Un giorno di giugno, 1985

Era passato poco più di un mese dal giorno della festa della mamma. Faceva caldo, l’estate era alle porte e in piazza iniziava ad accumularsi una montagna di legna che sarebbe bruciata giorni dopo, la sera di San Juan. A noi piccoli, come ci chiamavano i ragazzi più grandi, non era permesso partecipare ai preparativi, ma quando si distraevano aggiungevamo qualche ramo secco che trovavamo nel bosco. Così passavano i giorni, tra pantaloni corti e molte ore per strada.

Non doveva essere molto tardi quando suonai il campanello. Era ancora chiaro. Be’, certo non vuol dire poi molto in giugno, visto che si andava a dormire con il cielo ancora azzurro... Non dimenticherò mai il sorriso con cui mi ricevette aprendo la porta. Era raggiante, tutta lei emanava luce.

Fu l’ultima volta che la vidi così felice.

«Com’è andata, tesoro, i grandi ti hanno lasciato aiutare con il falò?»

La domanda arrivò accompagnata da un sonoro bacio sulla guancia e da qualcosa di simile a un abbraccio.

Mi sconcertò quell’accoglienza quando solo qualche ora prima avevo visto il regalo della festa della mamma sul ripiano della cucina. Ancora da scartare, ovviamente.

«È tornato l’aita1?» Non mi veniva in mente altro motivo perché fosse così contenta.

La mia ama si mise a ridere e mi arruffò i capelli.

«No. Ci vorrà ancora qualche settimana, ma sicuramente sarebbe contentissimo di essere qui oggi.»

Mi affacciai in cucina. Nel forno c’erano dei maccheroni gratinati, il mio piatto preferito. Tuttavia, il cavallino era ancora lì nel suo involto. Le lettere multicolore facevano ancora gli auguri a una madre che non mostrava alcun interesse a sapere che cosa c’era dentro.

«Sono sicura che hai fame, oggi non hai nemmeno fatto merenda», mi disse la ama invitandomi a sedermi a tavola. La sua mano mi scompigliò di nuovo i capelli con affetto.

Certo che avevo fame, e certo che non avevo fatto merenda. La facevo solo quando lei veniva all’uscita di scuola a portarmi un panino, e succedeva sempre più di rado. Per fortuna i miei amici di solito la merenda ce l’avevano e ne dividevano un po’ con me. Almeno riuscivo a ingannare lo stomaco perché non protestasse troppo.

«Vai a lavarti le mani, su. Io nel frattempo preparo il piatto», mi disse, aprendo il forno. L’odore del formaggio gratinato mi fece venire l’acquolina in bocca.

Corsi al lavandino e nemmeno l’acqua fredda riuscì a spegnere la mia euforia. Mi sentivo felice, amato e apprezzato. Non posso dire che fosse una situazione totalmente nuova, ma era davvero troppo tempo che non la sperimentavo.

«Com’è andata a scuola?», mi chiese appena tornai al tavolo.

Mi portai alla bocca una forchettata di maccheroni. Erano deliziosi e il formaggio dorato era bello croccante, come piaceva a me. Ora non mi dice granché, ma all’epoca mi sembrava un piatto squisito, degno di un re.

«Ci siamo divertiti un sacco. Abbiamo fatto un mercatino in classe. Io mi occupavo del banco del pesce. Vendevo calamari, sardine, cozze e merluzzo. Ah, e anche scampi. Maria diceva che erano gamberetti, perché erano molto piccoli.»

«Che bello! E chi comprava?»

«Be’, gli altri, per tutta la settimana abbiamo disegnato e tagliato soldini di carta, e anche tutti i prodotti da vendere. Io ho fatto le sardine, le pere e le monete da venticinque pesetas.»

Mia madre mi ascoltava con attenzione, e annuiva senza perdere quella luce negli occhi che mi sembrava così poco abituale. Eppure il regalo era ancora lì, nel suo involto. Mi faceva male vedere i migi auguri per la Festa della Mamma dimenticati vicino al lavandino.

«Ho una notizia da darti», mi disse d’un tratto. Il suo sorriso si fece ancor più raggiante, il volto intero le si illuminò. «Avrai un fratellino.»

Ci misi un po’ a rispondere. Mi immaginai una creatura con pochi capelli e il pannolino che gattonava per casa e mi si arrampicava sulle gambe. Mi piaceva l’idea? Credo di sì, anche se proprio non morivo dalla voglia.

«E cosa sarà, maschio o femmina?»

«Non lo so, tu cosa preferisci?»

Feci spallucce. La verità era che per me era uguale.

«Femmina» dissi, vedendo che lei aspettava una mia risposta.

«Anche io voglio una femmina», riconobbe mia madre accarezzandosi la pancia. «Tuo padre preferisce un maschio. Gliel’hanno detto stasera via radio ed era tanto contento.»

Un sole enorme si disegnò nella mia mente, un sole arancione che galleggiava a poca distanza da un mare calmo. Il profilo di una barca si stagliava sulle onde. Lì c’era mio padre, in coperta, che dirigeva i suoi uomini, impegnati a tirare su delle reti colme di guizzi argentati... La magia delle onde gli aveva portato la bella notizia e sicuramente quella sera avrebbero brindato con un buon vino per festeggiare.

«Verrà a scuola con me?», chiesi. In qualche modo avevo sempre invidiato chi aveva fratelli o sorelle minori da proteggere quando qualcuno gli dava fastidio.

«Certo. Ti occuperai di lei?» Ricordo che mia madre cominciò a parlare come se sapesse che si trattava di una bambina. Lo fece per tutto il resto della gravidanza, e tutti ci abituammo a parlare del futuro fratellino al femminile.

«Nessuno le farà mai del male», promisi. Ero contentissimo di avere d’improvviso una missione importante in famiglia.

«Così mi piaci», disse la ama, regalandomi un bacio mentre ritirava il piatto. L’avevo lasciato così pulito che sembrava appena uscito dalla credenza.

Stavamo per mangiare il dolce quando suonò il campanello. Era Goyita, la donna che viveva al piano di sopra. Era la vicina speciale su cui potevi contare ogni volta che avevi bisogno di qualcosa. Quante volte ero rimasto a casa sua quando ero piccolo e i miei genitori dovevano uscire? Sarebbe impossibile contarle tutte.

«Congratulazioni, tesoro... Che gioia!» Riconobbi la sua voce appena mia madre le aprì la porta. «Di quanti mesi sei? Ah, quella pancetta inizia già a crescere...»

«Tu credi? A me sembra che non si veda ancora. Sono solo di tre mesi e mezzo... Che cos’hai lì, pandispagna? Vieni, vieni. Non restare sulla porta.»

Goyita si sedette al tavolo con noi e per qualche minuto ci fu spazio solo per auguri e congratulazioni. Poi si alzarono tutte e due e mi lasciarono a tavola, a finire il pandispagna. Era buonissimo, come tutto quello che preparava la nostra vicina.

«Voglio mettere la culla qui, vicino al termosifone», sentii dire a mia madre qualche passo più in là.

«Sì, sì. Meglio che stia al caldo. Ti regalerò io una coperta che era dei miei figli. Non deve prendere freddo, che nascere a dicembre non è mica facile...»

«Sarà tra i piccoli della classe.»

Tra i piccoli... Con lo zucchero del dolce che mi inondava la bocca, volai mentalmente fino al cortile della scuola. Non era difficile immaginare i ragazzi più grandi che importunavano i piccoli. Questo non sarebbe mai successo al mio fratellino, perché io mi sarei impegnato a fondo e avrei fatto in modo che tutti lo rispettassero. Nessuno avrebbe mai osato rubare il pranzo o la palla a un bambino con fratelli o sorelle più grandi.

«Dovrò mettere una stufa in bagno. Anche nel tuo fa così freddo?»

Goyita e mia madre continuavano il loro giro per l’appartamento. Qui questo, qui quest’altro. Ricordo che mi sembrava strano sentir parlare di stufe quando avevamo le finestre spalancante per combattere il caldo. Stufe, culle, passeggini e biberon... Il mondo in casa nostra era appena cambiato. Ricordo che avevo le vertigini al pensiero di quello che sarebbe successo, ma ero soprattutto molto contento. La stessa contentezza che mia madre sprizzava da tutti i pori. Era bellissimo vederla così felice.

1. Papà.

La danza dei tulipani
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