Parte terza 


41.



Il treno passò con fragore sull'antiquato ponte sul fiume Rhone per entrare nella stazione di Ginevra. Elisabeth Scarlatti sedeva nel suo scompartimento guardando prima i barconi giù nel fiume, poi gli alti argini e infine il grande scalo ferroviario. Ginevra era pulita. Aveva un'aria di immacolato lindore che contribuiva a nascondere il fatto che decine di nazioni e decine di migliaia di magnati dell'industria usavano quella cittadina neutrale per acuire ulteriormente i conflitti di interessi. Mentre il treno si avvicinava alla città, Elisabeth pensò che le persone come lei appartenevano davvero a quel mondo di Ginevra. O forse, era Ginevra che apparteneva alle persone come lei.

Guardò il bagaglio ammucchiato sul sedile di fronte a lei. Una valigia conteneva i vestiti indispensabili, e tre borse più piccole erano zeppe di carte. Carte nelle quali c'erano mille conclusioni, che complessivamente costituivano un arsenale di armi. I dati comprendevano le cifre relative al valore totale di ogni uomo del gruppo di Zurigo. Ogni risorsa posseduta da ciascuno. A Ginevra l'attendevano ulteriori informazioni. Ma quello era un altro genere d'esercitazione di tiro. Non era diverso dal Domesday Book. Perché ciò che l'aspettava a Ginevra era la completa demolizione degli interessi Scarlatti. Il valore stimato legalmente di ciascuna proprietà controllata dalle Industrie Scarlatti. Ciò che rendeva micidiale la cosa era la rapidità di manovra di cui lei disponeva. E a ciascun settore di proprietà corrispondeva un contratto di acquisto. I contratti erano specificati in chiare lettere, e potevano essere eseguiti all'istante con un telegramma ai suoi avvocati.

E dovevano esserlo per forza.

Ciascun settore era seguito non dalle solite due colonne che indicano il valore accertato e il valore commerciale, ma da tre colonne. La terza era costituita da una riduzione globale, che garantiva al compratore una piccola fortuna con ciascuna operazione. Ognuna significava un mandato di acquisto che non poteva essere rifiutato. Era il più alto livello della finanza, riportato attraverso le complessità della tecnica bancaria alla base ultima dell'incentivo economico: il profitto.

Ed Elisabeth contava su un ultimo fattore. Era il contrario delle sue istruzioni, ma anche quello era calcolato. Negli ordini sigillati che aveva mandato al di là dell'Atlantico c'era la condizione perentoria che ogni contratto - per completare l'opera, squadre di amministratori dovevano lavorare con turni di dodici ore notte e giorno - sarebbe stato condotto nella più assoluta segretezza e solo con quelli la cui autorità si estendeva a grandi impegni finanziari. Il guadagno garantito assolveva tutti da eventuali accuse di irresponsabilità. Ognuno sarebbe apparso come un eroe ai propri occhi o a quelli del suo gruppo di sostenitori economici. Ma il prezzo, finché l'operazione non fosse stata compiuta, era nella più completa segretezza. Le ricompense controbilanciavano il prezzo. Milionari, principi del commercio e banchieri di New York, Chicago, Los Angeles e Palm Beach si trovavano acquartierati in sale di riunione con le loro degne controparti di una delle più prestigiose agenzie legali di New York. Le parole erano sussurrate, gli sguardi furbeschi. Si perpetravano assassinii finanziari. Si apponevano firme.

E, naturalmente, ciò doveva accadere.

Un'incredibile fortuna porta all'esuberanza, e l'esuberanza mal si combina con la segretezza.

Due o tre cominciarono a parlare. Poi quattro o cinque. Poi una dozzina. Ma non più di così... Il prezzo.

Furono fatte delle telefonate, quasi nessuna dagli uffici, quasi tutte dal tranquillo isolamento di una biblioteca o di uno studio. La maggior parte di notte, sotto la morbida luce di una lampada da tavolo, con del buon whisky a portata di mano.

Negli ambienti economici più elevati si vociferava che stesse succedendo qualcosa di molto strano alla Scarlatti.

Era sufficiente. Elisabeth sapeva che sarebbe stato sufficiente.

Dopo tutto, il prezzo... E le voci raggiunsero gli uomini di Zurigo.

Matthew Canfield s'allungò sui sedili del suo scompartimento, appoggiando le gambe sull'unica valigia che s'era portato e i piedi sui cuscini di fronte a sé. Anche lui guardò fuori del finestrino la città di Ginevra che s'avvicinava. Aveva appena finito uno dei suoi sigarini e il fumo s'era fermato in strati sospesi sopra di lui nell'aria, immobile dello scompartimento. Contemplò la possibilità di aprire un finestrino, ma era troppo depresso per muoversi.

Erano passate esattamente due settimane da quando aveva concesso a Elisabeth Scarlatti il suo rinvio di un mese. Quattordici giorni di caos resi penosi dalla consapevolezza della propria inutilità. Più che inutilità, qualcosa di più simile all'inconsistenza personale. Non poteva fare niente, e non ci si aspettava niente da lui. Elisabeth non aveva voluto che lavorasse 'a stretto contatto' con lei. Non voleva che nessuno lavorasse con lei - in alcun altro modo. Volava da sola. Si librava in alto, un'austera, nobile aquila che percorreva gli infiniti pascoli del suo particolare cielo.

Il suo compito più impegnativo consisteva nell'acquisto di scorte di cancelleria come risme di carta, matite, quaderni, e infinite scatole di fermagli per i fogli.

Anche l'editore Thomas Ogilvie si era rifiutato di vederlo, ovviamente dietro istruzione di Elisabeth.

Canfield era stato congedato allo stesso modo in cui ora veniva congedato da Elisabeth. Persino Janet lo trattava con una certa freddezza, scusandosi continuamente del suo atteggiamento e quindi, proprio per questo, riconoscendolo. Cominciò a capire cos'era successo. Adesso la puttana era lui. Si era venduto, aveva venduto i suoi favori e gli erano stati pagati. Ora non sapevano quasi più che farsene. Ma sapevano che potevano averlo ancora, come uno sa che può sempre avere una puttana.

Comprese molto più profondamente cosa aveva provato Janet.

Sarebbe finita con lei? Sarebbe mai potuta finire? Lui si diceva di no. Lei gli diceva la stessa cosa. E gli chiedeva di essere abbastanza forte per tutti e due, ma stava cercando forse di ingannarsi e di fare in modo che fosse lui a pagare?

Incominciò a domandarsi se fosse capace di giudizio. Era stato inerte, e il marcio dentro di lui lo spaventava. Che cosa aveva fatto? Poteva disfarlo? Stava operando in un mondo su cui non poteva far presa.

Eccetto Janet. Nemmeno lei apparteneva a quel mondo. Apparteneva a lui. Doveva appartenergli!

Il fischio del treno sibilò due volte e le enormi piastre -metallo contro metallo - delle ruote cominciarono a sfregare. Il treno stava entrando nella stazione di Ginevra, e Canfield sentì Elisabeth bussare con tocco rapido sulla parete tra i loro scompartimenti. Quel rumore l'infastidì. Ricordava un impaziente padrone di casa che richiami un domestico.

Il che corrispondeva esattamente alla realtà.

«Io posso portare questa, lei prenda le altre due. Il resto lo dia ai facchini.» Canfield, ligio, diede istruzioni all'uomo di fatica, prese le due valigie e seguì Elisabeth giù dal treno.

Dato che lui doveva fare giochi di destrezza per passare con le due valigie nel piccolo corridoio d'uscita, Elisabeth lo precedeva di un metro circa mentre scendevano per la scaletta di ferro e s'avviavano per il marciapiede di cemento verso il centro della stazione. Grazie a quelle due valigie erano ancora vivi un minuto dopo.

Dapprima fu solo l'ombra di un oscuro movimento visto con la coda dell'occhio. Poi il boccheggiare di alcuni viaggiatori dietro di lui. Poi le urla. E infine lo vide.

Da destra, a tutta velocità, veniva un massiccio carrello per le merci con un'enorme lastra di acciaio sul davanti, di traverso, che serviva per sollevare le casse pesanti. La piastra di metallo era a circa un metro e mezzo da terra e aveva l'aspetto di una gigantesca, orribile lama.

Canfield balzò in avanti mentre il mostro lanciato s'avvicinava puntando esattamente contro di loro. Passò fulmineo il braccio attorno alla vita di Elisabeth e la spinse, la tirò via dalla traiettoria della mastodontica lastra d'acciaio, che andò a schiantarsi contro il fianco del treno a meno di trenta centimetri dai loro corpi.

Molte persone furono colte da panico. Nessuno poteva sapere con certezza se qualcuno era stato ferito o ucciso. Accorsero i portabagagli. Le grida e le urla echeggiavano per tutta la banchina.

Elisabeth, ansante, parlò a Canfield nell'orecchio. «Le valigie! Ha le valigie?» Canfield scoprì con sua meraviglia che ne teneva ancora una nella mano sinistra. Era schiacciata tra la schiena di Elisabeth e il treno. Aveva mollato la valigia che aveva nella destra.

«Ne ho una. Ho lasciato andare l'altra.»

«La trovi!»

«Santo cielo!»

«La trovi, stupido!» Canfield spinse contro la folla che s'accalcava attorno a loro. Scrutò con gli occhi a terra e vide la valigia di pelle. Era stata schiacciata dalle pesanti ruote anteriori del carrello; era malconcia, ma ancora intatta. Si fece strada a spallate colpendo una decina di diaframmi e allungò la mano. Ma nello stesso istante un altro braccio, con una mano grassa e inusitatamente larga, si gettò verso quel relitto di cuoio. La mano spuntava da una giacca di tweed. Una giacca da donna. Canfield spinse più forte, toccò con le dita la valigia e cominciò a tirarla verso di sé. Istintivamente, in mezzo a quel panorama di pantaloni e soprabiti, afferrò il polso di quella mano grassoccia e guardò in su.

Chino sopra di lui, con uno sguardo di cieco furore, c'era un viso grassoccio che Canfield non poteva scordare. Si collocava in quell'orrenda sala rossa e nera a seimila chilometri di distanza. Era Hannah, la governante di Janet!

I loro occhi si incontrarono scambiandosi uno sguardo di riconoscimento. Sulla testa grigio ferro la donna portava ben calzato un feltro tirolese verde scuro che metteva in risalto le protuberanze della faccia. Il suo enorme corpo era accucciato, minaccioso, sinistro. Con un'enorme forza Hannah liberò la mano dalla stretta di Canfield e insieme gli diede una spinta che lo fece cadere all'indietro contro il carrello e i corpi che lo circondavano. Dopodiché sparì rapidamente nella folla verso la stazione.

Canfield si rimise in piedi, tenendo stretta sotto il braccio la valigia schiacciata. Cercò di seguire la donna con lo sguardo, ma si era dissolta. Restò li per un momento, con la gente che gli si accalcava intorno, in preda allo sconcerto.

Si fece strada tra la folla per ritornare da Elisabeth.

«Mi porti fuori di qui, presto!» lo apostrofò lei.

Si incamminarono lungo il marciapiede, ed Elisabeth stringeva il braccio a Canfield con più forza di quanto lui credeva possedesse. Gli faceva veramente male. Lasciarono la folla eccitata dietro di loro.

«È cominciata.» Elisabeth guardava fisso davanti a sé mentre parlava.

Raggiunsero l'interno affollato della stazione dalla grande cupola.

Canfield continuò a muovere la testa in tutte le direzioni, cercando di scorgere qualsiasi stranezza in quel disegno umano, cercando un paio di occhi, una forma immobile, una figura in attesa. Una donna grassa con un cappello tirolese.

Arrivarono all'entrata sud, che affacciava sulla Eisen bahn Platz e trovarono una fila di taxi.

Canfield trattenne Elisabeth, impedendole di salire sulla prima vettura. La donna era allarmata. Non voleva fermarsi. «Ci manderanno loro i bagagli.» Canfield non rispose, ma la spinse a sinistra verso la seconda macchina e quindi, per la crescente preoccupazione di lei, fece cenno al conducente della terza. Chiuse la portiera e guardò la valigia schiacciata, una costosa Mark Cross. Si immaginò la faccia furibonda e gonfia di Hannah. Diede all'autista il nome del loro albergo.

«Il n'y a plus de bagages, monsieur?»

«No. Ce lo consegneranno dopo» rispose in inglese Elisabeth. L'anziana donna aveva appena passato un'esperienza raccapricciante e perciò Canfield decise di non parlarle di Hannah finché non fossero arrivati in albergo. Bisognava darle il tempo di calmarsi. Eppure si domandò se era lui o Elisabeth ad avere bisogno di calmarsi. Le mani gli tremavano ancora. Guardò l'anziana donna, che continuava a fissare dritto davanti a sé qualcosa che nessun altro avrebbe potuto vedere.

«Va tutto bene?» Elisabeth non rispose per circa un minuto.

«Signor Canfield, lei ha davanti a sé una terribile responsabilità.»

«Non sono sicuro di capire cosa intende dire.» La donna si voltò e lo guardò. Era sparita la maestà, sparita l'altera superiorità.

«Non permetta che mi uccidano, signor Canfield. Non permetta loro di uccidermi adesso. Li faccia aspettare fino a Zurigo... Dopo Zurigo potranno fare quello che vogliono.»



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