Un giorno di marzo, 2018

Il muro trasudava umidità, proprio come il selciato di una strada che brillava alla luce dei lampioni. Non si sentivano passi né voci, solo qualche goccia che cadeva dai cornicioni. Un camion della spazzatura aggiungeva il suo strepito lontano di tanto in tanto.

Guardai ancora una volta in tutte le direzioni per verificare che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. La strada era deserta. La notte scelta era ideale; l’ora, le tre del mattino, anche.

«Andiamo», mi dissi mentre appoggiavo le mani sull’arenaria e palpavo in cerca di qualche fessura che mi aiutasse a sollevarmi.

In pochi secondi, ero dentro. Atterrai nell’orto, in mezzo a enormi cavolfiori. Compresi subito che la mia paura di trovarmi faccia a faccia con un cane che avrebbe potuto avvisarle della mia presenza era ingiustificata. Lì non c’era nessun animale.

Corsi verso l’edificio principale del monastero quando vidi qualcosa che mi fece fermare immediatamente.

Erano belli, tutti uguali, orgogliosi e di un colore che, nonostante l’oscurità, si intuiva rosso come il sangue.

Mi avvicinai ad accarezzarli. Il loro lieve aroma di noci si mescolava al fresco della notte. Erano degli Early Abba, una varietà primaticcia che non aveva bisogno di troppe cure. La loro doppia fila di petali li rendeva inconfondibili. Erano i primi tulipani che avevo piantato dopo aver identificato il fiore che mia madre aveva nascosto tra i miei vestiti prima di abbandonarmi. Mi deluse intuire che poteva averlo raccolto proprio in quella fioriera.

Le varietà semplici come quella ormai non mi stimolavano più. Avevo creato un ibrido del quale mia madre sarebbe stata orgogliosa. Ero deciso a dimostrarle che suo figlio non si meritava di essere abbandonato. Emperor’s Mum. Mi piaceva il nome che gli avevo dato. Era il frutto di un lavoro ben fatto, di lunghe attese e fin troppe delusioni. Non era stato facile, ma alla fine i miei semi avevano raggiunto la fioritura. Ora avevo anche dei bulbi, che in quei giorni dormivano in attesa di svegliarsi per dare inizio alla parte più intensa della festa che avevo preparato.

E quella notte era cruciale nel mio piano. Se tutto fosse andato bene al monastero, solo i quattro mesi che le piante ci avrebbero messo a fiorire mi avrebbero separato dall’autentico finale col botto.

«Ciao», sussurrai al corridoio vuoto.

Sentivo uno strano odore, un misto di pasticcini, incenso e muri antichi. Il pavimento era di pietra lì sotto, nella parte nobile del monastero. Lo spazio era diviso tra la chiesa, una piccola foresteria per i visitatori e l’ingresso. Era strano vedere la ruota da dentro il monastero. Non so più quante volte mi ero trovato dall’altra parte di quel meccanismo. A mia madre piacevano tanto gli amarguillos delle suore, e toccava sempre a me andare a comprarli.

Non sentii nessun dolore pensando a lei. La ricordavo spesso prostrata nel suo letto dell’ospedale di Cruces, che si consumava a una velocità che aveva sorpreso anche i medici. Era morta sola, come doveva essere. E sola riposava in un lotto in affitto al cimitero.

La sua morte era stata solo l’inizio. Ora cominciava il bello, la seconda parte della mia vendetta.

Il primo contrattempo arrivò appena misi piede sulle scale che salivano al primo piano. Era lì che si trovava l’archivio del monastero se la mappa che mi ero procurato era corretta. Ma lì c’erano anche le celle delle religiose.

Il lamento del legno vecchio risuonò per l’edificio. E non fu solo il primo gradino. Ogni passo che facevo si traduceva in scricchiolii e cigolii che dovevano per forza segnalare alle monache la presenza di un intruso nel monastero.

Mi girai per tornare da dove ero venuto.

Mi maledissi da solo. Non potevo gettare la spugna proprio lì, a un passo dal mio obiettivo. Erano solo delle monache. Nel peggiore dei casi si sarebbero spaventate nel vedermi e sarebbero scappate di corsa.

Continuai a salire fino a sboccare su un lungo corridoio sul quale si aprivano due file di porte. Erano tutte chiuse e non si percepiva alcun movimento. L’oscurità era quasi assoluta.

«Le celle», mi dissi.

Dovevo percorrere tutto il corridoio per raggiungere l’archivio. Era davvero come infilarsi nella bocca del lupo.

Prima di farlo, trattenni il respiro finché l’unico suono furono i battiti del mio cuore. E mi sembravano così forti che arrivai a temere potessero svegliare le religiose che dormivano dietro quelle porte.

«Sono solo delle monache», ripetei tra me e me.

Nel tentativo di fare meno rumore, mi sfilai le scarpe. Poi mi incamminai verso la biblioteca.

Russamenti, colpi di tosse e perfino dei bisbiglii mi arrivarono da dentro le celle. I crocifissi appesi ovunque e le sante che mi osservavano dalle pareti mi facevano venire la pelle d’oca. Mi sentivo osservato.

Non andò meglio quando finalmente entrai nell’archivio e accesi la lanterna. La Vergine Maria che sorvegliava la sala era così realistica che i suoi occhi sembravano seguire ogni mio movimento. La sua ombra ballava sulla parete ogni volta che il fascio di luce si muoveva in una direzione o nell’altra.

Gli scaffali erano un curioso compendio di biografie di santi e libri di gastronomia. Non mi soffermai a leggere i titoli, non era quello che mi interessava. Percorsi con la torcia le varie mensole e fui sul punto di pensare che non l’avrei trovato. Eppure eccolo lì, in un angolo qualsiasi. I dorsi di pelle con i titoli impressi a lettere dorate lasciavano d’un tratto il posto a quaderni a spirale e ad annuari invecchiati. C’erano anche decine di lettere conservate insieme e cartelline blu piene di documenti.

Ci misi un bel po’ a trovarlo. Quelle donne conservavano ogni cosa, dalle fatture per i ceri pasquali a vecchie ricette di dolci che ormai non producevano più.

Erano quasi le cinque del mattino quando lo trovai. Era un libro contabile con lunghi elenchi di nomi e cognomi.

DONATORI. RICEVENTI.

Il titolo che sovrastava ogni elenco non poteva essere più eufemistico. Come poteva essere definito in tal modo chi abbandonava un neonato e chi lo comprava?

Sfogliai le pagine fino a trovare il ’79, il mio anno di nascita.

Lì c’era quello che cercavo.

Dei nomi di donna e dei nomi di famiglie. I primi corrispondevano chiaramente alle madri che avevano abbandonato i bambini nel monastero; le famiglie erano quelle che li avevano portati via. Trovai il cognome dei miei genitori adottivi annotato su quella pagina.

Ero euforico. Appena i miei tulipani fossero fioriti avrei potuto eliminare la donna che mi aveva tradito e mi aveva negato la vita che meritavo.

Stavo ancora festeggiando il mio trionfo quando mi accorsi che non sarebbe stato così facile. Da quell’elenco non era possibile stabilire una chiara corrispondenza tra i nomi di donna e quelli delle famiglie. Non c’erano i nomi dei bambini, né alcuna data di nascita. Sapevo come si chiamavano le madri, ma quali di quelle sette era la mia?

«Maledizione», mormorai tra i denti.

Un rumore alle mie spalle mi fece sobbalzare. Spensi la lanterna e attesi per qualche istante. Non si sentiva più nulla. Solo qualche sospiro spento dalla distanza. Né si percepiva alcun movimento nel corridoio. Era stato un falso allarme, ma bastò a ricordarmi che non potevo trattenermi oltre.

Strappai dal libro il foglio che mi interessava e lasciai il resto al suo posto.

Appena misi il primo piede in corridoio, un cigolio mi fece bloccare sui miei passi.

Qualcuno aveva aperto la porta di una cella.

Di nuovo il cuore mi batteva all’impazzata.

Una figura apparve in mezzo al corridoio. Non era che un’ombra. Si era fermata e mi osservava. Probabilmente era spaventata quanto me.

Non avevo previsto una cosa del genere. La monaca mi impediva di raggiungere l’uscita. Dovevo correre e, se necessario, travolgerla o non sarei mai riuscito ad abbandonare il monastero. Avevo le informazioni che mi servivano, non potevo permettere che una di quelle religiose mandasse in pezzi il mio piano.

Stavo per darle uno spintone quando la riconobbi. Era la madre superiora. D’un tratto sentii una rabbia irrazionale. Quell’anziana aveva diretto il monastero per tutta la vita. Me la immaginai mentre mi consegnava all’armatore che mi portò a casa con l’intenzione di far felice la donna che fin dal primo giorno mi odiò con ogni fibra del suo essere.

Successe tutto così velocemente che non ricordo nemmeno come andarono le cose. So solo che strinsi le mie mani attorno al suo collo con forza finché non rovesciò gli occhi e smise di respirare. L’avevo uccisa. O questo pensavo allora.

Mi guardai intorno. Temevo che la nostra lotta avesse svegliato qualcuno.

Non c’era nessuno.

Ero euforico. Ero diventato Dio. Decidevo chi doveva vivere e chi no. E quella volta era stato molto più semplice che con mia madre, che mi aveva richiesto mesi di avvelenamento.

In quell’istante, di fronte alla religiosa stesa a terra e nella penombra di quel corridoio, capii che l’opera che mi disponevo a realizzare doveva essere di una portata maggiore. Se non sapevo qual era mia madre tra le donne della lista avevo solo un’alternativa. E mi piaceva molto.

Le avrei uccise tutte.

La mia vendetta sarebbe stata indimenticabile.

La danza dei tulipani
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