse l'uomo che gli aveva dato i soldi, guidando Canfield alla finestra che guardava sull'interno del molo.

Giù all'entrata dell'imbarco, Canfield vide due grosse macchine ferme. Alcuni uomini con dei soprabiti scuri erano usciti dalla prima macchina e camminavano verso il gruppo di scaricatori che circondavano le casse danneggiate.

«Cosa stanno facendo?»

«Sono gangster, ragazzo» rispose la guardia chiamata Jesse. «In servizio.»

«Cioè?»

«Hah!» Una risata gutturale provenne dall'uomo seduto alla piccola scrivania col giornale in mano.

«Controllano cosa dev'essere messo a posto. Anzi, chi!» Gli uomini coi soprabiti - cinque in tutto - cominciarono ad accostarsi ai vari stivatori e a parlare a voce bassa. Guancia a guancia, pensò Canfield. A qualcuno diedero spintoni scherzosi e colpetti sul collo robusto. Erano come dei guardiani dello zoo che calmano i loro animali. Due di loro salirono sulla passerella ed entrarono nella nave. Il capo, che portava un feltro bianco con la tesa rivoltata all'insu ed era ormai la figura centrale delle tre che erano rimaste sul molo, guardò prima verso le automobili poi su verso la cabina di vetro. Fece un cenno con la testa e s'avviò per le scale. La guardia, Jesse, parlò.

«Me ne occupo io. Nessuno si muova.» Aprì la porta e attese sulla piattaforma d'acciaio l'uomo dal feltro bianco.

Canfield riusciva a vedere attraverso il vetro i due uomini che parlavano. L'uomo dal feltro bianco sorrideva, era persino ossequioso. Ma c'era una luce dura nei suoi occhi, una luce grave. Poi parve preoccupato, arrabbiato, e i due uomini guardarono nell'ufficio.

Guardarono Matthew Canfield.

E Jesse aprì la porta. «Tu. Cannon. Mitch Cannon, vieni.» E sempre più comodo usare un nome falso con le proprie iniziali.

Canfield uscì sulla piattaforma d'acciaio mentre l'uomo dal feltro bianco scendeva le scale verso la base di cemento del molo.

«Scendi e firma i documenti della visita di controllo.»

«Neanche per sogno, amico!»

«T'ho detto di scendere a firmare quelle carte! Vogliono essere sicuri che sei pulito.» Poi Jesse sorrise. «Ci sono qui i capoccia... Avrai un altro piccolo dividendo... Ma io mi becco il cinquanta per cento, capisci?»

«Sì» disse Canfield, riluttante. «Capisco.» S'avviò giù per la scala guardando l'uomo che lo stava aspettando.

«E nuovo di qui, eh?»

«Già.»

«Da dove viene?»

«Dal lago Erie. Gran movimento sull'Erie.»

«Cosa trattava?»

«Roba canadese. Che altro? Buono quel whisky canadese.»

«Noi importiamo lana! Lana di Biella!»

«Si, certo, amico. Sull'Erie sono pelli, stoffe...» Canfield strizzò l'occhio all'ufficiale subalterno del porto. «Un bell'imballaggio morbido, eh?»

«Senti, bello. Qui non ci servono i tipi che la sanno lunga.»

«Okay... Come ho detto. Lana.»

«Vieni dai dirigenti del traffico... Firmerai per i carichi.» Canfield andò con l'omone al gabbiotto dei dirigenti del traffico, dove un secondo uomo gli gettò una cartelletta piena di fogli.

«Scriva chiaro e segni data e ora esatte!» ordinò l'uomo che stava nella cabina.

Dopo che Canfield ebbe obbedito, il primo uomo parlò. «Okay... Vieni con me.» E condusse Canfield alle automobili. Il contabile poteva vedere due uomini che parlavano sul sedile posteriore della seconda vettura. Nella prima macchina non c'era più nessuno a parte l'autista. «Aspetta qui.» Canfield si domandò perché l'avevano scelto. Qualcosa era andato storto a Washington? Non c'era stato abbastanza tempo perché qualcosa andasse storto.

C'era agitazione sulla banchina. I due gorilla che erano saliti a bordo della nave stavano scortando giù per la passerella un uomo in uniforme. Canfield vide che si trattava del capitano della Genoa-Stella.

L'uomo dal feltro bianco ora stava accostato al finestrino e parlava con i due uomini nella seconda macchina. Non avevano notato il rumore che veniva dalla banchina. L'omone aprì la portiera della macchina, da cui uscì un italiano basso di statura, bruno. Non era alto più di un metro e sessanta.

Il piccoletto fece cenno all'ispettore contabile di avvicinarsi. Infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori un portafogli da cui prese alcune banconote. Parlava con un forte accento. «Lei è nuovo?»

«Si, signore.»

«Viene dal lago Erie? Vero?»

«Si, signore.»

«Come si chiama?»

«Cannon.» L'italiano guardò l'uomo dal feltro bianco.

Quello si strinse nelle spalle. «Non lo conosco...»

«Ecco qua.» Porse a Canfield due biglietti da cinquanta dollari. «Farà il bravo ragazzo... Noi ci prendiamo cura dei bravi ragazzi, non è vero, maggiore? Ci prendiamo cura anche di quelli che non sono tanto bravi... Capisce?»

«Naturalmente! Grazie mol...» Il contabile non finì la frase. I due uomini che scortavano il capitano della Genoa-Stella avevano raggiunto la prima automobile. Ora lo tenevano con la forza, lo spingevano avanti contro la sua volontà.

«Lasciatemi! Lasciatemi! Maiali!» Il capitano cercò di liberarsi dalla stretta dei due criminali. Si dimenò dando spallate avanti e indietro, ma inutilmente.

Il piccolo italiano tirò da parte Canfield mentre i due gorilla gli portavano il capitano. L'ufficiale e i due che lo sequestravano incominciarono a gridare tutti insieme. L'italiano ascoltava e fissava il capitano.

E poi l'altro uomo, quello ch'era rimasto sul sedile posteriore della seconda macchina, si sporse in avanti verso il finestrino, seminascosto nell'ombra.

«Cosa succede? Perché strillano, Vitone?»

«A questo comandante non piace la nostra maniera di lavorare, padrone. Dice che non ci lascerà scaricare nient'altro.»

«Perché no?»

«Si rifiuta!» gridò il capitano, intuendo quello che si diceva anche se non capiva le parole.

«Dice che non vede nessuno che conosce. Dice che non abbiamo nessun diritto sulla sua nave! Vuole fare una telefonata!»

«Ma certo» disse con tono pacato l'uomo nell'ombra. «Immagino chi vuole chiamare.»

«E lo lascerà?» chiese il piccolo italiano.

«Non essere stupido, Vitone... Parlagli gentilmente. Sorridi. Fate segno a quelli della nave. Tutti! Quella è una polveriera, imbecilli! Fategli credere che va tutto bene.»

«Certo. Certo, padrone.» Tutti loro risero e agitarono le mani, tranne il capitano, che cercava furiosamente di liberarsi le braccia. L'effetto era comico, e Canfield stava quasi lasciandosi andare a un sorriso quando s'accorse che il volto nel finestrino era ormai in piena vista. L'ispettore vide che era un bel viso - eccezionale, a essere più precisi. Sebbene fosse un po' nascosto dall'ampia tesa del cappello, Canfield notò che i lineamenti erano marcati, aquilini, decisi. Il particolare che più colpì il contabile furono gli occhi.

Erano occhi azzurro chiaro. Eppure l'avevano chiamato 'padrone' in italiano. Canfield immaginò che ci fossero degli italiani con gli occhi azzurri, lui però non ne aveva mai visti. Era insolito.

«Cosa facciamo, padrone?» domandò il piccoletto che aveva dato i cento dollari a Canfield.

«Che altro, bello? È ospite del nostro Paese, no? Sii gentile, Vitone... Porta fuori il capitano e lascialo... fare le sue telefonate.» Poi l'uomo dagli occhi celesti abbassò la voce. «E uccidilo!» Il piccolo italiano fece un leggero cenno con la testa in direzione dell'entrata del molo. I due uomini ai lati dell'ufficiale in divisa lo spinsero avanti, fuori della grande porta, nel buio della notte.

«Chiama i nostri amici...» disse il killer alla destra del capitano.

Ma il capitano resisteva. Una volta fuori, nella fioca luce che si spandeva dalla porta, Canfield potè vedere che incominciava a scagliarsi violentemente con tutto il corpo contro la sua scorta finché l'uomo a sinistra non perse l'equilibrio. Il capitano allora colpì l'altro con entrambi i pugni, gridandogli in italiano.

L'uomo ch'era stato spinto lontano riprese l'equilibrio e tirò fuori qualcosa dalla tasca. Canfield non riusciva a distinguerne la forma.

Poi vide cos'era.

Un coltello.

L'uomo dietro al capitano lo affondò nella schiena scoperta dell'ufficiale.

Matthew Canfield abbassò la visiera del suo berretto da doganiere e prese ad allontanarsi dalle automobili. Camminava lentamente, con aria disinvolta.

«Ehi! Tu! Tu! Doganiere!» Era l'uomo dagli occhi azzurri sul sedile posteriore.

«Tu! Lago Erie!» gridò il piccolo italiano.

Canfield si girò. «Non ho visto niente. Proprio niente. Niente!» Cercò di sorridere, ma non ci riuscì.

L'uomo dagli occhi celesti fissò Canfield che guardava di traverso e si tormentava la faccia sotto la visiera del berretto. Il piccolo italiano fece cenno col capo all'autista della prima macchina.

L'autista uscì dall'auto e si portò alle spalle dell'ispettore contabile.

«Portalo fuori vicino all'acqua! Niente fucile! Corteddo!» disse il piccoletto.

L'autista spinse Canfield per il fondo della schiena verso l'entrata del molo. «Ehi, andiamo! Non ho visto niente! Cosa volete da me! Insomma, per l'amor del cielo!» Matthew Canfield non aveva bisogno di ricevere una risposta. Sapeva esattamente cosa volevano da lui. La sua insignificante vita.

L'uomo dietro di lui continuava a spingere, a mandarlo avanti a gomitate. Attorno all'edificio. Lungo il lato deserto del molo.

Due topi sgattaiolarono via qualche metro davanti a Canfield e al suo carnefice. Si riusciva a sentire il rumore crescente dei tafferugli anche dietro le mura della zona di imbarco. Lo Hudson sciabordava contro gli enormi piloni della banchina.

Canfield si fermò. Non sapeva bene perché, ma non poteva continuare semplicemente a camminare. La morsa che aveva nello stomaco era la morsa della paura.

«Muoviti, su! Continua a camminare!» disse l'uomo, ficcandogli una rivoltella nelle costole.

«Ascoltami.» Canfield aveva bell'e rinunciato a fare la voce dura. «Sono un uomo del governo! Se mi fai qualcosa, ti prenderanno! Non avrai nessuna protezione dai tuoi amici quando scopriranno...»

«Cammina!» La sirena di una nave suonò in mezzo al fiume. Un'altra rispose.

Poi attaccò un lungo, stridulo, penetrante fischio. Veniva dalla Genoa-Stella. Era un segnale, un segnale disperato, che non smetteva. L'intensità di quel fischio spaccava i timpani.

Ma distrasse - com'era inevitabile - l'uomo accanto a Canfield.

Il contabile gli sferrò un colpo al polso e lo strinse, lo torse con tutta la sua forza. L'altro riuscì ad arrivare alla faccia di Canfield e gli piantò le unghie sotto gli occhi mentre lo spingeva verso la parete di acciaio dell'edificio. Canfield strinse il polso sempre più forte e poi con l'altra mano afferrò l'uomo per il soprabito e lo trascinò con sé verso la parete - la stessa direzione in cui spingeva quello - voltandosi all'ultimo momento così che il suo boia sbatté contro l'acciaio.

Al siciliano sfuggì di mano la pistola e Canfield gli assestò una tremenda ginocchiata nell'inguine.

L'italiano emise un grido gutturale di spasmodico dolore. Canfield lo scagliò a terra e l'uomo si lanciò, torcendosi, attraverso il ponte, verso l'orlo della banchina, raggomitolato per il dolore. Il contabile gli afferrò la testa e la sbatté ripetutamente contro lo spesso legno. La pelle si ruppe e il sangue uscì a fiotti dal cranio dell'uomo.

Fu tutto finito in meno di un minuto.

Il killer di Matthew Canfield era morto.

Il fischio della Genoa-Stella era diventato ormai un urlo lacerante. Le grida che provenivano dalla zona di carico del molo avevano raggiunto un crescendo.

Canfield pensò che l'equipaggio della nave si fosse apertamente sollevato, che avesse preteso di ricevere ordini dal suo capitano e, non vedendolo arrivare, avesse immaginato che l'avevano ammazzato, o almeno sequestrato.

Si udirono dei colpi d'arma da fuoco, uno dopo l'altro. Lo staccato di un mitra, poi ancora urla, ancora grida di terrore.

L'ispettore contabile non poteva ritornare sul davanti dell'edificio, e senza dubbio qualcuno sarebbe venuto fuori a cercare il suo boia.

Fece rotolare il corpo del siciliano morto oltre l'orlo della banchina e udì il tonfo nell'acqua.

Il fischio della Genoa-Stella cessò. Le grida cominciarono a spegnersi. Qualcuno aveva preso il controllo. E all'altro capo del molo apparvero due uomini. Chiamarono: «La Tona! Ehi, La Tona! La Tona...» Matthew Canfield si gettò nelle luride acque dello Hudson e cominciò a nuotare come meglio poteva, data la pesante uniforme da doganiere, verso il centro del fiume.

«Lei è un tipo molto fortunato!» disse Benjamin Reynolds.

«Lo so, signore. E felice che sia finita.»

«Non siamo tenuti a fare questo genere di cose, mi rendo conto. Si prenda una settimana di libertà. Si riposi.»

«Grazie, signore.»

«Glover sarà qui tra pochi minuti. E ancora un po' presto.» Effettivamente lo era. Erano le sei e un quarto del mattino; Canfield non aveva raggiunto Washington prima delle quattro e aveva paura di tornare nel suo appartamento. Aveva telefonato a Reynolds a casa, e questi gli aveva ordinato di andare agli uffici del Gruppo Venti e di aspettarlo li.

La porta più esterna si aprì e Reynolds chiamò: «Glover? Sei tu?»

«Si, Ben. Gesù! Non sono ancora le sei e mezzo... Una notte d'inferno. Abbiamo da noi i bambini di mio figlio.» La voce era stanca, e quando Glover raggiunse la porta di Reynolds, fu chiaro che l'uomo era anche più stanco... «Salve, Canfield. Cosa diavolo le è successo?» L'ispettore contabile Matthew Canfield raccontò l'intera storia.

Quand'ebbe finito, Reynolds parlò a Glover. «Ho telefonato alla dogana del lago Erie - il suo schedario del personale è stato tolto. I ragazzi di New York hanno rovistato ogni angolo della sua stanza lassù. Non era stata toccata. C'è qualche altra operazione d'appoggio di cui dobbiamo preoccuparci?» Glover ci pensò su un istante. «Si. Probabilmente... in caso cerchino di mettere le mani sulle schede del personale del lago Erie - e lo faranno - bisogna mettere in giro la voce al porto che Canfield... Cannon... era un nome falso per uno spacciatore... Che è stato raggiunto a Los Angeles, o a San Diego, o dove ti pare, e fatto fuori. Me ne occuperò io.»

«Bene... Ora, Canfield, le mostrerò alcune fotografie. Senza alcun commento da parte mia... Veda se riesce a identificarli.» Benjamin Reynolds andò a uno schedario e l'aprì. Prese una cartelletta e tornò alla sua scrivania. «Ecco qui.» Tirò fuori cinque fotografie - tre ingrandimenti tratti dai giornali e due foto segnaletiche.

Canfield ci mise meno di un secondo, come le ebbe sotto gli occhi: «E lui! E questo quello che il piccolo italiano chiamava padrone!»

«Il padrone Scarlatti» disse tranquillo Glover.

«L'identificazione è assolutamente sicura?»

«Certo... E se ha gli occhi azzurri, è sicura come il Vangelo.»

«Potrebbe giurarlo in tribunale?»

«Certamente.»

«Ehi, Ben, via!» intervenne Glover, che sapeva che una simile azione da parte di Matthew Canfield equivaleva a una condanna a morte.

«Chiedevo solo.»

«Chi è?» disse Canfield.

«Si. Chi è? Cos'è? Non sono sicuro di dover rispondere neanche alla prima domanda, ma se lei lo scoprisse in qualche altro modo - e non le sarebbe difficile - potrebbe essere pericoloso.» Reynolds girò le fotografie. C'era un nome scritto in stampatello molto marcato con del gessetto nero.

«Ulster Stewart Scarlett, nato Scarlatti» lesse a voce alta il contabile. «S'è guadagnato una medaglia in guerra, vero? Un miliardario.»

«Si, esatto» rispose Reynolds. «Quest'identificazione deve rimanere segreta. E intendo assolutamente segreta! Siamo d'accordo?»

«Certamente.»

«Pensa che qualcuno dell'altra notte potrebbe riconoscerla?»

«Non credo. La luce era scarsa e avevo la faccia per metà nascosta dal berretto, inoltre ho cercato di parlare come uno della mala... No, non credo.»

«Bene. Ha fatto un bel lavoro. Vada a dormire un po'.»

«Grazie.» Il contabile se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé.

Benjamin Reynolds guardò le foto sulla sua scrivania. «Il padrone della Scarlatti, Glover.»

«Girala al Tesoro. Hai in mano tutto quello di cui hai bisogno.»

«Non penserai... Non abbiamo in mano un accidente, a meno che tu non voglia consegnare Canfield alla sua tomba... E anche supponendo questo, che cos'abbiamo? Scarlett non rilascia assegni... E 'stato osservato in compagnia di... È stato sentito dare un ordine... A chi? Con la testimonianza di chi? Un piccolo impiegato del governo contro il mondo del famoso eroe della guerra? Il figlio di Scarlatti? No, tutto ciò che abbiamo in mano è una minaccia... E forse è sufficiente.»

«Chi minaccerà?» Benjamin Reynolds s'appoggiò all'indietro sulla sedia e premette le punte delle dita le une contro le altre. «Io... Io parlerò con Elisabeth Scarlatti... Voglio sapere perché.»



 ***