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26 ottobre 2018, venerdì

Le strade sono bagnate, trasudano una tristezza che il cielo coperto dell’alba non può attenuare. I negozi che si allineano sotto i portici della rúa de Vilar sono chiusi, come la maggior parte delle osterie che a mezzogiorno saranno tutte un brulichio di turisti e gente del posto.

Santiago de Compostela dorme ancora. Lei invece ha dormito appena, tesa per l’operazione contro il clan di Meirás.

Un veicolo per la pulizia delle strade, con il frastuono delle sue spazzole girevoli, si dà da fare negli angoli di plaza de las Platerías, coprendo la cantilena della fontana che sazia la sete dei pellegrini da centinaia di anni. Cestero prende un sorso da uno dei suoi quattro rubinetti di granito a forma di cavallo. Ha la bocca secca. E ha sonno, molto sonno. Si è alzata prestissimo per giungere dall’estuario di Pontevedra fino alla capitale galiziana con il primo autobus del mattino. Vuole completare il bozzetto della vita di Isabel Otero con l’aiuto della sorella della vittima, e ha bisogno di farlo prima di tornare a Gernika.

Le campane della cattedrale segnano le sette e mezza. È l’ora. La ertzaina osserva le strade che confluiscono nella piccola piazza. Conta solo cinque o sei persone nelle vicinanze. Una solleva la saracinesca di una panetteria, una distribuisce giornali a domicilio e alcune altre camminano di fretta. Sono ombre silenziose che ballano in quell’eterea atmosfera creata dalle prime luci del giorno che si scontrano con un mondo ancora governato dal chiarore dei lampioni. A quell’ora tutte le città hanno in comune l’assenza di passanti calmi e tranquilli; nessuno esce di casa prima che canti il gallo se non per dirigersi al lavoro.

«Bos días1

Il saluto arriva da dietro. Cestero si gira e incappa nel volto di Pilar Otero. La riconosce appena. Dove sono gli occhi piagnucolosi e il volto triste che aveva al cimitero? La sorella della defunta sembra un’altra donna. Il trucco fa davvero miracoli.

«Grazie per essere venuta», dice Cestero stringendole la mano.

«Grazie a te. Il tenente sa che sei qui?»

Cestero sente il piercing battere contro i suoi incisivi. Una risposta sbagliata potrebbe mandare all’aria l’incontro, ma una bugia non le sembra il miglior modo di cominciare. L’acqua della fontana fa in modo di riempire quel silenzio teso. La sottufficiale non è in grado di trovare un argomento convincente. Ha un urgente bisogno di caffeina, o la sua mente non sarà pronta per nessun interrogatorio.

«Posso offrile un caffè?», chiede Ane.

Pilar Otero dà un’occhiata all’orologio.

«Mi resta un quarto d’ora. Poi dovrò aprire il negozio. E non mi dare del lei, per favore. Mi fai sentire vecchia.»

La ertzaina segue la donna per rúa de Xelmírez. Ogni secondo che passa senza che Pilar torni sulla questione Pombo è una vittoria. E ne passano molti, in silenzio, mentre camminano tra anime che sbadigliano e pietre cariche di storia.

«Ho bisogno di sapere tutto quello che ricordi degli anni che avete passato nei Paesi Baschi», le anticipa Cestero.

«Tu non credi che mia sorella sia stata vittima del caso, vero?», chiede la galiziana. La cantilena delle sue parole si intona perfettamente con quelle strade in cui regna la malinconia. «Vorrei poter continuare a credere che il tenente abbia ragione, e che quel maledetto veleno non fosse destinato nello specifico a Isabel. Però ormai non lo penso più nemmeno io. Ho bisogno di altre risposte.»

Un furgone scarica delle pagnotte davanti a una panetteria. L’odore di pane fresco impregna il freddo del mattino e risveglia lo stomaco di Cestero. Ma prima ha bisogno di un caffè.

«Eccoci qui. Ti dispiace se lo prendiamo da portar via? Così non arrivo tardi», chiede la donna.

Cestero si stringe nelle spalle. Basta che abbia della caffeina, il resto non conta.

«Per me, un caffè doppio», chiede avvicinandosi al bancone.

«E per te macchiato, Pilar?», domanda la panettiera.

«Sì, Muxía. E che non sia troppo forte. Come va il tuo Manuel, si sta riprendendo?»

Un’espressione astiosa anticipa la risposta della donna.

«Va meglio, ma non se lo merita. Ti sembra che con un catarro simile uno dovrebbe continuare a fumare? Sono stanca di preoccuparmi per lui se non è il primo a prendersi cura di sé stesso.»

I caffè fumano sul bancone. Un rapido saluto e le due donne sono di nuovo in strada. Cestero si sente meglio. Ha bevuto solo un paio di sorsi dal bicchiere di carta, ma il gusto amaro ha già risvegliato le sue papille gustative e invade a poco a poco tutto il suo corpo.

«Ne avevo bisogno, grazie. Ora comincio a essere in grado di pensare. Che ne dici se cominciamo?»

Pilar fa un gesto affermativo. Il colore del suo volto, prima leggermente aranciato, si è fatto più livido. I lampioni si sono spenti e lo scarso calore che potevano dare alle strade è sfumato insieme alla loro luce.

«E che cosa vuoi che ti racconti? Non ricordo poi molto di quegli anni. È passato parecchio tempo ed ero solo una bambina quando abbiamo lasciato Durango.»

«Lo so, ma sono certa che puoi aiutarmi. Vedrai», Cestero beve il resto del caffè in un sorso e prende taccuino e penna. Non vuole sottovalutare nessun dettaglio. «Che cosa ricordi della morte di tuo padre? C’è stata qualche indagine sull’accaduto?»

«No. E se c’è stata, mamma non ci ha raccontato niente. È stato solo un incidente. Un braccio gli è rimasto incastrato in una pressa e...» La donna serra le labbra. «Be’, una cosa molto spiacevole. I colleghi hanno cercato di tirarlo fuori, ma non c’è stato niente da fare.»

«Mi dicevi che l’azienda vi ha pagato un indennizzo e che hanno offerto un lavoro a tua sorella.»

«Esatto. Isabel ha cominciato a lavorare poco dopo la morte di papà. Stava negli uffici. All’epoca le donne non facevano altro in una fabbrica come quella. Non so se le piaceva quel lavoro. Credo di no, perché non ne parlava mai. E poi, dopo qualche mese è venuta fuori la storia del convento. Questo è un segno che non si trovava bene immagino...» Pilar saluta con la mano un uomo che sta portando a spasso un cane che annusa ogni angolo di strada. Poco più in là, un parroco con una sottana lunga fino ai piedi apre la porta della chiesa di San Bieito. «È che la morte di papà è stata molto dura da superare.»

Cestero annota ogni cosa. Poi avrà tempo di analizzarne i dettagli con calma. Ora è il momento delle domande. E c’è qualcosa che le sembra meritarne più di una.

«Che cos’è la storia del convento? Voleva farsi suora?»

«Non proprio. È andata per un po’ a Lourdes come volontaria. Dava una mano con i pellegrini. C’è molta gente anziana che arriva al santuario, non è come il cammino di Santiago. No, a Lourdes ci vanno solo i vecchi e gli invalidi.»

«Che cosa le ha raccontato di quell’esperienza?»

Pilar scuote la testa.

«Non le piaceva parlarne.»

«Neanche di questo, quindi. Né della fabbrica né di Lourdes.»

La donna ignora il commento.

«Ha passato diversi mesi con le religiose. Era un monastero di Gernika che organizzava i soggiorni in Francia. Io sono arrivata a pensare che mia sorella avrebbe deciso di farsi suora. Ero così felice quando è tornata.»

«Ricordi il nome del monastero?»

«Proprio no. Probabilmente non l’ho mai saputo. Erano suore di clausura, questa è l’unica cosa che ricordo.»

«E che ne è stato del lavoro in fabbrica? Ha ripreso al suo ritorno?»

«No, credo che non ci abbia nemmeno provato. Era partita per Lourdes in fretta e furia. A me non raccontavano niente, ero ancora troppo piccola, ma deve essere successo qualcosa di strano. Una delusione d’amore, un problema alla fabbrica...» Pilar tace, pensosa. Alza gli occhi al cielo, seguendo il volo di un colombo che si ferma sul cornicione di un palazzo vicino. «È successo tutto dalla sera alla mattina. Un giorno è arrivata dalla cartiera, lei e mia madre si sono chiuse in una stanza, e il giorno dopo è andata a Lourdes. Ho ancora impresso nella memoria il silenzio di quella sera a cena e gli occhi pieni di lacrime di entrambe.»

La penna di Cestero corre a più non posso sulla carta.

«Sai che cosa le preoccupava?»

«No, ma sono sicura che qualcosa deve essere successo per spingere Isabel ad andare a Lourdes.»

Varie possibilità attraversano veloci la mente della ertzaina. Di tutte, quella che prende più forza mostra Isabel Otero vittima di qualche genere di abuso, forse da parte di uno dei suoi superiori. All’epoca, quando i diritti delle donne erano ancora una lontana utopia, la soluzione di entrare in convento poteva essere la più naturale.

«Non ne hai mai parlato con Isabel? Nemmeno anni dopo?» Cestero è veramente stupita per quella mancanza di comunicazione tra le sorelle. Non che lei con Andoni parli molto di più, ma ha sempre creduto che se avesse avuto una sorella le cose sarebbero andate diversamente.

«Mai», assicura Pilar. Ha ripreso a camminare. Sta piovigginando, ma la donna non apre l’ombrello che ha in mano. «Dopo quella storia Isabel non è mai più stata la stessa. Secondo me si è pentita di non essere rimasta in convento. Quando è tornata era distrutta. Subito ho pensato che fosse per l’esperienza che aveva vissuto, circondata da tanti malati e anziani, ma credo che sotto ci fosse qualcosa di più grave. Forse voleva prendere il velo e non è riuscita a fare il grande passo di rinchiudersi per il resto dei suoi giorni.»

Cestero valuta quella possibilità.

«Quanto tempo è passato da quando Isabel è tornata da Lourdes a quando avete lasciato Durango?»

Pilar mormora tra i denti, fa dei calcoli che Cestero riesce a seguire solo a spizzichi e bocconi. Alla fine la donna si volta verso la poliziotta.

«Circa un anno. Era l’81 quando siamo arrivate a Vigo, e mia sorella è tornata da Lourdes nel ’79. Lo so perché io andavo a scuola e le mie compagne erano rimaste a bocca aperta quando gli avevo raccontato che Isabel era andata in Francia con le suore.»

Cestero scarabocchia gli anni sul taccuino.

«È successo qualcosa in quell’ultimo anno che ha motivato il vostro ritorno in Galizia?»

Pilar fa segno di no con la testa.

«Ricordo solo che a casa, tra mia madre e mia sorella, c’era tanto dolore. Io cercavo di passare più tempo possibile lontana da loro due, perché erano l’amarezza fatta persona.» D’un tratto tace, mortificata per la vergogna. «Capiscimi, a quell’età uno non pensa ad aiutare. Vuole solo divertirsi e fuggire dai problemi che ha in famiglia... Mia sorella senza lavoro e come un’anima in pena, mia madre distrutta per la morte di papà... Poi un bel giorno mia madre ha deciso che per stare a Durango a sprecare tempo e denaro era meglio tornare in Galizia.»

«Voi eravate adolescenti. Avrete avuto delle amiche, forse anche un fidanzato. Non avete protestato?»

Pilar si fa scappare un sospiro.

«Io molto. Ero nata a Durango. Mi sentivo basca, non galiziana. Per me è stato un dramma.»

«E per Isabel?» È la sua reazione che importa a Cestero.

«Per lei andava sempre bene tutto. Come ti dicevo, non stava passando un buon periodo. A un certo punto io l’ho perfino incolpata di ogni cosa. Se Isabel non avesse lasciato il lavoro alla cartiera non saremmo arrivate a quella situazione.»

La vicinanza della piazza del mercato si sente nell’aria. C’è più movimento. Gente che va e viene carica di verdure e carriole piene di pesci che affacciano i loro occhi inespressivi tra le schegge di ghiaccio. Tra mezz’ora i clienti cominceranno ad arrivare e bisogna preparare tutto per l’apertura.

«Volete dell’aglio? È di ottima qualità, dura tutto l’anno», propone una zingara che ha deciso di cominciare a vendere prima del solito orario.

«No, grazie», le dice Pilar.

«Dai, tesoro, che te ne lascio due al prezzo di una. Guarda come sono grosse.» La venditrice avvicina una delle teste di aglio intrecciate che porta in una busta di plastica sul punto di scoppiare.

«No, davvero. Devo aprire il negozio» si scusa Pilar, indicando una piccola ferramenta dall’altra parte della strada.

La zingara le lancia una maledizione tra i denti e si allontana in cerca di un’altra cliente.

«Ricordi se Isabel ha avuto qualche fidanzato nel periodo in cui vivevate a Durango?», chiede Cestero. Per tracciare una sorta di biografia della vittima non può lasciare nulla in sospeso.

Pilar infila la chiave nella serratura del negozio mentre scuote la testa.

«No. Finché non ha conosciuto Arsenio quando aveva più di trent’anni, non mi risulta che mia sorella abbia avuto altre storie. Nemmeno amici speciali, o cose del genere. Ti dico che secondo me voleva farsi suora.» La donna si fa da parte per farla entrare. «Entra, prego.»

Cestero non sa se seguirla o congedarsi. Alla fine decide di entrare. Il pavimento di legno, consumato dai passi di migliaia di persone, si intravede appena tra le decine di oggetti che occupano ogni angolo. È un piccolo negozio, dietro il bancone ci sono una serie di scaffali allineati che formano tre corridoi stretti e colmi di articoli da ferramenta e utensili per la casa.

«È stato il nonno di mio marito a metter su questo negozio», spiega Pilar. «A mio marito piacerebbe che una delle nostre figlie lo portasse avanti, per la quarta generazione. Io però le spingo a studiare, dico loro che questa è una schiavitù. E si vende sempre meno. Quando moriranno i vecchi non avremo più clienti.»

«Isabel non ha mai avuto figli?»

Pilar nega con la testa mentre cerca di accendere una stufa a butano. L’odore di gas si diffonde rapidamente per il locale.

«Non voleva nemmeno sentirne parlare. Poi credo che se ne sia pentita, ma ormai era troppo tardi.»

Cestero prende nota sul suo taccuino, pieno di scarabocchi che solo lei potrà mai decifrare.

«Tua sorella aveva ancora amici d’infanzia nei Paesi Baschi?»

«No, nessuno», assicura Pilar, azionando il regolatore della stufa. Il calore si diffonde rapidamente per il negozio di ferramenta. «Io ho un gruppo WhatsApp con gente di lì. Li vado a trovare, loro vengono qui... Come avrei potuto cancellare in un colpo solo tutta la mia infanzia? Isabel, invece, l’ha fatto. È come se tutto quanto avesse smesso di esistere per lei il giorno in cui siamo tornate.»

La ertzaina chiude il taccuino. Crede di aver raccolto abbastanza informazioni, almeno per il momento.

1. Buongiorno in galiziano.

La danza dei tulipani
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