Uno

Ora doveva dirlo a suo padre.

Doveva dirgli di essersi dimesso dalla polizia e di aver deciso di tornare a casa, a Napoli, per riprendere a fare l’avvocato.

Al telefono suo padre lo ascoltò in silenzio, senza commenti; gli sembrò commosso. «Sì, figlio, torna a casa. Io ti aspetto… quando vuoi tornare?»

In autunno. Ora avrebbe voluto fare da solo il viaggio che avevano progettato con Natj per le loro vacanze, prima che nascesse il bambino. In Africa. Natj voleva presentargli la famiglia di sua madre. E mostrargli il villaggio per il quale si prodigava da anni. Poi l’Egitto, fino alla Valle dei Re. Aveva conservato un foglio sul quale Natj aveva segnato gli itinerari, gli alberghi, le prenotazioni: bastava mandare una conferma ed era tutto organizzato.

«In autunno» disse.

«Sì, va bene in autunno. Così mi lasci il tempo di risistemare la casa per il tuo ritorno. Chiamerò Petruzzi… te lo ricordi Petruzzi?» Certo che ricordava Petruzzi, l’architetto. Anni prima suo padre lo aveva tirato fuori di galera. «Chiamerò lui, voglio che la casa torni come era una volta, al tempo di tua madre. Te la ricordi la nostra casa? Così deve tornare, ora che ci sarai anche tu… In autunno va bene. Fatti buone vacanze, Massimo, io qui sono, e ti aspetto».

Sì, lo sapeva. Suo padre sarebbe rimasto lì ad aspettarlo. Forse l’aveva aspettato in tutti quegli anni, da quando se ne era andato da Napoli per entrare nella polizia. E ora sarebbe tornato. In autunno.

Spedì a casa quel poco di suo che gli era rimasto. Per sé prese soltanto una borsa, gli appunti di Natj e la macchina fotografica.

 

In Tunisia, in un villaggio vicino a Tunisi, volle innanzitutto incontrare i parenti della madre di Natj, com’era stato deciso nel programma. In una serie interminabile di banchetti e di feste gli fecero conoscere una famiglia di oltre un centinaio di persone tra cugini di cugini, fratelli, zii, nonni, probabilmente non tutti imparentati tra di loro ma con lo stesso nome, Ashided Musril. E per decine di volte, davanti a tutti, fu costretto a ripetere come Natj era morta. Lo applaudivano, come se fosse una recita: era il loro modo di partecipare a un dolore che non conoscevano.

Uno dei cugini, Loren, si offrì di accompagnarlo in un paese dell’interno dove l’organizzazione umanitaria alla quale Natj aveva partecipato attivamente consentiva a qualche migliaio di persone di sopravvivere. Negli anni era stato possibile costruire e attivare un piccolo ospedale di pronto intervento, una scuola, un asilo. E un pozzo.

«Qui era un posto di morte. Ora vivono, e i bambini crescono…»

C’erano case. Le donne maghrebine dagli occhi lunghi e le labbra rosa vestivano abiti colorati. I bambini facevano smorfie davanti alla macchina fotografica.

Max Gilardi diceva di sì a tutto. L’avvocato di Trieste gli aveva comunicato che Villa Cassani era stata venduta e che a Venezia erano state battute due aste degli arredi, dei quadri e dei gioielli che sarebbero stati di Natj e ai quali aveva rinunciato. Era consapevole che ogni cosa sarebbe andata avanti anche senza di lui.

Si lasciò abbracciare da tutti, per congedarsi; ai più piccoli regalò qualche moneta, perché si ricordassero di lui: così gli aveva suggerito Loren. Promise che sarebbe tornato, sapendo che non l’avrebbe mai fatto.

Si stupì di non provare dolore. Di osservare quelle persone e quella vita, che pur aveva voluto conoscere, senza sentirsene coinvolto. Natj era lontana. Sua, per come l’aveva vissuta. Sua, anche senza la necessità di ricordarla. A lui non serviva pensare a Natj: Natj era una parte di sé.

La notte era il momento più difficile. Si sdraiava sul letto, chiudeva gli occhi. Era solo. Il letto vuoto lo condannava a quella mancanza.

 

L’ultima sera, nel caffè dell’albergo, stava osservando oltre le vetrate del bar l’insulso, frenetico andirivieni delle auto al di là della strada. Un ragazzo gli aveva detto, strizzando l’occhio, che a Tunisi le auto vanno a clacson, non a benzina. Il frastuono dei clacson infatti era assordante.

Non stava pensando a niente, era l’ultima sera. E conobbe una ragazza.

Era molto alta, di pelle scura, capelli crespi tenuti oltre la fronte da una fascia bianca, occhi grandi e umidi, labbra sporgenti, naso piccolo. «Sei italiano?» Sul tavolo Max Gilardi aveva un quotidiano italiano. Lo spinse verso di lei, senza rispondere. «Sei solo?»

«Sì, me ne stavo andando».

«No, scusa… non ci sono posti per sedere, tutto occupato. Posso sedere qui a questo tuo tavolo?»

«Sì, prego».

La ragazza avvicinò una sedia. Indossava un paio di bermuda, una camicia bianca senza maniche e scarpe da tennis. In mano aveva un bicchiere e una Coca Cola. Max Gilardi pensò che se era un modo per farsi pagare la consumazione, almeno gli sarebbe costata poco. «Come mai conosci l’italiano?»

Le sembrò un complimento e gli sorrise, mostrando denti bianchissimi e forti, leggermente sporgenti. «Lavoro». Gilardi corrugò la fronte: quale? Era una prostituta? «Modella» lo prevenne. «Moda… tu conosci?»

«Sì, mannequin… sfilate in Italia?» Ora anche lui stava parlando alla maniera degli stranieri. «Sfili in Italia?» si corresse.

«Sì, anche Parigi e New York. Valentino, Versace, Dolce e Gabbana… conosci?» Max Gilardi scosse la testa. «Grandi stilisti. Grandi, davvero… Bella moda italiana».

«Ti ringrazio a nome di tutti. E che cosa stai facendo qui?»

«Un lavoro fotografico finito ieri. Riparto domani per New York».

«Anch’io riparto domani, per Roma».

Parlarono di Roma e bevvero insieme un’altra Coca Cola con il rum. Non era stupida, pensò Gilardi. Aveva ventitré anni, aveva studiato, aveva visto mezzo mondo. E non era stupida.

Gli piaceva vederla ridere, arricciava il naso.

«Sei occupata questa sera?» La ragazza scosse la testa. «Vuoi cenare con me? Se anche tu sei sola».

«Sì, grazie. Tu gentile». Si alzò, era alta quasi quanto lui. «Mi chiamo Luna». Gli tese una mano sottile, nervosa, con le unghie dipinte di bianco.

«Luna? Come quella che c’è in cielo?»

«Sì, quella. Mia madre scrive poesie. E tu?»

«Io… Max, e sono avvocato».

«Oh oh… Tu gentiluomo?»

Max rise. Da quanto tempo non gli capitava di ridere? «Credo di sì, mi considero un gentiluomo». La seguì oltre il vialetto dell’albergo. Sulla strada si fermò a considerare la situazione: dove l’avrebbe condotta a cena? «Dove…» cominciò.

«Vieni, Max… è così che ti chiami davvero o hai detto per scherzare?»

«No, il mio nome è Massimo, ma mi chiamano Max. Se vuoi…»

«Sì, Max va bene. Vieni, ti porto io. Ti piacerà, non caro ma divertente. Ognuno per sé, sei d’accordo?»

La seguiva per strade che in quei giorni non aveva mai attraversato. Una città segreta, certo più singolare del centro frequentato dai turisti. Una strada stretta, i tavoli in mezzo alla strada, tra due caseggiati. Un tendone a ripararli dalle finestre delle abitazioni. Gente di colore e pochi turisti, al solito molto rumorosi.

«Ecco qui. Ti piace, qui?»

«Sì, va bene».

«Qui si mangia la meglio tajine del mondo».

Luna a un tratto, mentre stava tagliando un pezzo di formaggio di pecora, senza guardarlo gli chiese: «Sposato?»

Max, da quando aveva lasciato Trissera, si era tolto la fede. Sul dito era rimasto un segno più chiaro, e certamente Luna l’aveva notato. Pensò che si fosse fatta l’idea del maritato che in vacanza fa lo scapolo.

«Sono vedovo» rispose. Cercando di non dare nessuna inflessione alla voce. «Da qualche mese».

«Mi dispiace. Tu molto triste».

«Sì. Ma questa sera con te sto bene. Ti ringrazio».

Erano nel corridoio dell’albergo, le loro camere casualmente sullo stesso piano. «Tu…vuoi me?»

Max Gilardi restò a guardarla come se cercasse di capire che cosa stava chiedendogli.

Quel solletico in mezzo al petto, il cuore che accelera i battiti, la testa completamente vuota. Si vergognò perché stava sudando.

Le prese le mani e gliele baciò, soltanto sfiorandole.

«Grazie» disse a labbra strette. «Buonanotte».

 

Il mattino seguente la ritrovò all’aeroporto.

«Ma tu vai a New York».

«Sì, nostri aerei partono uguali. Ho guardato orari, speravo vederti qui». Gli mostrò una rivista, in copertina una splendida fotografia che la ritraeva seminuda. In un angolo aveva scritto il suo nome. «Questa per te… così ti ricordi».

Max Gilardi guardò la foto. Sorrise, restituendole la rivista. «Grazie, non ho bisogno di questa rivista per sapere di averti conosciuta. Sono contento di averti incontrata. Sei bellissima».

Luna sorrise, sembrava commossa e nel gesto di togliersi i capelli dalla fronte gli sembrò giovanissima. «Tu gentiluomo italiano» mormorò. Degli italiani non aveva una grande opinione. «Io bene con te». La voce dell’altoparlante richiamò la sua attenzione. «Tocca me… mio aereo. Ciao. Io forse vengo Italia…»

No, non le avrebbe dato il numero del suo cellulare. Con due dita le inviò un bacio: stavano chiamando i passeggeri anche del suo volo.

Lentamente cominciò a camminare senza voltarsi.