31.



La stazione balneare di Ramsgate sorge a circa novanta chilometri da Londra. Vicino alla cittadina, in un campo un po' discosto dalla strada principale, c'era una capanna di legno non più larga di sei metri per sei. Aveva due piccole finestre che si potevano vedere debolmente illuminate nella nebbia delle prime ore del giorno. Circa cento metri più in alto c'era una costruzione più ampia che un tempo serviva da granaio - cinque volte più grande della capanna. Ora era diventata un hangar per due piccoli monoplani. Tre uomini in tuta grigia ne stavano spingendo fuori uno.

Dentro la capanna l'uomo con la testa rasata sedeva a un tavolo bevendo caffè nero e sgranocchiando una pagnotta. Si toccava continuamente la macchia rossastra sull'occhio destro, infiammata e dolorante.

Lesse il messaggio posato davanti a sé e diede un'occhiata a chi l'aveva portato, un uomo vestito da autista. Il contenuto del messaggio lo fece andare su tutte le furie.

«Il marchese ha passato i limiti. Le istruzioni da Monaco erano chiare. I Rawlins non dovevano essere ammazzati in America. Dovevano essere portati a Zurigo! Dovevano essere ammazzati a Zurigo!»

«Non è il caso di preoccuparsene! Le loro morti, dell'uomo e di sua moglie, sono state orchestrate in modo che non possa nascere alcun sospetto. Il marchese desiderava che lei lo sapesse. È sembrato un incidente.»

«A chi? Dannazione! Ma a chi è sembrato un incidente? Impiccatevi tutti! Monaco non vuole rischi! A Zurigo non ci sarebbe stato nessun rischio!» Ulster Scarlett si alzò dalla sedia e andò verso la finestrella che dava sul campo. L'aeroplano era quasi pronto. Sperava di calmarsi prima del decollo. Non gli piaceva volare con la rabbia in corpo. Commetteva degli errori in volo quando era arrabbiato. Gli era successo molto spesso.

Accidenti a Bertholde! Non c'è dubbio che i Rawlins dovevano essere uccisi. Preso dal panico per la scoperta di Cartwright, Rawlins aveva ordinato a suo genero di uccidere Elisabeth Scarlatti. Un errore madornale! È strano, rifletté. Non pensava più alla vecchia signora come a sua madre. Era semplicemente Elisabeth Scarlatti... Ma che i Rawlins fossero stati ammazzati a cinquemila chilometri di distanza era pazzia pura! Come facevano a sapere chi si era posto degli interrogativi? E quanto sarebbe stato facile risalire da quell'ordine a Bertholde?

«Nonostante ciò che è successo...» Labishe ricominciò a parlare.

«Che cosa?» Scarlett si allontanò dalla finestra. Aveva già deciso.

«Il marchese desidera che lei sappia anche che, nonostante quello che è successo a Boothroyd, tutti i legami con lui sono finiti assieme ai Rawlins.»

«Non è esattamente così, Labishe. Non proprio.» Scarlett parlava a bassa voce, ma il tono era duro. «Il marchese de Bertholde aveva avuto ordine... Gli era stato comandato da Monaco di fare in modo che i Rawlins fossero portati a Zurigo. Ha disobbedito. E stata una vera disgrazia.»

«Prego, signore?» Scarlett andò a prendere la sua giacca d'aviatore, appesa allo schienale della sedia. Riprese a parlare piano, con naturalezza. Due parole.

«Devi ucciderlo.»

«Monsieur!»

«Devi ucciderlo! Devi uccidere il marchese de Bertholde e devi farlo oggi stesso!»

«Monsieur, non credo alle mie orecchie!»

«Ascoltami bene! Non occorrono spiegazioni! Quando sarò a Monaco voglio trovare un cablogramma che mi annunci che quel figlio di puttana è morto! E, Labishe! Fallo in modo che non ci sia possibilità d'errore su chi l'ha ucciso! Tu! Noi non ci possiamo permettere che si facciano delle indagini adesso! Fa' ritorno qui al campo. Ti faremo uscire dal Paese.»

«Monsieur! Sono con il marchese da quindici anni! E stato buono con me! Non posso...»

«Che cosa non puoi?»

«Monsieur...» Il francese cadde in ginocchio. «Non mi chieda questo...»

«Io non chiedo. Io comando! Monaco comanda!» La sala d'ingresso al terzo piano della Bertholde et Fils era immensa. Sullo sfondo c'era una solenne fila di porte bianche stile Luigi XIV che naturalmente si aprivano sul sancta sanctorum del marchese de Bertholde. Sulla destra un semicerchio di poltrone di cuoio marrone - come quelle che si possono trovare nello studio di un ricco gentiluomo di campagna - e davanti un robusto tavolino rettangolare. Su questo tavolo c'erano pile ben ordinate di riviste chic - chic in senso mondano e chic in senso industriale. Sulla sinistra c'era un grande scrittoio bianco decorato in oro. Dietro sedeva una brunetta molto attraente con dei piccoli ricci incollati sulla fronte. Canfield osservò tutto ciò in un secondo momento. Gli ci volle un po' per riaversi da quella che era stata la sua prima impressione.

Uscendo dall'ascensore, era stato colpito dallo schema cromatico delle pareti.

Erano color rosso cremisi e dalle modanature del soffitto scendevano ampi drappeggi di velluto nero.

«Dio mio!» mormorò tra sé. «Mi trovo in una sala a cinquemila chilometri da qui!» Seduti su due sedie, uno accanto all'altro, stavano due signori di mezza età vestiti in puro stile Savile Row che leggevano le riviste. In piedi a destra c'era un uomo in divisa da autista, senza berretto, con le mani dietro la schiena.

Canfield si avvicinò allo scrittoio. La segretaria lo salutò prima che aprisse bocca. «Il signor Canfield?»

«Si, sono io.»

«Il marchese vorrebbe che lei si accomodasse subito, signore.» Mentre parlava, la ragazza si alzò e si diresse verso le grandi porte bianche. Canfield vide che l'uomo seduto a sinistra era arrabbiato. Mormorò due o tre volte «Accidenti!» e poi ritornò alla sua rivista.

«Buon giorno, signor Canfield.» Il quarto marchese di Chatellerault si alzò in piedi dietro il grande scrittoio bianco e gli tese la mano. «Non ci siamo mai incontrati, ma una persona mandata da Elisabeth Scarlatti è un ospite gradito. Prego, si accomodi.» Bertholde era pressappoco come Canfield se lo era immaginato, forse un po' più basso. Era molto curato, abbastanza bello, molto virile, con una voce così sonora che avrebbe riempito da sola un teatro. Tuttavia nonostante la virilità che trasudava da ogni suo gesto - e che richiamava alla mente le imprese del Monte Cervino e della Vergine -c'era qualcosa di artificiale, di leggermente affettato in lui. Forse era l'abbigliamento. Quasi troppo elegante.

«Piacere.» Canfield sorrise, stringendo la mano al francese. «Monsieur Bertholde? Oppure monsieur le marquisi Non so come devo chiamarla.»

«Potrei suggerirle parecchi nomi poco lusinghieri con cui mi hanno battezzato i suoi concittadini.» Il marchese rise. «Ma, per favore, adotti il sistema francese - così disdegnato dai nostri rispettabili inglesi. Va bene Bertholde, semplicemente. I marchesi sono un'istituzione così sorpassata.» Il francese fece un sorriso aperto e aspettò prima di tornare al suo posto finché Canfield non si fu seduto sulla sedia davanti allo scrittoio. Jacques Louis Aumont Bertholde, quarto marchese di Chatellerault, era veramente amabile, e Canfield dovette ammetterlo.

«La ringrazio per aver modificato il suo programma.»

«I programmi sono fatti apposta per essere cambiati. Altrimenti sarebbe un'esistenza ben noiosa, no?»

«Non le farò perdere tempo, signore. Elisabeth Scarlatti desidera negoziare.» Jacques Bertholde si appoggiò allo schienale della poltrona e parve sorpreso. «Negoziare? Mi spiace, ma temo di non capire, signore... Negoziare che cosa?»

«Lei sa, Bertholde... Lei sa quanto è necessario sapere. Desidera incontrarla.»

«Sarei felice d'incontrarmi con madame Scarlatti - in qualsiasi momento - ma non riesco a immaginare di che cosa dobbiamo parlare. Non nel senso degli affari, signore, perché penso che questo sia il suo... Compito.»

«Forse la chiave di tutto è il figlio. Ulster Scarlett.» Bertholde guardò intensamente Canfield. «È una chiave della quale io non ho la serratura. Io non ho avuto il piacere... So, come lo sa la maggior parte di quelli che leggono i giornali, che è scomparso alcuni mesi fa. Questo è tutto ciò di cui sono a conoscenza.»

«E non le dice niente Zurigo?» Jacques Bertholde si raddrizzò bruscamente sulla seggiola. «Quoi? Zurigo?»

«Noi sappiamo di Zurigo.»

«E uno scherzo?»

«No. Quattordici uomini a Zurigo. Forse avete trovato il quindicesimo... Elisabeth Scarlatti.» Canfield poteva sentire il respiro di Bertholde. «Dove ha avuto questa informazione? A che cosa si riferisce?»

«Ulster Scarlett! Perché pensa che io sia qui?»

«Non le credo! Non so di cosa sta parlando!» Bertholde si alzò dalla sedia.

«In nome del cielo! Lei è interessata... Non per suo figlio! Ma per lei, Bertholde! E per gli altri! Ha qualcosa da offrirle, e se fossi in lei le darei ascolto.»

«Ma lei non è me, monsieur! Mi spiace ma devo pregarla di andarsene. Non ci sono affari tra madame Scarlatti e le società Bertholde.» Canfield non si mosse. Rimase seduto e continuò con calma. «Allora è meglio che io mi spieghi diversamente. Penso che lei debba vederla... Parlarle... Per il suo bene. Per il bene di Zurigo.»

«È una minaccia?»

«Se lei non mi ascolta, penso che madame Scarlatti prenderà qualche provvedimento drastico. Non devo essere io a ricordarle quanto è potente quella donna... Lei, Bertholde, è legato a suo figlio... E madame Scarlatti ha visto suo figlio l'altra notte!» Bertholde rimase immobile. Canfield non riusciva a decidere se lo sguardo d'incredulità del francese riguardasse la rivelazione della visita di Scarlett oppure il fatto che lui lo sapesse.

Dopo qualche minuto Bertholde replicò: «Non so niente di quanto mi dice. Non ha niente a che fare con me.»

«Oh, avanti! Ho trovato l'attrezzatura! La corda per roccia! L'ho trovata sul fondo di un armadio nel suo appartamento, quello che lei ha affittato al Savoy per le riunioni!»

«Cosa avrebbe trovato?»

«Mi ha sentito benissimo! E ora smettiamola di prenderci in giro a vicenda!»

«Lei è entrato nelle stanze private della mia ditta?»

«Certo, proprio così! E questo è solo l'inizio. Abbiamo una lista. Potrebbe conoscere qualcuno di quei nomi... Daudet e d'Almeida, suoi compatrioti, credo... Olaffsen, Landor, Thyssen, von Schnitzler, Kindorf... Ah, si! E anche Masterson e Leacock! Credo che siano suoi soci, attualmente! Ce ne sono parecchi altri, ma sono certo che quei nomi lei li conosce meglio di me!»

«Basta! Basta, monsieur!» Il marchese de Bertholde si mise a sedere di nuovo, con calma, deliberatamente. Guardò fissamente Canfield. «Farò andare via tutti e parleremo dopo, più a lungo. C'è gente che aspetta. Non stiamo facendo una bella figura. Aspetti fuori. Mi sbrigherò in fretta.» Canfield si alzò dalla sedia mentre Bertholde alzava il telefono e premeva il pulsante per chiamare la segretaria.

«Il signor Canfield resta. Voglio finire gli appuntamenti del pomeriggio il più presto possibile. Se dopo cinque minuti di colloquio con ogni persona non ho ancora finito, lei mi interrompa, con tutti. Che cosa? C'è Labishe? Molto bene. Lo faccia passare. Le darò a lui.» Il francese mise le mani in tasca e tirò fuori un mazzo di chiavi.

Canfield si avviò verso le grandi porte bianche doppie. Prima che la sua mano toccasse la maniglia di ottone, la porta alla sua sinistra si aprì rapidamente, con gran forza.

«Spiacente, monsieur» disse l'uomo in divisa. «Voici les clefs, Labishe.»

«Merci, monsieur le marquisi Je regrette... J'ai un billet...» L'autista chiuse la porta e Canfield sorrise alla segretaria.

Si mosse indeciso verso il semicerchio di sedie e annuì cortesemente quando i due signori lo guardarono. Si sedette sulla sedia in fondo, quella più vicina all'entrata dell'ufficio di Bertholde e prese dal tavolo il London Illustrated News. Osservò che l'uomo vicino a lui era irrequieto, nervoso, impaziente. Girava le pagine di Punch, ma non le leggeva. L'altro era tutto assorbito da un articolo sulla Quarterly Review.

A un tratto l'attenzione di Canfield fu deviata da un banale atto compiuto dal signore nervoso. L'uomo allungò la mano sinistra fuori dalla manica della giacca, girò il polso e guardò l'orologio. Un atto assolutamente normale date le circostanze. Quello che fece sobbalzare Canfield fu la vista del gemello della camicia. Era fatto di stoffa, quadrato, con due strisce diagonali rosse e nere. Una copia esatta del gemello della camicia che gli aveva fatto identificare il corpulento, mascherato Charles Boothroyd nella cabina di Elisabeth Scarlatti sulla Calpurnia. I colori erano identici a quelli delle pareti dell'ufficio del marchese e dei drappeggi di velluto nero che scendevano dal soffitto.

L'uomo si accorse dello sguardo di Canfield. Ritrasse bruscamente la mano dentro la giacca e accostò il braccio al fianco.

«Cercavo di leggere l'ora sul suo orologio. Il mio si è messo a correre.»

«Le quattro e venti.»

«Grazie.» L'uomo nervoso incrociò le braccia e si appoggiò indietro, con aria esasperata. L'altro parlò.

«Basil, ti verrà un colpo, se non ti rilassi.»

«Hai ragione, Arthur! Ma sono in ritardo a un appuntamento. Avevo detto a Jacques che avevo una giornata frenetica, ma ha voluto a tutti i costi che venissi.»

«Sa essere insistente.»

«Sa essere anche maledettamente villano.» Seguirono cinque minuti di silenzio: si sentiva soltanto il frusciare delle carte sullo scrittoio della segretaria.

Il bianco pannello a sinistra delle doppie porte bianche si aprì, e ne uscì l'autista. L'uomo chiuse la porta e Canfield osservò che dopo averla chiusa, l'autista girò la maniglia per fare in modo che tenesse. Era stata una mossa strana.

L'uomo in divisa si diresse verso la segretaria e si chinò sullo scrittoio a bisbigliare qualcosa. La ragazza reagì alle sue parole con un cenno di rassegnato fastidio. Egli alzò le spalle e andò svelto alla porta che si trovava alla destra dell'ascensore. Canfield, attraverso la porta che si stava chiudendo lentamente, vide la fuga di scale che aveva immaginato.

La segretaria mise alcuni fogli in una cartelletta di cartoncino giallo, e guardò i tre uomini. «Mi spiace, signori, il marchese de Bertholde non può ricevere nessuno questo pomeriggio. Ci scusiamo per il disturbo.»

«Ebbene, cara la mia signorina, mi ascolti!» L'uomo impaziente si era alzato in piedi. «Tutto questo è assurdo. Sono stato qui per tre quarti d'ora su esplicita richiesta del marchese! Al diavolo le sue richieste! Erano le sue istruzioni!»

«Mi dispiace, signore! Gli riferirò il suo disappunto.»

«Lei farà di più! Dirà al marchese de Bertholde che io rimango qui, proprio qui, fino a quando non mi potrà ricevere!» Si sedette con sussiego.

Il signore che si chiamava Arthur si alzò e si incamminò verso l'ascensore.

«Santo cielo, amico, di sicuro non migliorerai le maniere dei francesi con questo atteggiamento! Ci hanno provato per secoli! Vieni, Basil. Ci fermeremo al Dorchester a cominciare la serata.»

«Non posso, Arthur. Resto qui dove sono.»

«Fa' a modo tuo. Chiamami.» Canfield rimase seduto al suo posto vicino all'impaziente Basil.

Sapeva soltanto che non se ne sarebbe andato fino a quando Bertholde non fosse comparso. Basil era la sua arma migliore.

«Chiami ancora il marchese, signorina, mi faccia il favore» disse Basil.

E lei chiamò. Molte volte. Nessuna risposta.

Canfield era allarmato. Si alzò dalla sedia e andò verso le grandi doppie porte e bussò. Nessuna risposta. Cercò di aprire le porte: erano chiuse a chiave.

Basil distese le braccia e si alzò dalla sedia. La segretaria dai riccioletti appiccicati si alzò dietro la scrivania bianca. Automaticamente prese il ricevitore e cominciò a premere il cicalino, e alla fine ci tenne ininterrottamente sopra il dito.

«Apra la porta!» ordinò Canfield.

«Ma, non so...»

«Lo faccio io! Mi dia la chiave!» La ragazza cominciò ad armeggiare per aprire il cassetto superiore della scrivania, poi alzò lo sguardo sull'americano. «Forse dovremmo aspettare...»

«Maledizione! Mi dia la chiave!»

«Si, signore!» Tirò fuori un anello con tante chiavi e, sceltane una, la separò dalle altre e la diede a Canfield, che aprì rapidamente le serrature e spalancò le porte.

Trovarono il francese, buttato di traverso sul piano della scrivania bianca, col sangue che gli colava dalla bocca: aveva la lingua di fuori, enfiata, gli occhi gli sporgevano dalle orbite e il collo era gonfio e lacerato proprio sotto la linea del mento. Era stato strangolato da una mano esperta.

La ragazza prese a urlare, ma non svenne - cosa che Canfield ritenne non fosse una gran fortuna. Basil cominciò a tremare e ripeteva «Oh, mio Dio!» in continuazione. L'ispettore contabile si avvicinò allo scrittoio e sollevò il polso del morto prendendogli la manica della giacca. Lo lasciò andare e la mano ricadde giù.

Le urla della ragazza si fecero sempre più forti, e due dirigenti di mezza età irruppero nella sala d'attesa dalla porta sulla scala. Attraverso le doppie porte la scena si presentò chiaramente ad entrambi. Uno di loro ritornò di corsa verso le scale, urlando con quanto fiato aveva in corpo, mentre l'altro lentamente e pieno di paura entrava nella stanza di Bertholde.

«Le bon Dieu!» In un attimo, una fiumana di impiegati era salita dal basso e scesa dall'alto, sulla scala, e si ammassava nel vano della porta. Ogni volta che un gruppo riusciva a passare, si sentivano nuove urla e nuove invocazioni. Dopo pochi minuti, c'erano già trenta persone che urlavano istruzioni a subordinati inesistenti.

Canfield prese la ragazza dai ricci laccati, che gridava come un'aquila, e cominciò a scuoterla cercando di farla smettere. Continuava a ripeterle di telefonare alla polizia, ma la ragazza non era in grado di eseguire l'ordine. Canfield non voleva essere costretto a fare la telefonata, perché ciò avrebbe richiesto una concentrazione particolare. Voleva poter dedicare la sua attenzione a tutti gli individui presenti, specialmente a Basil, se fosse stato possibile.

Un signore distinto, alto, dai capelli grigi, in un doppio petto gessato, si precipitò nella stanza fendendo la folla diretto verso la segretaria e Canfield. «Miss Richards! Miss Richards! In nome di Dio, cosa è accaduto?»

«Abbiamo aperto la porta del suo studio e l'abbiamo trovato così, ecco cosa è accaduto» gridò Canfield al di sopra del rumore assordante delle voci eccitate.

E allora Canfield si fermò ad osservare con attenzione chi aveva fatto questa domanda. Dove l'aveva visto prima? Ma l'aveva poi visto? L'uomo era simile a molti altri tipi dell'ambiente degli Scarlatti. Perfino nei baffi perfettamente impomatati.

«Avete chiamato la polizia?» chiese il signore.

Canfield vide che Basil si faceva strada attraverso la folla isterica radunata presso la porta dell'ufficio. «No, la polizia non è stata chiamata» gridò l'americano mentre teneva d'occhio Basil che sempre più guadagnava terreno spingendosi tra la gente. «Chiamatela! Sarebbe una buona idea chiudere le porte!» Partì dietro a Basil come per fare quanto aveva detto. Il signore distinto con i baffi impomatati lo tenne per il risvolto della giacca.

«Dice di averlo trovato lei?»

«Si. Mi lasci.»

«Il suo nome, giovanotto!»

«Cosa?»

«Le ho chiesto il suo nome!»

«Derek! James Derek! Ora chiami la polizia!» Canfield prese il polso dell'uomo e lo compresse forte sulla vena. Il braccio ricadde dolorante e Canfield corse tra la folla dietro a Basil.

Il signore dall'abito gessato sobbalzò e si rivolse alla segretaria.

«Ha sentito il suo nome, miss Richards? Io non sono riuscito ad afferrarlo.» La ragazza singhiozzava. «Si, signore. Era Darren o Derrick. Di nome, James.» L'uomo dai baffi impomatati guardò attentamente la ragazza. Lei l'aveva sentito. «La polizia, miss Richards. Chiami la polizia!»

«Si, certo, signor Poole.» L'uomo chiamato Poole si fece strada tra la folla. Doveva tornare nel suo ufficio, doveva starsene per conto suo. Loro avevano fatto questo! Gli uomini di Zurigo avevano ordinato che Jacques venisse ucciso! Il suo migliore amico, il suo mentore, la persona più vicina a lui di qualunque altra al mondo! L'uomo che gli aveva dato tutto, che aveva reso ogni cosa possibile per lui.

L'uomo per cui aveva ucciso - e di buon grado! L'avrebbero pagata! L'avrebbero pagata, si, pagata!

Lui, Poole, non aveva mai abbandonato Bertholde finché era in vita e non l'avrebbe fatto neppure in morte!

Ma c'erano molti interrogativi, moltissimi interrogativi.

Questo Canfield che aveva mentito per quanto riguardava il suo nome. La vecchia signora, Elisabeth Scarlatti.

E più di tutti il mostruoso Heinrich Kroeger. L'uomo che Poole sapeva con assoluta certezza essere il figlio di Elisabeth Scarlatti. Lo sapeva perché glielo aveva detto Bertholde.

Si domandava se qualcun altro lo sapesse.

Sul pianerottolo del terzo piano, che ora era completamente invaso dagli impiegati di Bertholde in preda all'isteria, Canfield poteva vedere Basil sul piano inferiore che correva giù tenendosi alla ringhiera. Cominciò a urlare: «Fate largo, fate largo, c'è il dottore che aspetta! Devo andare a prenderlo! Fate largo!» Lo stratagemma funzionò abbastanza. Canfield riuscì a spingersi avanti più velocemente. Ma quando raggiunse la sala del primo piano, Basil era scomparso. Canfield corse fuori sul marciapiede attraverso l'ingresso principale. Basil era là, un isolato più lontano, zoppicante, nel bel mezzo della Vauxhall Road, che gesticolava nel tentativo di fermare un taxi. Le ginocchia dei pantaloni erano sporche di fango perché nella fretta di correre era caduto a terra.

Da molte finestre della Bertholde et Fils uscivano ancora delle grida, e decine di curiosi che passavano là sotto si fermavano ai piedi della scalinata dell'edificio.

Canfield avanzò a forza tra la folla dirigendosi verso la figura zoppicante.

Un taxi si fermò e Basil afferrò la maniglia dello sportello.

Mentre spalancava la portiera e saltava dentro, Canfield gli fu accanto e gli impedì di chiudere. Si mise a fianco di Basil, spingendolo in là perché gli facesse posto.

«Ehi, dico, cosa sta facendo?» Basil era terrorizzato ma non alzò la voce. Il tassista continuava a girare la testa, guardando ora la strada davanti a lui, ora la folla che si ritraeva al passaggio del taxi. Basil non voleva richiamare ulteriormente l'attenzione.

Prima che Basil potesse riflettere, l'americano gli afferrò la mano destra e tirò indietro la manica scoprendogli il polso. Gli girò il braccio mettendo in mostra il gemello rosso e nero.

«Zurigo, Basil!» mormorò il contabile.

«Di che cosa sta parlando?»

«Brutto idiota, io sto dalla sua parte! O meglio, ci starò se la lasceranno vivere!»

«Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!» balbettava Basil.

L'americano gli lasciò ricadere la mano. Guardava diritto avanti a sé come se ignorasse la sua presenza. «Lei è un idiota. Lo capisce, si o no?»

«Signore, io non la conosco! Non la conosco!» L'inglese era vicino a un collasso.

«Allora mettiamola in un altro modo. Può darsi che io sia tutto quello che le rimane.»

«Ora mi ascolti. Io non avevo niente a che fare con questa storia! Ero li con lei nella sala d'attesa. Non c'entro niente con questa storia!»

«Certamente, lei non è stato. E assolutamente chiaro che è stato l'autista. Ma molte persone si stanno domandando perché lei sia corso via. Forse stava solo assicurandosi che il lavoro fosse eseguito.»

«E assurdo!»

«Allora perché è scappato?»

«Io... Io...»

«Ora non parliamone. In che posto possiamo andare dove ci vedano per dieci, quindici minuti? Non voglio dare l'impressione che siamo scomparsi.»

«Al mio club... Credo.»

«Gli dia l'indirizzo.»



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