16.
Matthew Canfield si appoggiò contro l'edificio all'angolo sudorientale della Quinta Strada con la Sessantatreesima, a quaranta metri circa dall'imponente ingresso della dimora Scarlatti. Si avvolse ben stretto nell'impermeabile per ripararsi dal freddo portato dalla pioggia autunnale e guardò l'orologio: mancavano dieci minuti alle sei. Era rimasto al suo posto di guardia per più di un'ora. La ragazza era entrata alle cinque meno un quarto; e, per quel che ne sapeva lui, si sarebbe trattenuta fino a mezzanotte, o, Dio non volesse, fino al mattino. Canfield aveva stabilito che gli venisse dato il cambio alle due, se non fosse successo nulla per quell'ora. Non aveva motivi particolari per pensare che sarebbe successo qualcosa entro quell'ora, ma il suo istinto gli diceva altrimenti. Dopo cinque settimane passate a studiare i suoi soggetti, lasciò che la sua immaginazione riempisse gli spazi preclusi all'osservazione. La vecchia signora si sarebbe imbarcata due giorni dopo, e non avrebbe portato nessuno con sé. Il suo cordoglio per il figlio scomparso o morto era internazionalmente noto. Il suo dolore era argomento di innumerevoli articoli di giornale. Tuttavia, la vecchia signora nascondeva bene la sua pena e badava ai propri affari.
La moglie di Scarlett era diversa. Se piangeva il suo scomparso marito, non lo lasciava vedere. Ciò che invece si vedeva benissimo era che non credeva che Ulster Scarlett fosse morto. Cos'è che aveva detto al bar del circolo sportivo di Oyster Bay? Sebbene la sua voce fosse arrochita dal whisky, la sua affermazione era stata chiara. La mia cara suocera è convinta di saperla lunga. Spero che la nave affondi! Lo troverà.
Quella sera era in corso un confronto fra le due donne, e Matthew Canfield avrebbe desiderato essere presente.
La pioggerellina stava cessando. Canfield decise di appostarsi dall'altra parte della Quinta Strada, quella che confina col parco.
Estrasse un giornale dalla tasca dell'impermeabile, lo stese sulla panchina di legno a listelli davanti al muro del Central Park, e si mise a sedere. Un uomo e una donna si fermarono davanti ai gradini d'ingresso della casa della vecchia signora. Ormai era decisamente buio, e Matthew non riusciva a vedere chi erano. La donna stava spiegando animatamente qualcosa, mentre l'uomo sembrava non ascoltare, occupandosi piuttosto di tirar fuori l'orologio dalla tasca per controllare l'ora. Canfield guardò di nuovo il suo orologio e osservò che mancavano due minuti alle sei. Si alzò lentamente e cominciò a riattraversare la strada con calma. L'uomo andò verso il bordo del marciapiede per guardare l'orologio alla luce del lampione. La donna continuava a parlare.
Canfield vide - cosa che non lo stupì affatto - che si trattava del fratello maggiore di Ulster, Chancellor Drew Scarlett, e di sua moglie Allison.
Continuò a camminare verso est lungo la Sessantatreesima, mentre Chancellor prese la moglie per il gomito e la fece marciare su per i gradini fino al portone di casa Scarlatti. Appena raggiunse Madison Avenue, Canfield udì un forte fragore. Si voltò e vide che il portone della casa di Elisabeth Scarlatti era stato aperto con tale violenza che l'urto contro un'invisibile parete echeggiò in tutta la strada.
Janet Scarlett scese di corsa gli scalini di cotto, inciampò, si rialzò e si diresse zoppicando verso la Quinta Strada. S'era fatta male, e poteva essere proprio il momento giusto.
L'ispettore contabile era a meno di trenta metri dalla moglie di Ulster Scarlett quando una spider, una lucida Pierce-Arrow nera, arrivò a tutta velocità lungo l'isolato. La macchina girò accostandosi al bordo del marciapiede dov'era la giovane donna.
Canfield rallentò il passo e guardò. Riuscì a vedere la persona alla guida della spider sporgersi verso il finestrino opposto. La luce del lampione splendeva direttamente sul suo viso. Era un bell'uomo di poco più di cinquant'anni, con un paio di folti baffi perfettamente lisciati. Sembrava essere il tipo d'uomo che Janet Scarlett poteva conoscere. Canfield ebbe la netta impressione che quell'individuo fosse rimasto ad aspettare - come in effetti era - Janet Scarlett.
Improvvisamente l'uomo arrestò la macchina, spalancò la portiera, e uscì veloce in strada. Girando attorno alla macchina, raggiunse la donna.
«Qui, signora Scarlett. Salga.» Janet Scarlett si piegò per stringersi il ginocchio ferito. Levò lo sguardo, sconcertata, sull'individuo dai baffi impomatati che le si avvicinava. Canfield si fermò. Restò nell'ombra vicino a un portone.
«Cosa? Lei non è un tassista... No. Non la conosco...»
«Salga! La porterò a casa. Su, svelta!» L'uomo parlava con tono perentorio. Una voce agitata. Afferrò il braccio di Janet Scarlett.
«No! No, non voglio!» Lei cercò di liberare il braccio.
Canfield uscì dall'ombra. «Salve, signora Scarlett. Mi pareva che fosse lei. Posso esserle d'aiuto?» L'uomo azzimato lasciò la ragazza e fissò Canfield. Oltre che arrabbiato, sembrava confuso. Invece di parlare, però, improvvisamente tornò di corsa in strada saltando in macchina.
«Ehi, aspetti un momento, signore!» Il contabile si precipitò sul bordo del marciapiede e afferrò la maniglia della portiera. «Veniamo con lei...» Il motore accelerò e la spider partì a razzo scaraventando a terra Canfield, che si ferì la mano che ancora stringeva la maniglia della portiera.
Canfield si rialzò con fatica e parlò a Janet Scarlett.
«Il suo amico è un tipo piuttosto rozzo.» Janet Scarlett guardò il contabile con gratitudine.
«Non l'ho mai visto prima d'ora... Almeno, non mi pare... Forse... Mi dispiace doverlo dire, ma non ricordo il suo nome. Sono spiacente e la ringrazio davvero.»
«Non c'è bisogno che si scusi. Ci siamo visti solo una volta. Al club di Oyster Bay un paio di settimane fa.»
«Oh!» Pareva che la donna non desiderasse ricordare quella serata.
«Ci ha presentato Chris Newland. Il mio nome è Canfield.»
«Ah, si.»
«Matthew Canfield. Sono quello di Chicago.»
«Si, ora ricordo.»
«Venga. Le trovo un taxi.»
«La sua mano sanguina.»
«Anche il suo ginocchio.»
«È solo un graffio.»
«Anche per me. È solo scorticata. Sembra più brutto di com'è.»
«Forse dovrebbe andare da un medico.»
«Tutto quello che mi serve è un fazzoletto e un po' di ghiaccio. Il fazzoletto per la mano, il ghiaccio per uno scotch.» Raggiunsero la Quinta Strada e Canfield chiamò un taxi. «Queste sono tutte le cure mediche di cui ho bisogno, signora Scarlett.» Janet Scarlett sorrise esitante mentre montavano sul taxi. «Se è così, gliele posso dare io.» La sala d'ingresso della casa degli Scarlett sulla Cinquantaquattresima era all'incirca come se l'era immaginata Canfield. I soffitti erano alti, il portone pesante, e la scala di fronte all'entrata saliva maestosa per due piani. C'erano specchi antichi su entrambi i lati della sala, e doppie porte a vetri accanto a ogni specchio che si fronteggiavano sui due lati dell'ingresso. Le porte sulla destra erano aperte e Canfield riuscì' a scorgere il classico arredamento di una sala da pranzo formale. Le porte sulla sinistra erano chiuse, ed egli pensò che dessero accesso a una stanza di soggiorno. Costosi tappeti orientali erano disposti sui pavimenti a parquet... Era tutto come doveva essere. Invece, quello che scandalizzò il contabile fu lo schema cromatico della stessa sala. La tappezzeria era di damasco rosso carico - troppo carico - e le tende che coprivano le porte a vetri erano nere - di un pesante velluto nero, che stonava con la ricercata delicatezza dei mobili francesi.
Janet Scarlett notò la sua reazione ai colori, e prima che lui potesse dissimularla, disse: «È un po' un pugno nell'occhio, vero?».
«Non avevo notato» rispose educatamente Canfield.
«Mio marito ha insistito per quell'orrendo rosso e poi ha sostituito tutte le mie sete rosa con quelle mostruose tende nere. Mi ha fatto una scenata quando ho sollevato delle obiezioni.» Janet aprì le doppie porte e avanzò nel buio per accendere una lampada da tavolo.
Canfield la seguì nel salotto straordinariamente sontuoso. Era grande quanto quattro campi di squash, e il numero di divani, sofà e poltrone era impressionante. Lampade frangiate si stagliavano sopra a tavolini sistemati opportunamente vicino ai posti a sedere. La disposizione dei mobili era asimmetrica, a eccezione di un semicerchio di divani di fronte a un enorme camino. Nella fioca luce di quell'unica lampada accesa, gli occhi di Canfield furono immediatamente attratti da una panoplia di smorti riflessi sopra la mensola del camino. Erano delle fotografie. Decine di fotografie di varie dimensioni in sottili cornici nere. Erano disposte come i fiori di un bouquet, e il punto focale era costituito da una pergamena incorniciata d'oro, al centro della mensola.
La donna notò lo sguardo di Canfield ma non dette segno di essersene accorta.
«Là ci sono le bottiglie e il ghiaccio» disse, indicando un mobile bar. «Si serva. Vuole scusarmi un minuto? Vado a cambiarmi le calze.» E sparì nella sala d'ingresso.
Canfield raggiunse il carrello dal piano di vetro e riempì di scotch due piccoli bicchieri. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto pulito, lo immerse nell'acqua ghiacciata e se l'avvolse attorno alla mano che sanguinava leggermente. Poi accese un'altra lampada per illuminare l'esposizione sopra il camino. Per un brevissimo istante, fu davvero scosso.
Era incredibile. Sopra la mensola c'era una presentazione fotografica della carriera militare di Ulster Stewart Scarlett. Dalla scuola allievi ufficiali all'imbarco; dall'arrivo in Francia all'assegnazione alle trincee. In alcune cornici c'erano delle carte con pesanti righe rosse e blu che indicavano delle posizioni. In una serie di foto Ulster era il centro d'attrazione.
Canfield aveva già visto delle foto di Scarlett, ma si trattava in genere di istantanee fatte a feste del bel mondo o di immagini dedicate esclusivamente al personaggio mondano ritratto nei suoi vari sforzi atletici - polo, tennis, vela -in cui aveva esattamente l'aspetto che i Brooks Brothers prevedono per i loro clienti. Qui invece era in mezzo ai soldati, e Canfield s'infastidì vedendo che era più alto di quasi mezza testa del più alto dei soldati vicino a lui. E c'erano soldati dappertutto, di ogni rango e grado di rilevanza militare. Goffi caporali yankee a cui ispezionavano le armi, stanchi sergenti che mettevano in riga uomini ancora più stanchi, ufficiali superiori dall'aria esperta che ascoltavano assorti - tutti facevano quello che facevano per il vantaggio del vigoroso, asciutto tenente che per un motivo o per l'altro meritava la loro attenzione. In molte foto il giovane ufficiale teneva le braccia attorno alle spalle di compagni che inalberavano un mezzo sorriso, come per rassicurarli che presto sarebbero tornati giorni felici.
A giudicare dall'espressione di quelli che lo circondavano, Scarlett non era eccessivamente popolare. Il suo viso, invece, irradiava ottimismo. Freddo e anche incredibilmente vanitoso, pensò Canfield. Il centro di quella mostra era, in effetti, una pergamena. Era la citazione con cui gli assegnavano la Stella d'Argento al valore per l'impresa della Mosa-Argonne. Tra gli eroi che avevano avuto la fortuna di andare in guerra, Ulster Stewart Scarlett era in assoluto quello sistemato meglio. L'aspetto fastidioso era quello spettacolo in sé. Era grottescamente fuori luogo. Avrebbe dovuto trovarsi nello studio di qualche illustre guerriero le cui campagne coprivano un mezzo secolo, non qui nella Cinquantaquattresima nel lussuoso salotto di un gaudente.
«Interessanti, vero?» Janet era rientrata nella stanza.
«Impressionanti, a dir poco. E un tipo notevole.»
«Su questo non si discute. Se qualcuno se lo dimenticasse, non avrebbe che da entrare in questa stanza per farselo ricordare.»
«Ne deduco che questa... questa storia illustrata di come fu vinta la guerra non è stata un'idea sua.» Porse a Janet il suo bicchiere, e lei, osservò, lo strinse forte, portandoselo immediatamente alle labbra.
«Sicuramente no.» Aveva quasi finito il suo scotch liscio. «Si sieda, vuole?» Canfield buttò giù rapidamente la maggior parte del suo whisky. «Prima mi lasci rinfrescare questi.» Le prese il bicchiere. Janet si sedette sul grande divano di fronte al camino mentre lui andava al carrello dei liquori.
«Non ho mai pensato che suo marito fosse soggetto a questo genere di...» si interruppe e accennò con la testa al caminetto «postumi da sbronza.»
«E un'analogia accurata. Postumi di una gran baldoria. Lei è un filosofo.»
«Non è nelle mie intenzioni. Solo che non pensavo che fosse quel tipo d'uomo.» Portò i due bicchieri, ne porse uno a Janet, e restò in piedi.
«Non ha letto le sue descrizioni di quello che è accaduto? Pensavo che i giornali avessero fatto un magnifico lavoro mettendo perfettamente in chiaro chi era il vero responsabile della sconfitta del Kaiser.» Janet bevve ancora.
«Oh, figuriamoci, gli amici giornalisti! Loro devono far vendere i giornali. Le ho lètte, ma non le ho prese sul serio. E non ho mai pensato che lui lo facesse.»
«Parla come se conoscesse mio marito.» Canfield assunse appositamente un'aria sorpresa e scostò il bicchiere dalle labbra. «Non lo sapeva?»
«Cosa?»
«Be', certo, lo conoscevo. Lo conoscevo piuttosto bene. Avevo semplicemente dato per scontato che lei lo sapesse. Mi dispiace.» Janet nascose la sua sorpresa. «Non c'è nulla di cui dispiacersi. Ulster aveva un grosso giro di amici. Non potrei mai conoscerli tutti. Lei era un suo amico di New York? Non ricordo che l'avesse nominata.»
«No, no. Ci vedevamo di tanto in tanto quando io venivo all'Est.»
«Ah, già, lei è di Chicago. Chicago, vero?»
«Si. Ma per essere franco con lei, le dirò che il mio lavoro mi porta dappertutto.»
«Che cosa fa?» Canfield ritornò coi bicchieri e si sedette.
«Tolti tutti i fronzoli, faccio il venditore. Ma noi non togliamo mai i fronzoli.»
«Che cosa vende? Conosco un mucchio di gente che vende delle cose. Loro non si preoccupano dei fronzoli.»
«Be', io non vendo azioni o titoli o palazzi o ponti. Vendo campi da tennis.» Janet rise. Era una risata simpatica. «Sta scherzando!»
«No, seriamente, vendo campi da tennis.» Canfield posò il suo bicchiere e finse di guardare nelle tasche. «Vediamo se ne ho qui uno. Sono veramente molto belli. Rimbalzo perfetto. Norme di Wimbledon, salvo per l'erba. Questo è il nome della nostra società. Wimbledon. Per sua conoscenza, sono dei campi eccellenti. Probabilmente lei ha giocato su decine dei nostri campi e non ha mai saputo a chi attribuirne il merito.»
«Trovo che sia affascinante. Perché la gente compra i suoi campi da tennis? Non se li possono costruire da sé?»
«Certo. Noi li incoraggiamo a farlo. Facciamo più quattrini quando ne smantelliamo uno e lo sostituiamo coi nostri.»
«Mi sta prendendo in giro. Un campo da tennis è un campo da tennis.»
«Solo quelli di erba, mia cara. E non sono mai completamente pronti quando arriva la primavera, e sono sempre secchi in autunno. I nostri funzionano tutto l'anno.» Janet rise di nuovo.
«È davvero molto semplice. La mia società ha inventato un composto di asfalto che raddoppia il rimbalzo di un campo d'erba. Non si scioglie mai col caldo. Non si espande quando gela. Le piacerebbe sentire l'intero discorso propagandistico? I nostri camion saranno qui tra tre giorni e in quel periodo ci accorderemo per il primo strato di ghiaietto. Lo faremo in loco. Prima che lei lo venga a sapere, avrà uno splendido campo da tennis proprio qui fuori nella Cinquantaquattresima.» Risero entrambi.
«E suppongo che lei sia un campione di tennis.»
«No. Gioco, ma non bene. Non mi piace particolarmente. Naturalmente abbiamo nel libro paga alcuni professionisti di fama internazionale che garantiscono per i nostri campi. In più, vi offriamo una partita di dimostrazione sul vostro, che verrà effettuata il giorno del completamento dei lavori. Potete invitare i vostri amici e dare una festa. Sui nostri campi sono state date alcune feste favolose. Ecco, questa in genere è la frase conclusiva che fa vendere il lavoro!»
«Davvero di grande effetto.»
«Da Atlanta a Bar Harbor. I migliori campi, le migliori feste.» Canfield alzò il bicchiere.
«Ah, così lei ha venduto un campo da tennis a Ulster?»
«Non ci ho mai provato. Immagino che avrei potuto. Una volta lui comprò un dirigibile, e in fondo, cos'è un campo da tennis di fronte a quello?»
«E più piatto.» La ragazza ridacchiò e gli tese il bicchiere. Canfield si alzò e andò al mobile bar, togliendosi il fazzoletto dalla mano e riponendolo in tasca. Janet spense lentamente la sigaretta nel portacenere davanti a lei.
«Se lei non era del giro di New York, dove ha conosciuto mio marito?»
«Ci siamo conosciuti all'università. Per un periodo breve, molto breve. Io l'ho piantata a metà del primo anno.» Canfield si domandò se Washington avesse messo giù a Princeton l'opportuna documentazione su una matricola da tempo dimenticata.
«Avversione ai libri?»
«Avversione ai soldi. Ce li aveva il ramo sbagliato della famiglia. Poi ci siamo incontrati in seguito nell'esercito, di nuovo per un breve periodo.»
«L'esercito?»
«Si. Ma non in quel modo, ripeto, non in quel modo!» Gesticolò verso la mensola e ritornò a sedersi sul divano.
«Cosa?»
«Ci separammo dopo l'addestramento nel New Jersey. Lui partì per la Francia e la gloria. Io per Washington e la noia. Ma prima ci siamo divertiti come dei pazzi.» Canfield si piegò impercettibilmente verso di lei, concedendo alla sua voce quel tono di leggera intimità che in genere s'accompagna agli effetti secondari dell'alcol. «Tutto prima delle sue nozze, naturalmente.»
«Non tanto prima, Matthew Canfield.» Canfield la guardò attentamente, notando, senza necessariamente apprezzarlo, che la prevista risposta era positiva. «Se le cose stanno così, allora era molto più stupido di quanto pensassi.» Janet lo guardò negli occhi come chi studia una lettera, cercando di leggere non già tra le righe, ma oltre le parole.
«Lei è un uomo molto attraente.» Janet si alzò velocemente, barcollando appena, e posò il suo bicchiere sul tavolino davanti al divano. «Non ho ancora cenato e se non mangio subito tra poco vaneggerò. Non mi piace vaneggiare.»
«Lasci che la porti fuori a cena.»
«In modo da sanguinare su qualche povero, ignaro cameriere?»
«Non sanguino più.» Canfield stese in fuori la mano. «Mi piacerebbe cenare con lei.»
«Si, ne sono certa.» Janet raccolse il bicchiere e si diresse, sbandando in modo appena percettibile, verso il lato sinistro del caminetto. «Sa cosa stavo per fare?»
«No.» Canfield restò seduto, sprofondato nel divano.
«Stavo per chiederle di andarsene.» Canfield cominciò a protestare.
«No, aspetti. Avevo voglia di restare sola e mangiucchiare qualcosa tutta da sola, ma forse non è una grande idea.»
«Trovo che sia una pessima idea.»
«Perciò rinuncio.»
«Ottimo.»
«Ma non ho voglia di uscire. Mangerà qui con me quello che, come si dice, passa il convento?»
«Ma non causerà troppo disturbo?» Janet Scarlett tirò un cordone che pendeva dalla parete accanto al caminetto. «Solo alla governante. E non è stata affatto oberata di lavoro da quando mio marito se n'è andato.» La governante rispose alla chiamata con una tale velocità che Canfield si chiese se fosse stata ad ascoltare dietro la porta. Era su per giù la donna più brutta che lui avesse mai visto. Le sue mani erano enormi.
«Si, madame? Non ci aspettavamo che fosse a casa stasera. Ci aveva detto che cenava con madame Scarlatti.»
«Sembra che abbia cambiato idea, ti pare, Hannah? Il signor Canfield e io ceneremo qui. Gli ho detto che si dovrà accontentare, perciò portaci qualunque cosa passi il convento.»
«Benissimo, madame.» Aveva un accento vagamente mitteleuropeo, forse svizzero o tedesco, pensò Canfield. La sua faccia paffuta incorniciata dai capelli grigi tirati indietro avrebbe dovuto essere cordiale. Ma non lo era. Per qualche motivo era dura, mascolina.
Ciononostante, la donna fece in modo che la cuoca preparasse un pasto eccellente.
«Quando quella vecchia strega vuole qualcosa, li fa tremare e ballare tutti quanti finché non l'ha ottenuta» disse Janet. Erano tornati nel soggiorno e si erano seduti a sorbire un brandy sul sofà morbido come un guanciale. Le loro spalle si sfioravano.
«E naturale. Da tutto quello che ho sentito, è lei che fa andare avanti tutta la baracca. Devono provvedere ai suoi bisogni. Io so che lo farei.»
«Mio marito non l'ha mai pensata così» disse tranquilla la ragazza. «Lei andava su tutte le furie con Ulster.» Canfield simulava disinteresse. «Davvero? Non ho mai saputo che ci fossero dei problemi tra loro.»
«Oh, non dei problemi. A Ulster non è mai importato abbastanza di qualcuno o di qualcosa al punto che potessero nascere dei problemi. È per quello che lei s'arrabbiava tanto. Ulster non litigava. Si limitava a fare esattamente come voleva. Era l'unica persona che lei non riuscisse a controllare e questo non lo poteva sopportare.»
«Poteva tagliargli i viveri, no?» domandò Canfield.
«Aveva le sue sostanze personali.»
«Certo dev'essere esasperante. Probabilmente l'ha fatta impazzire.» La giovane donna fissava il caminetto. «Ha fatto impazzire anche me. Lei non è diversa.»
«Be', è sua madre...»
«E io sono sua moglie.» Janet era ubriaca ormai e fissava con odio le fotografie. «Non ha alcun diritto di mettermi in gabbia come un animale! Di minacciarmi con quegli stupidi pettegolezzi! Bugie! Milioni di bugie! Gli amici di mio marito, non i miei. Anche se potrebbero benissimo essere i miei, non sono un accidente!»
«Gli amici di Ulster sono sempre stati un po' strani, su questo sono d'accordo. Se si comportano da carogne con lei, li ignori. Non ha bisogno di loro.» Janet rise. «Ecco cosa farò. Andrò a Parigi, al Cairo e in tutti quei maledettissimi posti, e metterò un annuncio sul giornale. A tutti gli amici di quel bastardo di Ulster Scarlett: io vi ignoro! Firmato: Janet Saxon Scarlett, vedova. Spero!» Canfield arrischiò: «Sua suocera ha avuto delle informazioni su di lei da... Posti del genere?»
«Oh, lei non perde un colpo. Non sei nessuno, se l'illustre madame Scarlatti non ha un dossier su di te. Questo non lo sapeva?» E poi, quasi con la stessa rapidità con cui era montata su tutte le furie, Janet diventò calma e riflessiva. «Ma non è importante. Che vada all'inferno.»
«Perché parte per l'Europa?»
«Perché le interessa?» Canfield si strinse nelle spalle. «Non so. L'ho appena letto nella cronaca.»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Ha qualcosa a che vedere con tutti quei pettegolezzi, quelle bugie che s'è fatta raccogliere a Parigi... E in quei posti?» Canfield cercò, cosa che non gli era difficile, di biascicare le parole.
«Lo chieda a lei. Sa, questo brandy non è niente male.» La donna finì quel che restava del suo drink e posò il bicchiere. Canfield ne aveva ancora più della metà. Trattenne il fiato e se lo scolò.
«Lei ha ragione. E una strega.»
«E una strega.» La ragazza si strinse contro le spalle e il braccio di Canfield, voltando il viso verso il suo. «Tu non sei una strega, vero?»
«No, e comunque non sono una donna. Perché parte per l'Europa?»
«Me lo sono chiesta un sacco di volte e non riesco a trovare una risposta. E non me ne importa. Sei veramente una brava persona?»
«Bravissima, penso.»
«Sto per baciarti e per scoprirlo. Riesco sempre a capire.»
«Non sei così pratica...»
«Oh, altro che.» La donna fece scivolare il braccio attorno al collo di Canfield e lo tirò a sé. Tremava.
La reazione di Canfield fu di blando stupore. Quella donna era disperata, e per qualche insensato motivo, lui aveva la sensazione di volerla proteggere.
Janet tirò giù la mano dalle spalle dell'uomo. «Andiamo di sopra» disse.
E di sopra si baciarono e Janet Scarlett si coprì il viso con le mani.
«Lei ha detto... E ridicolo essere una Scarlett senza avere uno Scarlett attorno. Ecco cos'ha detto.»
«Chi? Chi l'ha detto?»
«Mamma Strega. Ecco chi.»
«Sua madre?»
«A meno che lei non lo trovi... Io sono libera... Prendimi, Matthew. Prendimi, per favore, ti supplico!» Mentre la portava a letto, Canfield decise che avrebbe convinto in qualche modo i suoi superiori che doveva partire con quella nave.
***