Venti
Nella settimana successiva, Max Gilardi ottenne finalmente l’appuntamento con la dottoressa Santini.
«Qualcosa di concreto?» domandò, senza preamboli.
«Sì, credo proprio di sì».
«Bene, è un sollievo. Qui siamo oberati di lavoro arretrato. Vuole venire martedì mattina alle undici? Terzo piano, stanza numero trentadue, c’è il mio nome».
«Saremo puntuali, grazie».
Li ricevette con le maniche della camicia rimboccate fino al gomito: non faceva molto caldo, ma nella stanza, con le persiane accostate e i vetri chiusi, si respirava un’aria pesante che sapeva di polvere e di sigarette. Ne aveva una accesa in mano.
Max Gilardi le sorrise. «Grazie, dottoressa. Le presento Riccardo Russo, mio assistente».
«Laureato dove?»
«A Bologna, dottoressa».
«Con Simonetti?» E rise, tossendo per il fumo che le era andato di traverso. «Simonetti, eh?»
«Sì, dottoressa».
«E come te la sei cavata?»
«Centodieci, dottoressa. Diritto internazionale».
«Certo, capisco: dobbiamo fare i conti con la globalizzazione. Da quanto lavori con questo avvocato Gilardi?» Il tono era faceto, ma si capiva che dietro alle parole c’era rispetto.
«Due mesi».
«Ti è andata bene».
«Sì, dottoressa. Sono molto contento del mio lavoro».
«Bene, vediamo di che cosa stiamo parlando».
«Lei è al corrente che la mia assistita, signora Franca Chiapponi, non accetta la tesi del suicidio. Queste che le sottoponiamo sono a nostro giudizio le prove per sostenere la nostra tesi».
«Omicidio, quindi».
«Sì, dottoressa».
«Bene, è chiaro. Vediamo».
Max Gilardi si alzò per dare ufficialità al suo intervento. Spiegò che aveva fatto eseguire delle prove sulla macchina e sulla strada percorsa dal veicolo quella notte, e che quella che stavano mostrandole era la relativa documentazione.
«Chi ha eseguito le prove?»
«Giacomo Cataldo ci ha dato un supporto tecnico, in questo caso».
«A lei si è rivolta la madre, vero? Quella che ho conosciuto. Strana famiglia… Va bene, vediamo».
Ricky spostò il computer verso la dottoressa Santini. «Posso venire dietro di lei, dottoressa? Ho messo le foto nel computer con i commenti».
Santini diede un’occhiata sorniona a Max, che si era nuovamente seduto di fronte a lei, aveva incrociato le braccia sul petto e steso le gambe sotto la scrivania. «Bene, vediamo questo computer». Era moderna. «Peccato che la gente continui a morire come una volta».
La dottoressa Santini guardò attentamente le foto che Ricky le stava mostrando al computer. Fotografie della macchina, rottami contorti che avvaloravano la tesi che la macchina si fosse schiantata contro il terrapieno a lato delle rotaie a causa dell’urto con il treno.
«E questo che cosa prova? Mica stiamo facendo causa alle Ferrovie. Il treno l’ha spinto violentemente contro il terrapieno e l’urto gli ha spezzato il collo. Lo sapevamo».
Ricky deglutì. Max Gilardi si accorse che aveva fronte e labbro superiore imperlati di sudore, e tra sé sorrise: c’era passato anche lui.
Altre fotografie, ingrandimenti di particolari che Ricky spiegava con impazienza e preoccupazione. Temeva di non essere abbastanza chiaro. E non all’altezza di quella confusa situazione.
«E queste che cosa sono? Che cos’è questa strada… Avvocato Gilardi, che cosa diamine sono?»
«Vogliamo dimostrare che chi ha guidato l’auto da Napoli alla Gabbianella non poteva essere addormentato o ubriaco, come invece era quel ragazzo secondo le testimonianze acquisite e il reperto del dottor Funari. Qui i segni delle gomme, che corrispondono all’auto del ragazzo, gomme speciali, inglesi, sono diritti e regolari. Non c’è segno di sbandata o di incertezza in questa guida…»
La dottoressa Santini si rivolse a Gilardi, e questa volta sorrideva. «Hai capito la globalizzazione? Bene, andiamo avanti».
Ricky le mostrò le foto dell’interno della vettura, di quello che era rimasto, con le annotazioni degli investigatori che avevano svolto l’indagine. «Non ci sono impronte sul volante né sulla cloche del cambio».
«E quelle?»
«Sì, alcune, molto confuse e in una posizione non di guida che corrispondono alle impronte di Carlo Spada e di Aziz Bernardini, il ragazzo che l’ha accompagnato a casa».
«E questo che cosa dovrebbe dimostrarmi, che chi ha guidato la macchina fino alla Gabbianella aveva i guanti?»
«Sì, infatti. Durante la guida ha cancellato le impronte che erano nella posizione di guida e, con i guanti, ha completamente cancellato quelle che erano sulla cloche, che ha un pomolo piccolo e lucido. Questo» aggiunse, indicandoglielo con il cursore. «Né Carlo Spada né Aziz Bernardini portavano guanti. Come è possibile che abbiano guidato senza lasciare impronte nitide sul volante e sulla cloche?»
«Già. Quindi qualcuno, che non era Carlo Spada né l’altro ragazzo, ha guidato la macchina da Napoli alla Gabbianella. Con i guanti».
«Sì, dottoressa. Queste sono le fotografie scattate dal dottor Funari sul cadavere. Tutte le ferite riportate hanno un movente logico: lo sfondamento del torace dovuto al colpo contro il volante; il bacino, per il cambio; il collo per il contraccolpo che ha spezzato l’osso cervicale nell’urto dell’auto contro il terrapieno molto sassoso…»
«Sì, ho visto».
«Tuttavia, ci sono questi segni sul collo che non sono dovuti a nessun corpo contundente presente nell’auto. So che il dottor Funari le ha inoltrato dati e conclusioni. Questi segni, qui nell’ingrandimento, dimostrano che il ragazzo era stato colpito in modo letale prima dell’arrivo del treno. Gli hanno spezzato la giugulare. Chi l’ha fatto sapeva che cosa stava facendo e che cosa voleva ottenere».
La dottoressa Santini fece una smorfia. «Un raptus… se mai ne venissimo a capo, ci dimostrerebbero che è stato un raptus…»
Max Gilardi la guardò sorridendo. «Difficile da sostenere. Come sappiamo il raptus non esiste. Chi fa atti di questo genere li cova da tempo. È malato da tempo, il gesto è soltanto la conclusione di un malessere che dura. Non se la caverà, chiunque sia, con la storia del raptus».
«Vorrei essere altrettanto sicura…»
Gilardi fece un cenno affermativo con la testa e si fermò un attimo per considerare la situazione: non era sicuro di aver convinto la dottoressa Santini delle loro certezze. Riprese a parlare con il respiro tornato regolare. «Nello stomaco un miscuglio non letale di alcool e sostanze stupefacenti: in grado di intontirlo e di addormentarlo, ma non di ucciderlo. Il treno ha investito un ragazzo già morto, questa è la conclusione alla quale siamo giunti e che abbiamo voluto portare a sua conoscenza».
«Quindi adesso dobbiamo cercare un assassino» disse la dottoressa Santini, accendendosi una nuova sigaretta, mentre spegneva sotto le dita gialle di nicotina quella che aveva appena terminato. «Che cosa mi dice, Gilardi? Sappiamo che cosa sono quei segni?»
Ricky intanto aveva chiuso il computer e si era rimesso a sedere accanto a Gilardi.
Max Gilardi fece di sì con la testa. Si frugò nella tasca della giacca e mostrò al procuratore un aggeggio di metallo dentro una busta di plastica. «Credo che sia questo».
«L’arma del delitto?»
«No, non questo in particolare, dottoressa. Ma credo che l’abbiano ucciso con un pugno di ferro come questo».
La dottoressa Santini allungò il collo per guardare meglio, e senza toccare la busta disse: «Un tirapugni… di questo stiamo parlando?»
«Sì, un tirapugni. Il ragazzo, il morto, ne aveva uno, questo, appunto. Che io gli ho fatto gettare una sera, quando l’ho incontrato, l’unica volta». E le raccontò di quell’incontro al bar di Felice. «Avevo detto a Felice di buttarli via, invece lui ce li aveva ancora e li ho recuperati. Questo era quello del ragazzo che è morto, l’ho fatto analizzare e infatti ci sono le impronte di Carlo. Ma questo succedeva almeno una settimana prima della sua morte. Quindi escludo tassativamente che sia questo l’oggetto che cerchiamo. Tuttavia sono sicuro che è stato usato un oggetto come questo per colpire la giugulare. Mi sento di affermare che un tirapugni esattamente come questo sia l’arma del delitto» scandì l’ultima frase, soprattutto per convincere la dottoressa Santini. «Se usato in modo consapevole, può uccidere. Anche il dottor Funari ha ammesso che i segni sul collo sono compatibili con questo oggetto».
«Bene, bene…» Tirò una gran boccata dalla sigaretta e alzò il mento. «Abbiamo la copia dell’arma del delitto, ma ci manca l’arma; ci mancano il colpevole, il mandante se ce n’è uno come sembrerebbe, il movente. Siamo proprio alla grande, avvocato Gilardi. Alla grande. E questi elementi dovrebbero bastarmi? È stato ucciso, forse; con un tirapugni, forse… non si sa per quale motivo né perché proprio alla Gabbianella, un posto da fine del mondo… Almeno prima avevamo il treno, ora abbiamo il vuoto». Altra boccata dalla sigaretta e uno sbuffo di fumo in un gesto nervoso. «Non abbiamo niente, cari voi. Quando mi dite che siete sicuri che fosse già morto e che a ucciderlo sia stato un tirapugni, o un pugno di ferro, come lo chiama lei… sa che cosa abbiamo noi, avvocato? Un pugno di mosche. Che ci fottono, avvocato Gilardi. Ci fottono».
Max Gilardi restò a fissarla, come se stesse decidendo se continuare quell’incontro o alzarsi e andarsene.
«Ci siamo chiesti perché chi l’ha ucciso ha scelto proprio la Gabbianella?» domandò, invece.
Un sopracciglio alzato e uno sbuffo di fumo. «Pare che l’abbia scritto alla ragazza che stava con lui, l’ho letto».
Max Gilardi fece di no, con la testa. «Io non ci ho mai creduto».
«E allora?»
«Del tutto casuale, a mio parere: guardi». Fece un cenno a Ricky che riaprì il computer, spostandolo in favore della Santini.
Sul video apparve una carta topografica di un punto di Napoli. «Permetta…» Con il cursore seguì sul video il tragitto che stava illustrando. «Qui è la casa di Spada… uscendo dal cancello si entra in questo viale, corso San Gregorio… in fondo la Chiesa del Carmine, mi segue?» Santini fece di sì con la testa, ma non sembrava troppo convinta. «Dietro la chiesa ci sono tre strade possibili, una subito a destra che va alla Pesciaia, quel rione sul mare…»
«Sì, vada avanti».
«Diritto, così… si va sul litorale che collega Napoli a Roma… e a sinistra, guardi qui, dottoressa». Richy ingrandì l’immagine. «Vede il cartello con la freccia? Salita La Brachetta – Monte alla Gabbianella, 16 km. E c’è anche il segnale della ferrovia…»
Quelle fotografie le aveva scattate lui, con il cellulare. Era tornato in quel viale, davanti a villa Spada, e aveva seguito la strada fino alla chiesa. Girando dietro la chiesa aveva scoperto il cartello e supposto ragionevolmente che quella scelta fosse stata casuale. Probabilmente, se l’avesse chiesto alla ragazza, anche la scelta della Gabbianella per quel loro primo incontro importante era stata suggerita da quel cartello: volendo portare la ragazza in un posto poco frequentato, Carlo Spada aveva ignorato la strada verso il mare e quella più battuta verso il litorale, e aveva girato l’auto a sinistra, verso la Gabbianella. Forse, se avessero chiesto alla ragazza, avrebbero avuto la conferma che era stata, anche quella, una scelta per caso.
Gilardi si rimise a sedere e la dottoressa Santini restò a fissare l’immagine aggrottando la fronte. «Accidenti…» mormorò. «Quindi lei pensa che si sia trattato di una pura coincidenza».
«Non lo so, non posso esserne sicuro. Ma di certo chi guidava poteva non sapere che il ragazzo avesse scritto quelle scemenze».
«Fantastico, perché questo allarga il campo, invece di restringerlo. Siamo a cavallo». Con un gesto rapido vuotò il posacenere nel cestino. «Vi sto affumicando» disse, con voce tornata normale. «Mattinate molto complicate, accidenti. Una cosa: come faceva a sapere l’orario del treno, se il luogo è stato scelto casualmente?» Strinse le labbra, reprimendo un sorrisetto di soddisfazione, convinta di averlo messo a disagio.
Max Gilardi scosse appena la testa. «A questo assassino non importava il treno. Siamo stati noi a parlare di suicidio. Noi ci siamo inventati la storia del treno che l’aveva investito perché voleva morire alla Gabbianella. Se l’avessero trovato il giorno dopo, in quel punto, morto comunque per quel pugno alla giugulare, avremmo qualche prova in più? Forse l’assassino ha sperato che il treno gli desse una mano, ma se non è completamente idiota, e non mi pare, sa che ci saremmo arrivati subito a non contare sul treno».
«Quindi abbiamo cominciato dalla parte sbagliata. Ha ragione. Possiamo chiudere?»
«No, scusi. Ancora una cosa, forse utile».
«Dica, avvocato».
«I tecnici del Politecnico, ai quali ci siamo rivolti, hanno rilevato le caratteristiche fisiche del killer».
«Sapete chi è?»
«No, mi scusi… parlavo delle caratteristiche tecniche di chi ha guidato la macchina fino alla Gabbianella».
«Prese dove?»
«Da quello che hanno potuto rilevare dalle impronte lasciate nella macchina, hanno azzardato ogni possibile misura, ricostruendo statura, fisico probabile, lunghezza delle braccia… Un algoritmo può svelarci le caratteristiche fisiche del killer».
«Mio Dio!» Non le riuscì di ridere.
Sulla figura disegnata che apparve sul video, Gilardi si alzò nuovamente. «Altezza: uno e settantacinque o poco più. Numero di scarpe: 43 – e indossava scarpe con le suole di para, non di cuoio – lunghezza delle braccia: ottanta centimetri. Spalle strette. Indossava un cappotto di lana verde, un loden, probabilmente. Accertata la compatibilità con un qualunque sospettato verrà disposta una seconda consulenza, fino ad arrivare alla certezza…»
«Sì, ho capito, grazie. Ma con queste caratteristiche quanti ne conosce, avvocato Gilardi?»
«Tanti. Ma non tutti conoscono Carlo Spada, dottoressa».
«Già. Lei, avvocato, ha sempre una risposta pronta per tutto. Spero che ne troveremo una anche per questo. Comunque ottimo lavoro, grazie. Metteremo insieme le vostre deduzioni e le nostre indagini… non è cosa rapida, come certo immagina. Ma ci stiamo avvicinando. Grazie, avvocato». Strinse la mano sia a Gilardi sia a Ricky. E finalmente la videro sorridere.