Ottobre 1995

Del giorno in cui tutto è cambiato ho ricordi annebbiati. Ed è meglio così, perché ci sono esperienze nella vita che è meglio cancellare dalla nostra mente se vogliamo andare avanti.

Era ancora ottobre, c’era tutto l’anno scolastico davanti, e a me sembrava una montagna che non sarei mai stato in grado di scalare. Volevo solo dormire tutto il giorno, non alzarmi mai più. Perché farlo se la vita non mi riservava altro che sofferenza?

«Sei già tornato?», mi chiese mia madre vedendomi arrivare. «Chissà se ti togli quella faccia triste una buona volta, che nessuno può vivere in questa casa con tanta amarezza addosso.»

Fui sul punto di risponderle che era colpa sua. Come potevo essere capace di sorridere se passavo la giornata tra rimproveri e disprezzo?

Non feci in tempo, perché prese la borsa e se ne andò. Lo faceva ogni pomeriggio appena io apparivo in casa.

«Quella faccia triste...», ripetei le sue parole.

Facevano male, soprattutto perché era così che mi chiamavano alcuni miei compagni di scuola. Faccia triste... E più loro mi chiamavano così, più commenti sprezzanti di mia madre accumulavo, meno felice era la mia espressione.

Quel giorno di ottobre, però, avrebbe cambiato ogni cosa. Li avrei fatti pentire tutti di avermi fatto stare così male. Volevo che si sentissero colpevoli, che portassero un pesante fardello sulle spalle per il resto dei loro giorni.

Non faticai a sistemare la corda. La appesi alla lampada della sala da pranzo, la più alta della casa. Poi andai in bagno. Avevo sentito che gli impiccati se la facevano addosso e io volevo morire con dignità. Non volevo che la mia morte gli desse qualche motivo per continuare a prendermi in giro.

Mentre salivo i pioli della scaletta pieghevole, mentre infilavo la testa nel cappio, immaginai mia madre cadere in ginocchio alla scoperta del mio corpo appeso. Quell’immagine l’avrebbe perseguitata per sempre, e ogni giorno della sua vita si sarebbe pentita di ciò che mi aveva fatto.

«Faccia triste», mormorai trattenendo le lacrime.

Avevo paura di quello che sarebbe venuto dopo. Avevo letto molto sull’impiccagione e sapevo che se il nodo non era ben fatto l’agonia poteva prolungarsi per vari minuti. E io non volevo soffrire. Anzi, la possibilità di soffrire mi terrorizzava. Volevo solo che tutto finisse per sempre e che fossero gli altri a soffrire per me.

«Non ci riesco», sibilai tra i denti.

Ricordo l’impotenza quando ritirai la testa da quel cappio. Non volevo provare dolore. L’idea mi metteva il panico. Mi diressi alla finestra. D’un tratto quel finale mi parve più semplice. L’aria fresca mi colpì quando l’aprii, ma non mi fu di conforto. Non mi fermai a pensarci. Mi limitai a chiudere gli occhi e a gettarmi nel vuoto.

Una luce enorme mi attendeva là sotto. Riuscivo a sentirne il calore, più intenso man mano che mi avvicinavo. Forse era quello il Gran Sol dove mio padre passava tanto tempo. Finalmente avrei potuto conoscere quel luogo tanto sognato, finalmente avrei potuto stare con lui.

Il viaggio durò solo qualche secondo. Poi la luce mi avvolse e diventai un tutt’uno con essa. E lui era lì, mi circondava con il suo abbraccio protettivo. Non ricordo altro, solo che d’improvviso mi sentii amato, in pace, felice.

La danza dei tulipani
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