Tredici

Ora sulla scrivania aveva davanti un assegno con alcuni zeri e uno strano biglietto colorato: Lavorazione artistica coralli, gioielli, porcellane di Capodimonte. Negozi a Roma, Milano, Londra, New York, Tokyo. Due negozi a Napoli. Fabbrica Ermenegildo Chiapponi, due indirizzi, telefoni, email, sito Internet…

Era tornato a Napoli per fare l’avvocato.

Ripiegò l’assegno e lo ripose con cura in una delle tasche del portafogli. Il biglietto lo infilò a caso tra le pagine dell’agenda che era sul tavolo, sicuramente dell’anno precedente.

Doveva cominciare, ed era solo.

Questo pensiero lo angosciava da quando era tornato a Napoli. Era stato abituato a lavorare con una squadra, a condividere pensieri e pericoli, idee e opinioni. In quella stanza troppo grande, troppo scura; in quella casa dove viveva con suo padre, incontrandosi raramente; in quella città, che non era più il posto dove era cresciuto, dove era stato ragazzo e figlio. Era solo.

 

Stava pensando la stessa cosa anche di fronte a quei due che lo guardavano sorridendo, incerti e timorosi d’averlo voluto incontrare, forse per niente.

«Se vuole…» disse lei.

«Ma come mai, che cosa è successo?»

«Ciccio Caremi sta facendo società con uno studio di Roma, con quella storia per l’onorevole s’è montato la testa… scusi, dico quello che penso… Di’ tu» aggiunse il giovanotto rivolgendosi alla ragazza che se ne stava un po’ in disparte, fingendo interesse per i quadri appesi alla parete.

«Sì, ci scusi, avvocato. Abbiamo pensato che forse lei… Elena Notarnicola ci ha detto che forse potevamo venire, ci scusi…»

«Non ho capito molto, ma mettiamoci a sedere. Siete praticanti e volete venire da me, nel mio studio? È questo?»

«Sì, naturalmente se lei ci vuole. Io ho gli esami l’anno prossimo e poi sarò avvocato. Laura invece ha appena iniziato il praticantato. L’avvocato ci ha detto di andarcene, lui trasloca in grande». Ricky Russo gli lanciò uno di quei sorrisi da scugnizzo che Max Gilardi aveva notato quando l’aveva incontrato la prima volta nello studio di Ciccio Caremi.

«Anche lei, Laura… è così che si chiama, vero? Anche lei vorrebbe venire con me?»

«Se mi vuole, sì. Sono brava con i computer… più di lui». E si coprì la bocca con la mano per nascondere la smorfia.

«Ragazzi miei, quello che vedete è il mio studio. Sto ricominciando. Sono solo e al momento ho un solo cliente». Frugò tra le pagine dell’agenda e mostrò il biglietto. «Questa. Non so che cosa vuole ottenere di preciso, ma per il momento vuole me».

Laura lo guardò sbarrando gli occhi. «E lei, avvocato: vuole noi?»

«Sì, certo. Non so come ci sistemeremo, ma sì. Io ho un brutto carattere…» aggiunse ridendo.

«La sopporteremo, avvocato. Qua la mano».

Max Gilardi strinse la mano di Ricky. «Credo che non riuscirò mai a chiamarti dottore… Può andare se tra di noi ti chiamo Ricky… mi ricordo bene?» Ricky Russo gli fece di sì con la testa. «E tu, Laura…»

«Licasi» gli suggerì Laura, avvampando.

«… posso?»

«Ma certo, ci chiami come vuole, avvocato. Ci consideri manovalanza».

«Mai. È un impegno: mai. Noi saremo una squadra, voglio le vostre idee, le vostre opinioni. Io vi dirò i miei dubbi. Lavoreremo insieme, se accettate».

Non ci volle molto tempo per organizzare meglio lo studio e i relativi compiti di ciascuno. Elena era stata preziosa in suggerimenti, anche con l’aiuto di un architetto che aspirava al prossimo ruolo di marito. Erano arrivati computer e altre ‘soperchierie tecnologiche’, come le chiamava suo padre, che fino all’ultimo aveva usato soltanto la penna. Altri spazi ricavati dalle stanze adiacenti. L’immancabile macchinetta del caffè; persino due piante, davanti alle vetrate.

Ora erano pronti a cominciare.

«Dobbiamo produrre prove per sostenere la tesi dell’omicidio, che è quella di sua madre, da sottoporre alla dottoressa Santini. È lei sul caso. Ha interrogato il ragazzo che quella notte era con Carlo Spada, l’ultimo a vederlo vivo».

«Prima di quello che l’ha ammazzato» lo corresse Ricky. «Ora noi dobbiamo cominciare a ragionare in questo senso».

«Sì… ci vuole qualcuno che ci aiuti a raccogliere prove, partendo da zero. Da un’idea».

«E lei ce l’ha questa idea?» Max Gilardi restò a fissarlo, non voleva dirgli di no. Lui non aveva nessuna idea, in quel momento. «Da dove vuole partire?»

 

Da Giacomo Cataldo. «Sì, Max, ciao: vuoi che venga da te?»

«No, troviamoci al Canneto… c’è ancora?» Voleva vederlo da solo, come facevano quando si incontravano da ragazzi.

«Sì, come una volta. Tra mezz’ora al Canneto. Chi arriva aspetta».

Il Canneto non era propriamente un bar. Verso il mercato del pesce, era un locale frequentato soprattutto da uomini. Piccoli separé, musica sostenuta di sottofondo per coprire le voci, vini da degustazione con sandwich di salame e formaggio. Al piano di sopra qualche stanza anche con i tavoli da gioco. Avevano tentato più di una volta di chiuderlo, ma il proprietario, certo Lucino Avoldi di Lecce – guai a chiamarlo Luciano – era sempre riuscito a spuntarla. Il vino era discreto.

Max Gilardi arrivò per primo, e fu contento di constatare che Lucino non lo aveva riconosciuto. Scelse uno dei separé più lontani dalla porta.

«Ordinate o aspettate?» Per Lucino era sottinteso che aspettasse una ragazza.

«Mi porti del vino bianco, fresco e frizzante».

«Avete scelto?» e accennò al menu che era sul tavolo.

«No, mi fido».

Lucino stava servendolo, quando entrò Giacomo. «Che cosa ci stai dando da bere, bastardo?»

«Il signore è con te?»

«Certo che è con me. Porta via quell’acquetta rosata e dacci qualcosa che mi faccia dimenticare di sbatterti in galera». Rise, guardandosi in giro per cercare consensi.

C’era poca gente, non era ancora l’orario della bevuta al Canneto: di solito si cominciava dopo le otto e si tirava mattina.

Giacomo si sedette, assaggiò il vino, fece schioccare la lingua e disse di sì con la testa. «Bravo, questo va bene. E ora sparisci».

Max Gilardi gli raccontò della visita di Franca Spada.

«Accidenti, una bella grana. La madre che cosa crede?»

«Quello che credo anch’io: che non si sia suicidato».

«Ehi, calma… che prove hai?»

«Nessuna. Siamo qui per questo. Stavolta è lavoro vero, però, fatture e tutto il resto».

«Va bene, non pensarci».

«No invece, ascolta: questo è lavoro, ho un incarico, l’ho già trasmesso. E tu mi devi dare una mano».

«Come se piovesse… hai sentito dell’autopsia? Collo spezzato dall’urto con il treno. Sfondamento del ventre… Omicidio? Per ridurlo così dovevano essere in dieci. Ce li hai dieci sospettati?»

«No, naturalmente».

«Ti ricordi quello che ti ho raccontato, di quel Costantini… te lo ricordi?»

«Sì, e c’entra?»

«Mah, proviamoci… la rabbia covata per due anni. Il ragazzo era ubriaco, drogato…»

«Risulta?» lo interruppe.

«Sì, risulta. Ma questi dati non sono a disposizione, e ricordati che non te li sto dando io».

«Sì, lo so. Ma intanto parliamone. Quindi risulta che era ubriaco e drogato».

«Droghe leggere, scrive il dottor Cornelio Funari, l’anatomopatologo, te lo ricordi?» Max scosse appena la testa. «Bene, non importa. Sembra quello del film… come si chiama? Dottor House… sì, quello che piace alle donne. Poche parole, molti fatti».

«Bene, andremo da lui».

«L’auto?» chiese Giacomo Cataldo. «Lì ci penso io. Tu che idea ti sei fatto?»

«A mani vuote? Nessuna. Sua madre è sicura che non si sia ammazzato, e lo penso anch’io. Ma tutto può essere». Minuziosamente, aiutandosi con un foglio del menu e una penna, gli elencò gli elementi di quell’auto che voleva scandagliare. «E anche le impronte delle ruote per terra…»

«Ti sei ammattito? È passato un sacco di tempo».

«Non ha piovuto. Ho visto il vialetto del giardino dove l’auto si è fermata, bagnano le piante ogni sera, era bagnato e melmoso. Voglio sapere come ci è arrivato da solo alla Gabbianella, drogato e ubriaco… era una macchina inglese, ha gomme speciali, mi sono informato».

«E che cosa vuoi vedere?»

«Dalle impronte sulla strada in quelle condizioni come guidava… Non per l’intero percorso, ma almeno a tratti ce la puoi fare».

«Sei sicuro?»

«Certo che sono sicuro, altrimenti perché siamo qui?»

«Alla salute, avvocato. Complimenti».

«Aspetta, porta jella».

Giacomo depose il bicchiere sul piano del tavolo, sembrava impacciato, atteggiamento che in un uomo come lui faceva sorridere.

«Che cosa c’è?» gli chiese Gilardi.

«So che non sta bene, ma siamo amici fin da ragazzi, te lo ricordi, vero?»

«E chi se le dimentica le merende di tua sorella, a casa vostra. Che cosa c’è? Hai bisogno di soldi?»

Giacomo alzò il capo come se fosse stato punto da una vespa. «Ma che cosa vai a pensare? Non esiste proprio. Volevo chiederti… perché sei tornato?»

«Sono napoletano».

«Lo eri anche quando te ne sei andato. Perché hai fatto la carriera in polizia? Eri avvocato. E tuo padre, tuo nonno… che alzata di testa è stata?»

«Lo so, ora sembra strano anche a me. Ma in quello studio io sarei sempre stato il figlio e il nipote, il ragazzo che non cresce mai. Ho voluto fare da solo e la polizia mi piaceva. Ho girato alcuni posti interessanti… ogni volta un’esperienza diversa che mi faceva crescere. Tanta gente, alcuni sono stati importanti. E poi finalmente a Milano».

«Ecco, appunto: anche da lì, perché te ne sei venuto via? Ti prudeva il sedere?»

«Un ragazzo che mia moglie stava proteggendo, e che aveva salvato dalla galera ottenendo per lui il ricovero in un istituto di recupero, me l’ha ammazzata davanti agli occhi. Io ero lì e non ho potuto fare niente. L’ho guardata morire, ed ero lì…»

«Scusa, mi dispiace. Qui se n’era parlato, non sapevo come fossero andate le cose. Ma perché rinunciare al tuo lavoro? Lo facevi bene. Quella storia dei quadri falsi ha fatto il giro del mondo. Ti piaceva. Eri bravo… forse avresti dovuto continuare anche per lei».

«No, Giacomo, non puoi vivere la vita di un altro. Neppure della persona che ami».

«Scusa, ma dovevo chiedertelo. Eri innamorato di tua moglie?»

«Mi era indispensabile. Con lei avevo tutto. Ci confrontavamo, come se lei fosse il mio specchio. Con parole diverse ci dicevamo le stesse cose. Non so se sia amore, non lo conosco. Siamo stati sposati tre mesi, aspettavamo un bambino, che è morto con lei. La mia vita si è chiusa lì. Io non so che cosa mi aspetta, che uomo sarò, che avvocato sarò».

«E le donne, ora?»

«Sono un uomo sano, se è questo che ti preoccupa» e attraverso il tavolo gli strinse la mano. «Ci sono sentimenti ingestibili e altri che puoi tenere sotto controllo. Io non lo so. Ho un vuoto dentro che non somiglia a niente che conosca. Vorrei che fosse paura, saprei come vincerla. Il vuoto è impalpabile, e io sono quel vuoto».

Giacomo fece l’atto di alzarsi, era visibilmente emozionato e gli seccava farlo capire. «Vorrei che tu fossi felice, ora che sei tornato».

«Anch’io, Giacomo. Anch’io. Ma non è indispensabile essere felici. Ci sono molte cose che io desidero dalla mia vita e che spero di avere». Gli sorrise, per rassicurarlo. «Anche la tua amicizia, mi sta bene».

«Contaci, accidenti. Dovrai contarci sempre». E si batté con il pugno destro il grosso torace, dalla parte del cuore. «Sempre, hai capito? Tu dovrai sempre fidarti di me».

«Lo giuro» e cercò di ridere, ma era emozionato. «Siediti un momento, voglio chiederti ancora una cosa… Questo Spada, chi è?»

«Uno imbracato con la politica. Prende voti in cambio di concessioni che ottiene da Roma».

«Non tanto, mi sembra: alle elezioni è stato trombato».

«Perché non gliene frega niente del Comune, lui vuole appalti. Non ti sei guardato in giro, Max? Qui crescono case e stabilimenti dalla sera alla mattina: hanno ridotto le colline attorno, le spiagge, i campi, in tanti dormitori. Lui è quello che ottiene tutti i permessi: dà e allunga la mano per prendere, questo è lo schifosissimo Spada. Molto protetto, perché è uno scudo sicuro. Ti stai mettendo contro una montagna, Max».

«Devo avere paura?»

Giacomo scosse la testa. «Non sarà così scemo, ma certo non ti farà vincere».

Max si alzò, con un sorriso stanco sulle labbra. «Vedremo» disse, «vedremo».