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2 novembre 2018, venerdì
Il lamento si ripete a distanza di pochi secondi; è un suono gutturale, una richiesta di aiuto soffocata da un bavaglio. È una donna, Julia lo sa, e riesce a immaginare la sua faccia. La stessa che ha visto fugacemente quando si è aperta quella porta davanti alla quale ha perso conoscenza. Aveva la speranza di riuscire a chiudersi in casa e chiedere aiuto. Non è andata così, l’Assassino del Tulipano le ha prese tutte e due. Perché, anche se non può vederla, ha già deciso chi è la proprietaria di quel lamento: Sara Carretero, una donna che potrebbe essere la sua vera madre.
«Mmmffffjjj!» La sua compagnia di prigionia chiede aiuto ancora una volta.
Julia le risponde con un suono che non differisce molto da quello che sente.
La delusione che prova per se stessa è insopportabile. Immagina la rabbia della sottufficiale, anche se non è per questo che il senso di colpa la tortura: il punto è che se si fosse presentata in quella solitaria casa di Lamiaran con una volante, ora Sara sarebbe sotto protezione, non sequestrata in un freddo seminterratto vicino all’estuario.
«Mmmfffjjj!»
Julia cerca di liberare le braccia. Ce le ha legate dietro la schiena, le fanno male, ma non quanto la spalla destra. Ha le gambe addormentate, costantemente scosse dai crampi. Cerca di separarle, ma sono legate con forza. L’unica cosa che riesce a fare è girare su se stessa, e verificarlo le dà un certo sollievo. Al contrario di quanto credeva, non è legata a nulla. È stata depositata a terra come se fosse un semplice fardello, e niente di più.
Dove sarà l’essere spietato che le tiene chiuse lì?
Forse è proprio lì, accanto a loro, che le osserva senza essere visto. No, sicuramente starà sistemando ogni cosa per mettere fine alle loro vite. Quanto può essere brutale la scena del crimine che ha immaginato questa volta? Chiederselo le mette le vertigini. E poi il senso di colpa, certo. La sua goffaggine ha condannato quella donna a una morte certa. È stata un’incosciente.
«Mmmfffjjj!»
Julia si gira su se stessa in direzione del lamento. Vuole arrivare vicino a Sara. La gamba di un tavolo, o qualcosa di simile, le ostacola il percorso colpendole la spalla. Non fa male, ma la obbliga a fare un esercizio di contorsionismo per riuscire a schivarla e avvicinarsi il più possibile alla sua presunta madre.
Finalmente si scontra con lei.
«Mmmfffjjj!»
Il contatto le risulta piacevole. Sente il calore del suo corpo. Anche lei è legata. Se così non fosse, le poserebbe una mano sulla spalla per tranquillizzarla, come farebbe una madre, o la aiuterebbe a liberarsi da quei legacci. Julia posa la testa sul torso della sua compagna di prigionia e, nonostante non riceva alcuna carezza, si sente confortata. Di chi sono quei singhiozzi, di Sara, suoi, o di loro due insieme?
Julia percepisce ancora una volta il retrogusto amaro del senso di colpa. Come ha potuto rovinare tutto in modo così irresponsabile? Doveva andare a Lamiaran con la Polizia, e forse ora l’Assassino del Tulipano sarebbe dietro le sbarre.
È stata un’egoista.
«Mmmfffjjj!»
A differenza del bavaglio che le copre la bocca, e che si tende con forza contro la sua nuca, il nastro che le impedisce di vedere non sembra fare il giro completo della testa. La tensione dell’adesivo raggiunge solo le tempie, e non va oltre.
Scoprirlo le dà una lieve speranza. Forse riuscirà a liberarsene. Così riuscirebbe a vedere dove si trova e non sarebbe più immersa nella totale oscurità. Non che questo le permetta di scappare, ma almeno potrebbe farsi un’idea del tipo di luogo dove sono rinchiuse.
Il calcestruzzo ruvido sul quale sono stese diventa il suo alleato. Sdraiata a pancia sotto, comincia a sfregare la tempia destra contro il pavimento. L’estremità del nastro non tarda a staccarsi dalla sua pelle. Non è più di un centimetro, ma da qualche parte si dovrà pur cominciare.
«Dai, ancora un pochino» dice a se stessa, mentre stringe i denti nel tentativo di sopportare il dolore.
L’adesivo sembra cedere a ogni nuovo tentativo. Anche la sua pelle. Il calcestruzzo è troppo abrasivo e le graffia la faccia senza pietà. Sente le gocce di sangue che le accarezzano la fronte, e il dolore lacerante della carne viva sulla tempia. Le fitte della ferita che accompagnano ogni battito del suo cuore le fanno venire le lacrime agli occhi. O forse è l’impotenza di trovarsi in una situazione simile.
I lamenti della sua compagna di prigionia diventano a tratti più dolorosi. Soffre per Julia, sembra che possa vederla.
Solo ancora un po’.
Avvicina di nuovo il volto a terra, fa un respiro profondo e sfrega di nuovo la tempia su quel cemento grezzo. Le sue corde vocali si lasciano scappare un gemito che le labbra chiuse trattengono.
D’un tratto, quando è sul punto di arrendersi, un raggio di luce viola si insinua all’angolo del suo occhio destro.
La prima cosa che vede è la donna. È stesa di fianco, la osserva, perché Sara non ha nulla a coprirle gli occhi arrossati dal pianto. Per il resto tra loro non ci sono grandi differenze. È legata mani e piedi come la ertzaina e ha un bavaglio alla bocca.
Sara Carretero la osserva con un miscuglio di pena e timore. Glielo legge negli occhi, che sono belli nonostante mostrino una stanchezza che non corrisponde ancora alla sua età. La tensione a cui quella prigionia la sottopone ne avrà senz’altro la colpa, ma non tutta, perché Julia ricorda di aver avuto la stessa sensazione quando la sua possibile madre le aveva aperto la porta quella mattina stessa. O sono passati giorni interi da quell’incontro a Lamiaran?
La luce è strana, si spande da lampade scure appese a un soffitto non troppo alto. Una struttura metallica regge una bacinella ampia ma poco profonda, dalla quale emergono decine di tulipani, rossi come la passione e come il sangue delle vittime a cui sono destinati.
Julia si volta in tutte le direzioni. C’è una porta di metallo, semplice, e le pareti sono prive di qualunque decorazione. Nemmeno una vaga lucidatura che nasconda i blocchi ci cemento. C’è una finestra allungata sulla parte superiore di uno dei muri. Il chiarore del giorno filtra dai vetri, un chiarore scarso, da giornata nuvolosa.
Ed ecco cos’è che generava quel ronzio: la turbina di un climatizzatore. A Julia ricorda le piantagioni di marijuana che lei e i suoi colleghi hanno scovato più di una volta, anche se in questo caso si tratta di tulipani che danzano cullati dalla corrente d’aria.
«Mmmfffjjj! Grrrhhh!»
La donna sta cercando di dirle qualcosa.
D’un tratto, la porta si apre. Il tempo si congela, proprio come il sangue nelle vene di Julia quando riconosce il volto del suo aguzzino. Le domande si accalcano nella gola della ertzaina. Il bavaglio le impedirà di farle.
«Che cosa hai fatto? Sei una stupida. Non dovevi vedermi...», si lamenta l’individuo appena arrivato, dandosi un colpo sulla fronte. «Ora sono costretto a ucciderti.»