Dieci

Seduti sul divano, un grande bicchiere di birra fresca sul tavolino che avevano di fronte, qualche mandorla salata. Ora non ricordava se era stata lei o lui a cominciare. Di sicuro a un certo punto Elena gli aveva chiesto: «Tu non credi alla storia del suicidio, vero? Perché?»

«Perché non sta in piedi. Tu hai creduto alla storia del suicidio di tuo fratello?» Elena scosse la testa. «Vedi? Quando si ha paura di rischiare, ci si accontenta di credere alla storia del suicidio». Si accorse di star dicendo qualcosa che poteva colpire anche Elena e suo padre, a proposito dell’improbabile suicidio di Alessandro, ma Elena restò impassibile e Max Gilardi proseguì con lo stesso tono. «Qui la gente muore, ma sulle vere ragioni è meglio tacere. E allora diventa suicidio, è più comodo. Serve a tutti. Tanto uno è morto, e come è morto non interessa più nessuno. Sai come si chiama questo? Omertà, un cattivo servizio alla giustizia».

«Lo so. Ma mio padre non aveva nemici… nessuna storia con la camorra o con la politica. Abbiamo creduto a una disgrazia, non al suicidio. Una disgrazia è stato un motivo accettabile. Io non credo che mio fratello…»

«Che ne sapevi allora? Eri una ragazzina. Probabilmente è stata davvero una disgrazia. Ma ho riletto i faldoni del processo: tutto è stato fatto in modo frettoloso, con una gran voglia di chiudere. Testimoni poco attendibili, cause sconosciute, nessun rilievo importante. Una disgrazia. Va bene, se vuoi così».

Elena strinse le labbra. Con voce mutata disse: «Sì, ti prego. Va bene così. Io non voglio sapere».

Le diede un bacio sulla tempia. «Naturalmente. Nessuno riaprirà quel processo. Se non sarete voi a richiederlo, questo lo sai».

Lei lo guardò come se volesse riconoscerlo. «Sì, lo so». Bevve un lungo sorso di birra. «Ma questo caso… che cosa non ti convince?»

«La tesi del suicidio che sostengono l’onorevole e tuo cugino. Improbabile».

«Ma perché? Era un ragazzo… sai come sono i ragazzi a quell’età. La morte ha un fascino particolare. Tutti a quell’età siamo stati attratti da un gesto che ci rendesse speciali. Perché lo trovi assurdo?»

Max incrociò le braccia. Sembrò perplesso: stava cercando di capire perché Elena volesse con insistenza una risposta su quel caso. Perché voleva parlarne.

«C’è qualcosa che vuoi dirmi?»

«No… ho sentito che Ciccio pensa che in questa faccenda tu sia contro di lui».

«Lascialo pensare, non è vero. Ma sarà inutile dirglielo».

«Ciccio ha interrogato l’amichetta del cuore di Carlo Spada, una certa Gioia Bruni, sua compagna di classe. Affranta dal dolore, piange come una vedova. Lei racconta che lui ha sempre sostenuto che avrebbe voluto morire alla Gabbianella…» Arricciò il naso. «Perché si chiama Gabbianella quel posto tremendo?»

«Non è tremendo, è solo un bosco a tratti un po’ roccioso, con qualche buca, che si arrampica verso la montagna. E ci passa il treno. Pare, la leggenda racconta, che un ragazzino rincorresse una gabbianella spaventata, che si era allontanata dal mare e si era perduta in quel bosco. Guardando per aria, il ragazzo non ha visto un burrone, il burrone della Gabbianella appunto, e ci è caduto dentro. Pare che sia morto così, con la gabbianella che volava sopra la sua testa cercando aiuto con il suo verso ripetuto all’infinito. Storia poetica, che mi raccontava nonna, ma assolutamente falsa. Non ci sono burroni dove morire, noi ci andavamo in bicicletta da ragazzi. Morire alla Gabbianella non è romantico, è soltanto stupido e scomodo. Soprattutto per uno che è ubriaco, drogato e addormentato».

«Però anche i suoi amici, quelli che erano con lui quella notte, dicono che lo faceva spesso di fingere di essere ubriaco per farsi portare a casa, ma che poi era vispo e normale appena lo lasciavano».

«Ha interrogato anche i suoi compagni di scuola?»

«Parrebbe di sì».

«Posso dubitare del giudizio di Aziz, ma non di quello del buttafuori del night. Mi dispiace, i compagnucci di Carlo stanno mentendo, forse su richiesta del padre o dell’avvocato».

«Anche la sua ragazza?»

«Anche la sua ragazza. Molto amata, se Carlo preferisce andare a suicidarsi invece di far l’amore con lei come ogni ragazzo sano di diciotto anni. Romantico, ma improbabile».

«Insomma, non ci credi».

«No, non ci credo. Dovrei risponderti che non ci credo per istinto. E poi ti dico un’ultima cosa: era un ragazzo pusillanime. Una morte come quella non l’avrebbe mai affrontata, neppure per scommessa. Su una macchina che costa decine di migliaia di euro e che suo padre gli aveva appena regalato. Uno sbruffoncello, ma pusillanime…»

«L’hai conosciuto?» Glielo chiese come se lo accusasse di averle mentito.

«Sì, l’ho visto una volta…» Le raccontò il loro incontro nel bar di Felice. La scena dell’aggressione ad Aziz, il pugno che gli aveva dato. «Caduto in terra, svenuto. Per la paura, non certo per il pugno; mi hanno insegnato a colpire e so che cosa gli ho dato. Uno così non va alla Gabbianella ad aspettare il treno. Uno così va a casa a dormire. Alla Gabbianella ce l’hanno portato».

«Chi?»

«Non lo so. Ma non ci è andato da solo».

Elena lo baciò su una guancia. «Il mio Maigret… non hai perso il vizio, vero? Indagare ti eccita».

«Bene, se l’interrogatorio è terminato, ora che ho detto tutta la verità possiamo occuparci d’altro?»

 

Stavano salutandosi, ed era quasi mattina. Elena si era rannicchiata contro il suo corpo e aveva appoggiato la testa sulla sua spalla.

«Vorrei mostrarti una cosa». Gli disse. Con un tono così serio che preoccupò Max.

«Qualcosa non va?»

«No, senti… Verresti con me domani a Positano?»

Gli mancò il fiato all’improvviso come se una mano gli avesse stretto la gola. «No» disse piano. Poi lo ripeté due volte alzando ogni volta il tono della voce. «No. NO».

«Perché, no?»

«Lo scorso anno, a Pasqua, siamo stati qui, e siamo andati a Positano, Amalfi, Sorrento, Ravello… tutti luoghi che lei non conosceva. Mi dispiace, Elena, scusa. Non posso. Non posso tornare in quei posti… Non so se riesci a capire».

«Non capisco, infatti. Vieni a letto con me, non mi pare che tu abbia delle difficoltà, e non puoi rivedere un posto che c’era prima di voi e che ci sarà dopo di te, per sempre… È soltanto un posto. Io valgo meno?»

«No, Elena, non è così. Tu vali molto. Quando io sono con te, esisti tu. Sto bene, con te. Ti prego, non voglio che tu si senta offesa per qualcosa che non ho mai pensato. Ma quei posti mi danno un senso di vertigine, non riesco a superarli. Scusami». Si chinò a baciarla sui capelli, si alzò, andò in bagno a rivestirsi e uscì.

Il mattino seguente, alle otto, mentre Elena stava finendo la colazione già con i bagagli pronti, suonò il citofono. Elena sorrise.

«Sali, è pronta la colazione». E vai, pensò ridendo. Di sé e di lui. Di una felicità che non le sarebbe mai toccata, ma che per quel tempo che stava vivendo era assolutamente sua.

 

I tre giorni a Positano passarono in fretta, e assolutamente tranquilli. Arrivando, Elena gli disse che l’appartamento era stato un regalo di suo padre a Natale. Che era piccolo, non ancora perfettamente efficiente né totalmente arredato. Era venuta a Positano anche per sistemare alcune pratiche rimaste in sospeso.

«Ma ci sono due camere da letto» aggiunse. «A disposizione».

«Devo considerarlo un invito o una minaccia?»

«Consideralo come vuoi. In ogni caso ti dirò di sì».

Max Gilardi passò qualche ora da solo, mentre Elena era impegnata con il messo comunale, l’idraulico, l’elettricista. E il pescivendolo per la cena.

Girò per quei vicoli a passi lenti e pigri. Gli sembrò di riconoscere le vetrine, la scala di pietra tra due case dove aveva scattato una foto; il piccolo ristorante con le tende azzurre; il negozio con i tessuti stesi sulle rocce. Il rumore del mare. La voce acuta dei venditori. La risata di una donna.

E su tutto, come un fantasma, l’ombra della donna che era stata sua moglie. I suoi gesti ampi, la sua voce, i piccoli strilli di piacere per una scoperta. La sua voce, le parole, i gesti. I gesti, le parole, la sua voce. L’ombra, ingoiata dal mare.

Un pescatore un giorno gli aveva detto: ah, signurì, o’ mare sciacqua tutto…

E allora, perdio, toglimi questa maledizione di dosso.

Quel male che aveva dentro, che era sempre lo stesso dal momento in cui l’aveva vista con i capelli raccolti nelle bende, gli occhi chiusi, le labbra rosa. Per sempre sua.

Con fatica stava vivendo la loro vita: da solo.

Quella notte, con il mare che batteva contro gli scogli, fece l’amore con Elena. Come lo aveva fatto altre volte. Fuori dalle finestre socchiuse c’era il vuoto.

 

Prima di ripartire Elena gli disse: «Vieni».

Gli prese la mano, lui ebbe l’impressione che tremasse. Scesero insieme lungo gli scogli fino al mare.

«Ecco, noi eravamo qui». Da quel punto potevano vedere uno scorcio di mare aperto e il piccolo porto. «La barca era pronta per scendere in mare. Mio padre era là, con Alessandro e Marietto, il marinaio. Qui c’ero io con mia madre. Un po’ distanti da noi Rosina, la sua ragazza, e i suoi genitori. Lei avrebbe voluto essere giù al porto, fu Alex a dirle di stare con noi. Lei era davanti a tutti e si agitava per farsi notare».

«Non ti è simpatica».

«No» e scosse la testa.

«C’è una ragione?»

«Nessuna. Non mi piace per come si è intrufolata nella nostra famiglia, come se ne facesse parte. Insomma… non mi è simpatica». Alzò il bavero della giacca a vento e tornò a fissare il mare. «Credo che al porto ci fosse anche il sindaco o qualcuno del comune. Era un evento, perché il nuovo motore che stavano sperimentando era speciale… non so niente di tecnica, ma mi pare che fosse progettato per andare veloce a basso consumo. Non so altro. Hanno fatto scivolare l’imbarcazione in mare… se ti interessa ti farò vedere le fotografie».

«Sì, grazie… se vuoi».

Elena strinse le labbra e alzò il mento. «Sì, a te sì. Lo scafo, una quindicina di metri, un prototipo, è scivolato leggero in mare fino a quegli scoglietti… vedi, lì» disse indicandoli con la mano. «Tra quel promontorio e l’isolotto. Sulla barca con Alessandro c’era soltanto Marietto, non lo lasciava mai. Fecero allontanare le due barche d’appoggio, una con i marinai e gli operai che aveva trainato lo scafo in mare, l’altra con quelli della televisione e i fotografi».

«Televisione… quindi ci sono le riprese».

«Sì, naturalmente. Non le ho mai guardate». Elena abbassò la testa.

«Va bene, ora basta».

«No, non importa. Scusa… Alessandro alzò il braccio per salutarci, poi si sedette al posto di guida. Con il motore al minimo la barca stava andando piano verso il largo, vedi, laggiù oltre gli scogli, in mare aperto. Scivolava sull’acqua, il mare era calmo e la barca lasciava una scia sottile… sembrava la scena di un film. Da qui abbiamo cominciato ad applaudire; la barca era in mare alto, la barca era perfetta. A quel punto sentimmo un’accelerata del motore, come se avesse portato le marce da una a quattro… io non ne capisco, ma l’impressione fu quella. Un’accelerata: e la barca esplose all’improvviso. Uno scoppio tremendo. Uno scoppio come non ne ho mai sentiti: e tutto saltò in aria, i due uomini, il mare, la barca e il cielo che ci stava sopra…»

Max Gilardi la raccolse tra le braccia e Elena nascose la faccia contro il suo petto. «Basta, ora, Elena… piccola, basta».

«Tutto è finito in quello scoppio. Mia madre è svenuta, era debole di cuore. Io dovetti occuparmi di lei. Rosina urlava e voleva buttarsi in mare dalle rocce. Mio padre sembrava inebetito… Una grande confusione, urla, gesti, sirene. Per due giorni e due notti cercarono di ripescare i corpi… disintegrati, spariti, forse in bocca a qualche squalo, qui a volte ne arrivano. Portarono a riva pezzi del motore, pezzi di legno e di plastica… Non trovarono niente. Frugarono in officina… non era successo niente: dissero che era stata una disgrazia provocata da un difetto dell’acceleratore». Risalirono verso il sentiero che portava alla piazzetta. Gilardi aveva le chiavi della macchina. «Andiamo?»

«Sì, andiamo». Gli prese la mano. «Vedi quella villa là in alto? Bianca, tra i pini marittimi…» Max annuì. «Era casa nostra, da bambini noi siamo cresciuti qui, tutte le estati della nostra vita. Mio padre dopo la disgrazia l’ha venduta. E a Natale mi ha regalato questa piccola casa dove siamo stati. Mi ha detto che questo posto c’era prima e ci sarà dopo di noi. I ricordi te li porti dentro…»

In auto, mentre si dirigevano verso Napoli, Elena appoggiò la testa allo schienale. «Io avevo diciotto anni. Mi ero appena iscritta all’università. Mia madre morì l’anno dopo».

«E Rosina?»

«Oh, lei, già… Si vestì di nero e non l’ha più smesso. Mio padre le regalò la casa che stavano ammobiliando. Era maggio e loro avrebbero dovuto sposarsi a luglio. Lasciò a lei la casa, dove ora vive da sola. E una volta l’anno la invita. Lei si comporta come se fosse la vedova di Alex, chiama papà mio padre, cosa che lo manda in bestia. Ci telefona per avere nostre notizie, porta fiori alla tomba di mia madre…»

«Premurosa. L’hanno interrogata a suo tempo?»

«Certo, come tutti noi. È quella che ci ha rimesso di più. Un anello di fidanzamento, un appartamento e poco altro. Tre mesi più tardi ci avrebbe portato via metà del nostro patrimonio, che era di Alex. Adesso ha trovato un lavoro come contabile… credo volesse venire nel mio studio, ma non l’ho voluta. Continua a non piacermi. I suoi genitori…»

«Che cosa fanno?»

«Ora lavorano in cantiere. Hanno cominciato a vestirsi come persone normali da quando Rosina si è fidanzata con Alex. Lui le dava i soldi perché si comprasse qualche vestito e lei vestiva tutta la famiglia. Il padre, ancora oggi, viene a farci gli auguri di Natale con le unghie nere di vernice. Continuano a ripeterci di volerci bene come parenti. Noi, no».

«Sono di Napoli?»

«No, vengono dalla Puglia».

«E tuo fratello dove l’ha incontrata questa Rosina?»

«A un ballo di studenti. Lei era venuta con un altro; ma Alex appena l’ha vista, colpo di fulmine: lui aveva ventitré anni e lei neppure diciotto».

«È bella?»

Elena sorrise. «Una bellezza tipica… cioè uno schianto di ragazza!» E finalmente riuscì a ridere.