Due
Suo padre lo stava aspettando, solo in mezzo al vialetto: indossava pantaloni scuri, camicia bianca con i polsini allacciati e cravatta, senza giacca. In disparte Giocondo, in abito scuro e canottiera bianca, accanto a una donna in grembiule di casa che non conosceva.
«Eccoti, figlio mio… Il viaggio?»
«Bene. Grazie. Va tutto bene. Ora sono qui». Si lasciò abbracciare.
«Sì, figlio. Sì… ora sei a casa».
Giocondo lo salutò con un mezzo inchino. «Riverisco, signor avvocato. Sono arrivate le sue cose, casse, bagaglio… abbiamo sistemato come abbiamo potuto… ai suoi ordini, signor avvocato».
Max Gilardi tese la mano anche alla donna, che gliela strinse, girando la testa da un’altra parte. Era giovane e robusta.
«Lei è Liciuzza, la nuova cameriera. Pasqualina era vecchia, ormai. Non ci stava più con la testa».
«E ora dov’è?»
«L’abbiamo sistemata in un ricovero per anziani.… a spese nostre» aggiunse, abbassando la voce. «Ci sta bene, siamo andati a trovarla. Aiuta in cucina, se la passa bene anche lì… certo, era al nostro servizio da più di quarant’anni. Era vecchia, poverella».
«Andrò a trovarla».
Per quel giorno rinunciarono a esaminare le novità che il suo ritorno a casa, secondo suo padre, aveva rese necessarie.
«Vedrai tutto domani…» Ma intanto fremeva dalla voglia di parlargliene. «Abbiamo risistemato lo studio al pianterreno, che ora sarà tuo. C’è tutto, vedrai, come una volta. Anche la segreteria, i telefoni, un salottino, tutto… Giocondo ha traslocato dove al tempo di tua madre c’era la serra. Te la ricordi la serra di mamma? Abbiamo anche riaperto il salone, proprio come era una volta, te lo ricordi? Non manca niente, con la sala da pranzo annessa: ora che tu sei tornato avrai bisogno di pranzi, qualche festa. Io me ne sto in tinello, con la televisione: sono vecchio… E la tua camera, in fondo al corridoio, l’hai vista? Santini ti ha ricavato un piccolo guardaroba tra la stanza e il bagno… l’hai visto? Ma poi farai le cose come vuoi tu. Domani, domani c’è tempo, ora che sei qui».
Suo padre gli accarezzava la mano mentre parlava. Ogni tanto, con un gesto che voleva nascondere, si passava due dita sotto gli occhiali per asciugarsi gli occhi. Un colpetto di tosse. Un sorriso. Non l’aveva mai fatto, non era mai stato quel genere di padre.
Mi dispiace, pensò Gilardi, perché anche questa volta ti deluderò. Ma forse mi stai chiedendo troppo…
Fu necessario dirgli subito quali erano le sue intenzioni per il futuro. Quali progetti. Tornava a casa, voleva riprendere a fare l’avvocato, ma non come lui sperava. Non in quello studio, che era stato risistemato come era una volta: con le scrivanie di legno scuro, la libreria a vetri, le poltroncine di cuoio, i vecchi quadri alle pareti. Non era quello che aveva in mente.
«Ma qui hai tutto, che vai cercando?»
«Ancora non lo so, pa’… Ti chiedo di avere pazienza e di non farmi fretta. Devo pensarci… lasciami un po’ di tempo».
Dei vecchi amici il primo a telefonargli fu Ciccio Caremi. Erano stati compagni di scuola e di università: Max si era laureato un anno prima di lui.
«Vediamoci, Max. Ci troviamo allo scoglio, te lo ricordi?»
«Come no. Ma c’è ancora?»
«Se lo tolgono succede una rivoluzione. Ciao, alle cinque allo scoglio».
Lo scoglio era davvero uno scoglio: in una piccola baia del golfo dove andavano a tuffarsi quando erano ragazzi. Max aveva imparato a nuotare buttandosi da quello scoglio. Lì aveva portato la prima ragazza alla quale aveva toccato il seno. Lì si trovavano a fumare, quando marinavano la scuola. Era il luogo dei loro complotti, delle bevute, delle prime canne, tanto per provare. Erano in pochi, sempre gli stessi. Alcuni s’erano persi, negli anni; altri erano semplicemente cambiati o andati via.
«Ti stai facendo crescere la barba» esclamò Ciccio abbracciandolo. «Ma come ti viene in mente, sembri mio padre. Ti invecchia». Lo osservò, con la testa un po’ reclinata da una parte. «Ti invecchia, non sei più il mio eroe».
Ciccio, che di nome faceva Francesco, era più basso di statura e con gli anni si era ingrassato. Aveva ancora il viso lucido e un po’ arrossato di quando era ragazzo.
«E tu, allora? Che hai messo su pancia?»
«Gesù, si invecchia, caro mio. Moglie e tre figli». Rise, sedendosi come allora su un punto leggermente spianato dello scoglio. Il mare, ai loro piedi, si risucchiava con un rumore simile a un affanno. «E tu? Ho sentito… mi dispiace, ma questo lo sai. Vi avevo visto a Pasqua, insieme».
«E dove, che io non ti ho visto?»
«In chiesa, alla messa di Pasqua». Era vero: Natj aveva voluto andare a quella messa per accontentare suo padre. «Era bella».
«Sì, credo di sì…»
«E ora, che intenzioni avresti?»
«Fare l’avvocato. Devo aggiornarmi, sono passati diversi anni… Ma ho già detto a mio padre che non voglio il suo studio. Non voglio diventare quel genere di avvocato».
Ciccio raccolse un sasso e lo gettò in mare, alzando il braccio. «E che cosa, allora? Tuo padre è stato un pezzo da novanta».
«Lo so. È questo che mi spaventa. Non fa per me, chi lo sa…»
«Ma sì che lo sai! Del nostro gruppo eri il più sveglio, poi ti sei messo in testa la storia della polizia… te ne sei andato. Magari per noi è stata una fortuna, ma tu hai fatto delle scelte strampalate, amico mio. Eri così. Ti mettevi in testa una cosa e dovevi farla. Ora: che cosa ti sei messo in testa, ora? Almeno questo lo sai?»
Max alzò una spalla. «Credo di sì. Voglio fare l’avvocato, non il principe del foro. È questo che mio padre non capisce. Lui vuole l’erede, il nome che continua. Io me ne frego. Voglio capire la gente, voglio capire perché devo aiutarla…»
«È arrivato il buon samaritano! È arrivato l’avvocato dei poveri! Tu sei pazzo! Uno come te… Ma che c’hai in quella testa, Max? Tu eri il migliore di noi, tuo padre ha ragione».
«No. Ho ragione io. Comunque è quello che voglio fare. Impegnarmi: credo che si dica così».
Ciccio si alzò, pulendosi i calzoni con la mano. «Vabbe’, affari tuoi. Io li rispetto. Hai detto che devi aggiornarti? L’hai detto? Bene, se non vuoi uno stipendio, perché ne girano pochi, ti puoi aggiornare nel mio studio. Segui con me i miei clienti, se vuoi. Ti leggi le sentenze, fai quello che vuoi… il mio studio è a tua disposizione. Niente di lusso, ma una cosa decorosa, in centro. Te lo ricordi il mio studio?» Max fece di sì, con la testa. «Bene, da quando vuoi… ti sta bene?» Altro cenno con la testa. «Se ti va bene, devi dirmelo, Max. Ti va bene? Vuoi?»
«Sì, ti ringrazio. Sarà un’ottima scuola».
«Ihh, scuola! Ma sentitelo. Ci metteremo a scuola, noi». Lo prese sottobraccio e insieme si incamminarono verso il sentiero dove avevano lasciato le macchine. «Adesso andiamo al bar… sai quello di Felice, te lo ricordi? Happy hour, così adesso chiamano un po’ di vino bianco spruzzato di seltz, con qualche pezzetto di salame, ma Felice…» Rise piegandosi leggermente in avanti, proprio come faceva da ragazzo. «Vecchietto pure lui, ma sta al passo. Vedrai, ha rivoluzionato tutto… è uscito di testa pure lui. Poi, a cena, ti vuole rivedere mia moglie; una cosa alla buona. Ti va bene, Max? Si chiama Margherita, ma noi la chiamiamo Marghe… forse te la ricordi».
Sì, la ricordava. Era alla maturità, ragazza di buona famiglia, quando loro erano già al terzo anno di giurisprudenza. Le avevano fatto la corte in parecchi del loro gruppo, e lei aveva scelto Ciccio, il siciliano. Così chiamavano Francesco anche a scuola, perché la sua famiglia era venuta a Napoli, quando Ciccio era piccolo, da Palermo: suo padre era stato nominato Presidente del Tribunale. Un pezzo grosso.
«Papà è morto due anni fa».
«Mi dispiace, non l’ho saputo».
«Morto scontento perché suo figlio non è diventato quasi niente».
«Smettila di piangerti addosso. Lavori, sei stimato, sei onesto, e tieni famiglia. Tre figli, accidenti… Ti pare niente?»