Quarantacinque

Da quando Elena era partita gli aveva telefonato due volte, la prima per dirgli che era arrivata, la seconda, piangendo, per avere notizie del processo che riguardava suo padre: aveva perduto tutte le cose che contavano nella sua vita, e non riusciva a credere a quello che scrivevano sui giornali. Elena aveva amato suo padre, con rispetto e ammirazione, le sembrava di essere orfana due volte. Questo gli disse tra i singhiozzi: sono orfana due volte. In qualche modo le restituiva un po’ di fiducia convincersi che Alessandro avesse capito e volesse andarsene.

Mentre la sentiva piangere aveva immaginato di tenerla stretta contro la spalla, di baciarla sui capelli, di tenerle le mani tra le sue. Invece l’aveva lasciata parlare rispondendo soltanto a monosillabi, senza riuscire a trovare le parole per dirle: io sono qui. Gliel’aveva detto tante volte: io sono qui. Ma non quella volta, con la bocca chiusa, le mascelle serrate. Io sono qui. Perché ora doveva lasciarla andare.

Elena era la ragazza che era passata nella sua vita lasciando un profumo di cose buone e tenere. Ora era la moglie di Luciano, avrebbe avuto un bambino. Doveva prepararsi ad accettarla come lei aveva voluto. Elena era forte, sicuramente più forte di lui: che ora stava tremando.

Si vestì lentamente, con pigrizia. Lasciò che Liciuzza apparecchiasse e sparecchiasse, senza quasi toccare cibo. Fu allora che si ricordò di quella frase: ’o mare sciacqua tutto. E il mare era lì, davanti a lui. Forse, se avesse ascoltato, avrebbe sentito anche il risucchio delle onde dagli scogli. Il mare era lì. Ci sarebbe sempre stato. Come gli aveva detto Elena una notte, a Positano: c’era prima di lui e del suo dolore. Ci sarebbe stato anche dopo di lui. ’O mare sciacqua tutto.

Si alzò da tavola e chiamò Costanza. «Vengo da te» disse. Lei gli rispose di sì.

Un uomo spaventato e una donna che lo aspettava nel suo letto. Lo accolse e lo strinse tra le braccia. Lasciò che fosse lui a cominciare il gioco.

 

Se la stampa nazionale, durante quei mesi di così intensa visibilità della politica e della giustizia, si era interessata dei singoli fatti che interessavano il processo, i periodici di varia umanità si occuparono spesso dell’affettuosa amicizia che forse legava la dottoressa Costanza Prati, del tribunale di Napoli, all’avvocato Massimo Gilardi.

Nessun fotografo avrebbe perso tempo ad appostarsi per sorprenderli in atteggiamenti men che corretti, perché i due protagonisti erano protetti e, soprattutto, molto giudiziosi. Apparvero loro fotografie riprese a una cena intima in un ristorante di lusso, a Ischia. Alla prima del San Carlo, per la quale Max aveva indossato per la seconda volta il famoso smoking che era stato di suo padre, inaugurato al fidanzamento di Elena, e Costanza Prati era stata segnalata per la sua perfetta eleganza in un abito da sera di Armani. Mentre uscivano o entravano con la macchina di lei o di lui dal cancello di villa Brizzi Scajola. La fotografia meno convenzionale ripresa sulla barca di un amico comune a Capri: Costanza Prati con uno strepitoso costume olimpionico nero, Max Gilardi in tuta subacquea. Pubblicavano queste fotografie apparentemente innocenti con una domanda che si ripeteva nel tempo: soltanto rapporti di lavoro tra la dottoressa Costanza Prati del Tribunale di Napoli e il brillante avvocato Massimo Gilardi?

«Si stancheranno» aveva commentato Costanza Prati. «Non capisco perché sprechino tanta carta e tante pellicole. Siamo due persone assolutamente comuni».

«Davvero? Io non mi sento tanto comune».

«Che cosa ti imbarazza, se posso chiedertelo?»

«Che si occupino di noi. Soprattutto di te. Tu sei procuratore al Tribunale di Napoli, non dovresti finire su un giornalaccio di pettegolezzi».

«Anche se la causa è piacevole?» Cercò di farlo sorridere. «Ci capitano tutti, prima o poi. Vero o falso. Non ti preoccupare, a me non interessano».

«A me, sì. Vorrei che ti rispettassero, accidenti. Non sei una qualunque».

«Ci sono abituata, non preoccuparti per me. Quando sono arrivata qui, la straniera che aveva sedotto lo scapolo d’oro di Napoli… mi hanno massacrata. Poi, poco a poco, si sono calmati. Faranno la stessa cosa ora. Chissà chi si stancherà prima, se loro o noi».

Max Gilardi non raccolse la battuta che lo riguardava, non aveva progetti e non voleva farne.

 

Costanza seguiva le vicende della revisione del processo Notarnicola attraverso i bollettini che il dottor Morandini le inviava regolarmente. Avrebbe voluto parlarne con Gilardi, ma preferì non mischiare mai la loro storia privata con la politica e con le questioni della giustizia che in quel momento li vedevano impegnati sullo stesso fronte.

La loro era una storia vissuta con leggerezza, prudenza e grande rispetto. Una storia che, pur senza progetti, avevano immaginato breve, passeggera, come una vacanza alla sofferenza che li aveva uniti. Max Gilardi si convinse di aver superato il rimpianto doloroso che Elena gli aveva lasciato. Costanza non fece mai domande.

La parentesi sentimentale che Costanza gli aveva offerto era stata anche profonda, in molti momenti. Vivendola come se fosse normale, era riuscito a dimenticare i limiti che giocando con i gesti, i loro corpi e le parole, si erano imposti. Non si chiese mai se avrebbe potuto finire.

Costanza, che si era lasciata sedurre, come gli diceva spesso ridendo, consentendo a quella specie d’amore che era amicizia, condivisione, intelligenza, e reciproca attrazione, una sera chiese di parlargli. Era seria.

Max la guardò cercando di sorridere. «Devo preoccuparmi?»

«No, naturalmente».

«Allora?»

«Io vorrei… vorrei che considerassimo conclusa questa nostra brevissima storia molto affettuosa».

«Non siamo in tribunale: che cosa significa, per andare dove?»

«Per restare qui, dove sono da molti anni, ormai. Parlo di noi due. La nostra è stata una piacevole parentesi della mia vita, e spero anche della tua…»

«Parentesi mi sembra un sostantivo che non trovo adeguato. Che cosa significa?»

«Quello che ti ho detto, Max». Costanza scosse la testa. «Volevo ringraziarti per quello che mi hai dato in questi mesi…»

«Ti prego, non dire banalità, non tu. Io stavo attraversando un brutto momento e tu mi hai restituito coraggio e fiducia. Non conosco donne capaci di farlo senza chiedere niente in cambio. Anche per questo ti voglio bene…»

«Me ne ricorderò. Ma è appunto quello che ho fatto. Ti avevo promesso che non mi sarei innamorata di te e non ti avrei mai chiamato amore. Sono stata di parola». Max sorrise e la baciò sulla spalla che l’abito lasciava in parte scoperta. Forse pensò che si trattasse di un gioco. Invece Costanza proseguì, abbassando il tono della voce e lo sguardo. «Voglio che la nostra storia, che non possiamo definire d’amore… D’amicizia? Sì, una storia di intensa amicizia, questo è stata…» Fece una breve pausa come se cercasse le parole per dirlo. Forse per un attimo sperò che Max la interrompesse. «Vorrei… che si concludesse qui, questa sera. Dopo un periodo che considero molto interessante per me. Per noi…»

«Molto interessante? Per me è stato molto di più. Anche se non riesco a capire quello che mi stai dicendo. Vuoi…»

«Sì, Max. Ti prego. Mi sembra che il peggio per te sia passato e ora vorrei che tu ricominciassi la tua vita daccapo». Sorrise, alzando le mani. «No, non dopo di me, non fraintendermi, caro. Non esiste un dopo di me perché io non ci sono mai stata veramente».

«Ti prego, Coco, di quali sciocchezze stiamo parlando? Saresti stata la mia boa di salvataggio? Da quale tempesta, che non me ne sono accorto?»

«La tua vita è una tempesta, Max: altrimenti perché saresti qui?»

«Stai scherzando, vero? Sono qui perché sto bene con te, ti voglio bene, mi piaci… che altro?»

«Appunto. È quello che cercavo di dirti: tu non stai bene con te stesso. Sei un uomo splendido, un avvocato di successo, un amante meraviglioso e tenerissimo: vorrei che ricominciassi la tua vita da questo punto. Questo vorrei da te. Per l’amicizia che ci ha legati vorrei che mi rispondessi di sì, essendone convinto».

Max scosse la testa. «Tu hai descritto un uomo nel quale non mi riconosco. Un avvocato di successo… ero tornato per fare l’avvocato, per difendere chi non ha difesa: invece collaboro a mandare in galera uomini ricchi potenti e corrotti…»

«Non è in qualche modo la stessa cosa?»

«Forse. Ma non era quello che io avrei voluto fare. Io sto vivendo una vita che non è la mia».

«Lo so. Tu stai maltrattando la tua vita». Raccolse le gambe sul divano, aveva tolto le scarpe: e appoggiò la testa sulla spalla di Max. «Elena…»

«Stiamo parlando di te».

«Elena era disperata, questo l’hai capito, vero? Ti amava, era te che voleva…»

«Sapeva che non sarebbe mai successo. Lo sapeva dall’inizio. Per favore, Coco: non voglio sentirmi responsabile se non sono riuscito ad amarla come forse lei voleva e certamente meritava».

Si alzò, badando che Costanza appoggiasse la testa a uno dei cuscini del divano, e andò verso la finestra. Restò qualche secondo a fissare il buio, davanti a sé, con i pugni chiusi. Respirando a fatica. Quando si girò nuovamente fu sicuro di essere calmo.

Guardò quella stanza come se la vedesse per la prima volta. I muri bianchi, a cera. Pochi quadri, grandi paesaggi tratteggiati a carboncino. Due divani bianchi, il camino, tre poltrone a chiudere il cerchio intorno a un tavolo basso, nero e lucido, carico di libri e di oggetti. La televisione in un angolo, molte piante rigogliose davanti a una finestra. Al di là delle vetrate e delle tende grezze a disegni stilizzati di canne di bambù, il buio del giardino e i rami degli alberi, ancora ricchi di foglie.

Quella era la stanza dove si era rifugiato quando Elena era partita: ricordava il dolore di quella notte, il bisogno di aggrapparsi alla mano che Costanza gli porgeva. Non mi innamorerò di te, non ti chiamerò mai amore… Quella era la stanza dove aveva fatto l’amore la prima volta con Costanza. Quella era la stanza dove ora stavano salutandosi.

Si riprese, gli sembrò di essere calmo.

«Scusa, stavamo parlando di te e di noi. Quella è cosa passata, e ti giuro che non ho mai avuto rimpianti». Tornò vicino a lei e le sorrise. «Io so pensare a me stesso».

Costanza riuscì a ridere. «Per carità, se c’è una cosa che non sai proprio fare è badare a te stesso. Chiedilo a Cataldo: si dispera per quanto tu sia imprudente. Io penso che Elena, amandoti, volesse offrirti un pretesto per ricominciare a vivere, mentre tu stai facendo di tutto per distruggerti. A differenza di lei, io preferisco contare soltanto su di te».

«Meno male, è un sollievo» disse, sarcastico. Aveva i nervi a fior di pelle, non voleva che gli si parlasse di Elena, non in quei termini. Un ricordo che gli mordeva ancora l’anima.

Costanza non si lasciò interrompere. «Elena, e poi in modo certamente diverso anch’io, ti abbiamo offerto braccia e porte aperte…»

«Tu non sei stata questo, ti prego. Io ho cinquant’anni, ti sembra che abbia bisogno di un sostegno per reggermi in piedi? Quando non sono con te io sono un uomo solo, questo è vero. Ma la mia solitudine non mi angoscia».

«Sei sicuro?»

«Certo che sono sicuro» mormorò a bassa voce.

«E allora perché, a volte, di notte, senza ragione, corri qui da me, nel mio letto? Perché, Max?»

«Perché ti voglio bene…»

«No. Perché hai paura. Sii onesto, Max. La tua solitudine ti angoscia e ti spaventa. In questi mesi, da che ti conosco e ci frequentiamo, non c’è stato un solo momento in cui tu abbia dimenticato di sentirti colpevole perché sei vivo, perché quel giorno non eri lì, a morire con tua moglie. Che cosa vuoi fare, portarti questo peso sulla coscienza per sempre? Lo sai anche tu che è stata una sua scelta, io l’ho letto nei verbali. Quindi riprendi la tua vita nelle tue mani. Ti ci vorrà coraggio, ma dovrai farcela. E dovrai farcela da solo. Devi riuscire a vivere la tua vita come merita. Elena…»

«Ancora? Ti prego. Elena è in America, ha sposato Luciano, avranno il loro bambino e noi l’abbiamo tirata fuori dai guai. Perché dobbiamo parlare ancora di lei?»

«Lei voleva il grande amore».

«Mi dispiace. Lei per me è stata…»

Lo interruppe bruscamente: «Un rapporto poco impegnativo, lo so. Lo sapeva anche lei, per questo ha accettato di sposare Luciano, volendogli bene. E per non pentirsi, si è fatta mettere incinta. Un rapporto poco impegnativo…»

«Non diciamo sciocchezze, ti prego. Tu invece che cosa sei?»

«L’invidia di tutto il corpo femminile del Tribunale» rispose ridendo, per allentare la tensione.

«Io certamente di quello maschile».

«Allora rimettiamo le cose al loro posto. Io sono stata bene con te, il nostro rapporto, poco impegnativo, è stato piacevole e persino stimolante. Da anni non mi sentivo così bene».

«Che cosa è cambiato?»

«In questi mesi mi hai regalato momenti di tenerezza, di rispetto, di allegria…»

«Ripeto, che cosa è cambiato?»

«Niente, Max. Per me è stato bellissimo, ma è la tua vita che deve cambiare, e devi farlo tu. Devi farlo da solo».

«Sì, mamma» le rispose con le labbra strette. «Hai anche la cura?»

«Sì, ho anche la cura. Innamorati, Max. Innamorati sul serio un’altra volta e dimentica quel dolore che ti sta distruggendo la vita».

«Tu meriti che io sia sincero, ma io non so più chi sono né dove sarò domani o un altro giorno. Io ci proverò… Ma so che quella vita che è dentro di me mi rivuole e io andrò dove mi chiama. Scusa…» scosse la testa come se qualcosa lo avesse colpito in fronte. «Scusa, non so di che cosa sto parlando».

«Invece io credo di capire. Avrai altre donne… sei così affascinante» gli disse canzonandolo, per farlo sorridere. «Avrai altri rapporti poco impegnativi… Ma io spero invece che tu possa innamorarti un’altra volta, come avrebbe voluto Elena».

«So di non poterlo fare». Le prese le mani e restò a lungo a guardarle, come se le scoprisse diverse da come le conosceva, da come le aveva accarezzate tante volte. «Anche se sono confuso, se non capisco e se mi addolora… Coco, grazie. Per tutto quello che hai rappresentato per me in questi mesi. Non so immaginare il momento in cui tu non ci sarai più. Non ci sarai per me. Certo, ce la farò. Ci proverò… Sono sicuro di averti dato tutto quello che avevo di me, dei miei sentimenti. Sai certamente quanto sei stata importante, per me, in questi mesi… Passati così in fretta, Coco, se ora mi ritrovo nuovamente solo». Si era inginocchiato davanti a lei e la baciò lievemente sulle labbra. «Vuoi che resti con te, stanotte?»

«No, no, Max. Vorrei che la nostra storia finisse qui, ora. Non facciamoci altro male, per favore». Avrebbe voluto ridere, non ci riuscì.

Si alzò e Max con lei.

«Avrò tue notizie? Potrò chiedertene?»

Costanza scosse leggermente la testa. «Rimarrò a Napoli, rimarrò al Tribunale di Napoli, come sempre. La mia vita non cambierà. Probabilmente ci incontreremo ancora, come accadeva una volta. Voglio che tu riesca a ritrovare l’uomo che sei. Da solo, Max».

«Non te l’ho chiesto: c’è di mezzo un marito o qualcosa del genere?» Lei lo guardò sgranando gli occhi. «Nanni? No, niente di simile. Soltanto lavoro. Nanni so che ha intenzione di sposare la donna con la quale convive da qualche anno, forse la conosci, docente di storia del costume, a Roma. Non gli restituirò la sua casa, neppure come regalo di nozze. Io rimarrò qui, lui…»

Max Gilardi fece di sì con la testa. «Non m’interessa quello che farà lui, stiamo parlando di te».

«Appunto. A te ho voluto bene, di lui sono stata innamorata. Io so la differenza». Gli passò leggera una mano sulla fronte. «La conosci anche tu…»

Lo baciò sulla bocca con la tenerezza di una madre. Raccolse un pacchetto che era rimasto sul tavolino. «È per te: è il CD con la versione jazz di People nell’esecuzione al pianoforte di Nando De Luca che abbiamo ascoltato insieme a Ischia… so che ti piacerà, la musica ti fa felice. Ora, per favore, vai caro. E chiudi quella porta».

Strinse i pugni per non chiedergli di rimanere. Almeno una volta, l’ultima.

Lo guardò uscire. Da quella porta e dalla sua vita.