Quattro
C’era il giornale aperto sul tavolino del bar dove era sceso a prendere un caffè. Non lo aveva attirato il titolo in neretto a caratteri cubitali, quanto la fotografia di un ragazzo biondo, i capelli a cresta, un orecchino, il sorriso spavaldo. Probabilmente una fototessera.
Suicida il figlio dell’onorevole Cosimo Spada.
Quanti giorni erano passati da quell’incontro da Felice? Quattro… no, una settimana.
Evitò di leggere l’articolo, riconobbe il ragazzo al quale aveva dato un pugno, sfiorandogli appena il mento. E si ricordò le parole del ragazzo di colore: ‘state attento, specie al biondino, è lui che comanda’…
Evitò di pensare le solite cose dei ‘ragazzi d’oggi’. Tutti erano stati, a loro tempo, ‘ragazzi d’oggi’. Quando la si guarda da giovani, la vita appare troppo lunga, a volte spaventa.
Ripiegò il giornale e lo lasciò sul tavolino del bar. Uscì come se non avesse una meta precisa, e quasi senza rendersene conto si ritrovò nel cortile di Palazzo Cerausi. All’interno, di fronte, tre gradini. La porta a vetri smerigliati in una cornice di legno scuro: quello era lo studio di Ciccio Caremi. In negativo sul vetro c’era anche scritto: Francesco Caremi, avvocato. Accanto alla maniglia un’etichetta di ceramica bianca invitava i visitatori: Avanti.
Aprì la porta e all’interno suonò un campanellino. Gilardi si fermò.
La signora che era seduta alla scrivania in anticamera sollevò dapprima la testa, abbassando gli occhiali sul naso, poi si alzò di colpo con un sorriso. «Avvocato, entri… entri, la prego. Buongiorno, avvocato».
Gilardi le strinse la mano e seppe che la signora aveva lavorato per pochi mesi anche per suo padre. «In segreteria, prima che si ritirasse. Grande persona, l’avvocato suo padre».
«Sì, grazie».
Intanto in anticamera erano arrivati due giovanotti e tre ragazze. Praticanti, pensò Gilardi. In prova. Dal fondo dell’unico corridoio sentì la voce di Ciccio Caremi che gli stava venendo incontro.
«Sei qui, finalmente… Ragazzi, qui non si scherza, vi presento Max Gilardi, commissario e avvocato. Il migliore della nostra classe. Ve l’ho detto, sapevo che sarebbe arrivato… Eccolo qui, finalmente. Ti sei deciso, ti sei!»
Gilardi si lasciò abbracciare, strinse le mani di quelli che si erano radunati intorno a lui, non capì i loro nomi. Percepì soltanto una Laura, che gli ricordò con un morso allo stomaco la segretaria del commissariato di Trissera, e un Ricky, un bel giovanotto bruno con gli occhi chiari che sorrideva in modo simpatico, da scugnizzo.
«Vieni, vieni nel mio studio, ti faccio vedere. E voi, al lavoro, avanti. La festa è finita, al lavoro. Ricky, non dormire. Tra un’ora abbiamo l’udienza, sveglia…»
Si incamminarono per il corridoio. Una stanza a destra con la porta aperta e un uomo anziano alla scrivania; un’altra porta aperta e una scrivania vuota; una porta chiusa, probabilmente un bagno; un’altra porta chiusa.
Ciccio Caremi la spalancò di colpo. Alla scrivania la donna giovane e un po’ spettinata che l’occupava alzò appena la testa. Guardò i due uomini e arrossì impacciata, come se fosse stata sorpresa.
«Mi dispiace, Ciccio. Non lo sapevo, scusate…» Mentre parlava, si era alzata raccogliendo dalla scrivania alcuni fogli e una calcolatrice. Una penna di traverso tra le labbra.
«Ah, sei qui… Elena, ti presento Max Gilardi, il mio amico… Lei è Elena, la cugina di mia moglie… Famiglia Notarnicola, quelli delle navi, ti ricordi?»
Max le sorrise. «Perché trasloca?»
«Questa è la sua scrivania, avvocato. Io, se non la disturbo, sto lì…» E accennò con la testa a uno scrittoio nell’angolo opposto, davanti alla libreria.
«No, ma resti, la prego…»
Ciccio Caremi aveva premura. «Vieni, Max. Ti faccio vedere il mio studio». L’ultima porta in fondo al corridoio, di fronte; come era stato il suo studio, in fondo al corridoio del commissariato di Trissera. Il suo studio, per sei anni.
Lo studio di Ciccio Caremi era molto grande, arredato in modo gradevole con mobili moderni: contro ogni previsione. Una vetrata lo divideva da un piccolo giardino.
«Ti piace?»
«Bellissimo, complimenti. Non me l’aspettavo…»
«L’ha arredato Marghe, ha buon gusto. Ma lo studio me l’ha regalato mio padre. Ti ricordi che aveva lo studio in questo palazzo, al piano nobile? Ci venivamo a studiare, te lo ricordi?»
«Sì, Ciccio, me lo ricordo». Si sedette, tanto per provare la poltroncina bianca che sembrava una conchiglia. «Me lo ricordo, sì».
«Quando vuoi venire, lo studio che ti ho mostrato è vuoto. Lì c’è la collezione di tutte le sentenze e dei processi, anche del tempo di mio padre. Puoi fare quello che vuoi, hai capito? Quello che vuoi».
«Grazie. Non credo che verrò spesso, ma forse un’occhiata alla libreria, tanto per informarmi… quello sì, ti ringrazio».
«Bene, sei a casa tua. Ora devo scappare. Ho un’udienza».
«Chi è Cosimo Spada?» gli domandò, trattenendolo.
«Onorevole… pezzo grosso. Hai saputo del figlio? Si è suicidato due notti fa in una situazione poco chiara. La notizia è su tutti i giornali. Brutta storia… per quello che c’è sicuramente dietro. Spada è stato trombato alle elezioni regionali, malvisto, con puzza… insomma, mi capisci. Perché ti interessa?»
«Curiosità, scusa. Avevi fretta». Gli diede una pacca sulla spalla e si fermò davanti alla porta dello studio che Ciccio Caremi gli aveva assegnato. Gli fece un cenno di saluto con la mano ed entrò. Elena Notarnicola si era spostata nella scrivania d’angolo.
«Mi dispiace, non mi avevano detto che sarebbe arrivato stamattina».
«Avvocato?»
Elena sorrise. Scuotendo la testa mosse il caschetto di riccioli scuri che le ricadeva anche sulla fronte. «Scienze economiche. Ho un’agenzia che cura l’amministrazione di aziende e di studi professionali come questo. Ogni tanto mi mandano i conti… il loro contabile è vecchio e non è aggiornato. Allora vengo qua a rivedere alcune cose prima di preparare il loro fascicolo. Per le tasse…» Si interruppe e sorrise. «Non sa di che cosa parlo, vero?»
«No, temo proprio di no».
«Bene, mi scusi. La lascio lavorare». Inclinò il capo su una spalla e corrugò la fronte. «Perché mi guarda come se fossi una marziana?»
Gilardi si mise a sedere dietro la scrivania che Elena gli aveva lasciata completamente vuota. «Mi chiedevo che cosa spinge una ragazza graziosa come lei a interessarsi di numeri».
«Bene, lavori avvocato. Lo prenderò per un complimento».
Elena continuò il suo lavoro, alternando il computer e la calcolatrice, sfogliando grossi quaderni neri, sempre tenendo la penna tra le labbra. Max Gilardi si interessò di alcuni fascicoli della libreria.
A un tratto Elena guardò l’orologio. «Accidenti, qui sono andati via tutti. Avvocato, mi scusi: chiudono, è ora di pranzo, dobbiamo andare…» Elena raccolse da terra la borsa e dall’attaccapanni una giacca di tweed con il colletto di velluto scuro.
Davanti all’ingresso trovarono la segretaria con le chiavi in mano che li stava aspettando. «Lei è Giusi, avvocato: l’ha conosciuta?»
«Sì, la signora ha lavorato anche con mio padre».
«La migliore». E Giusi le regalò un sorriso che voleva sembrare modesto.
Per strada Gilardi cercò di orientarsi. «Dove si va a mangiare qui attorno?»
«Oh, c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. I ragazzi vanno da Pasquino, pizza e focaccia… no, vero?» Scosse il capo all’espressione poco convinta di Max Gilardi, e sorrise. «Altrimenti c’è una specie di tavola pronta… no, scusi». E questa volta rise davvero. «Oppure, qui dietro c’è Episcopo, una trattoria. Il padrone è amico di Ciccio. Non è difficile da trovare…»
«Sicuramente sì. Perché non viene con me?»
«Sì, sarà meglio. A quest’ora sarà tutto pieno, ma Mimmo un posto me lo trova. Venga».
Mimmo Episcopo, un uomo grosso e tondeggiante, li sistemò in un tavolo un po’ nascosto, di fianco al bancone, dalla parte della pasticceria. Strinse la mano a Elena e mentre l’allungava verso Max restò a osservarlo, come se lo riconoscesse. «Ma voi non siete il figlio dell’avvocato Gilardi?»
«Sì, mio padre è avvocato».
«Ma guarda le combinazioni della vita! Mio fratello Giocondo vive con lui. Sapete di chi parlo?»
«Come no?»
«Mio fratello Giocondo…» Era improvvisamente diventato allegro e si guardava attorno come se potesse dare la notizia a tutti. Dovette rassegnarsi a considerare l’ordinazione. «Allora, che cosa vi porto?»
Elena si lasciò convincere da un’insalata di pesce, Max Gilardi ordinò una pasta con le alici e del polpo in umido.
«Come non l’avete mangiato mai, avvocato. Mai… parola di Mimmo Episcopo».
Max Gilardi versò vino e acqua nei bicchieri. «Bene, ora che abbiamo sistemato la dinastia degli Episcopo, mi dice perché ha studiato scienze economiche?»
«È stato mio padre. Mio fratello era ingegnere…»
«Era?»
«Sì. In mare. Stava collaudando l’ultimo modello delle nostre barche. Brutto punto, un’onda anomala, uno scoglio, forse un difetto del natante… non l’hanno mai ripescato. Questa è stata la versione ufficiale che mio padre ha voluto accettare».
«Credo di non aver capito: che cosa era successo, invece?»
«Non lo sa nessuno. Hanno parlato di suicidio… Mio fratello non aveva ragioni per suicidarsi. Nessuna ragione che noi conoscessimo. Poi hanno parlato di sabotaggio, omicidio. Una ridda di voci. Inchieste, processi. Non ha letto niente? Quattro anni fa… no, ormai cinque. Ne hanno parlato i giornali, la televisione. Mio padre a un certo punto ha accettato l’ipotesi della disgrazia, e hanno chiuso il caso».
«Mi dispiace. Il caso si può sempre riaprire se ci sono motivi sufficienti di dubbio».
«No, non ci sono prove né ragionevoli dubbi. Soltanto ipotesi. Mio padre ne ha troppo sofferto. Per noi è stata una tragedia, comunque sia andata. Lo so, avvocato. So che cosa pensa; ma io voglio salvare mio padre. Mio fratello era più grande di me di sette anni. Alla disgrazia mio padre volle che mi occupassi dell’azienda. Non aveva bisogno di una storica dell’arte… aveva bisogno di qualcuno di famiglia per la parte commerciale. Io ho scelto l’amministrazione. Per non stare in cantiere ho aperto lo studio con alcuni specialisti del settore amministrativo».
«Storica dell’arte: era questo che avrebbe voluto fare?»
Quando guardarono l’ora erano quasi le quattro. «Non vuole un dolce? Questo banco non l’attira?»
«No, grazie. Ho fatto tardi, mi dispiace… E grazie per la chiacchierata». In strada Gilardi le tese la mano. «Non sale? Non torna in studio?» gli chiese.
«No, lo dica lei a Ciccio, per favore. Magari un altro giorno».
Elena sembrò perplessa. «Senta, se posso…».
«Che cosa?»
«Lei è stato gentile, oggi. La ringrazio. Senta… per questa sera io ho due biglietti per il concerto di Pino Daniele… non è che le farebbe piacere andare a sentirlo? Lo conosce?»
«Poco. E lei è sola?»
«Sì». Rispose senza esitazioni.
«Bene, l’accompagnerò volentieri. Dove e a che ora?»
«Io abito alla corte del Vomero… Solo se lo vuole davvero, però, se non ha altri programmi».
«Non ho altri programmi».
In fretta gli allungò un biglietto da visita che si era preparata in tasca. «Alle sette, è troppo presto?»
«Alle sette va bene».
Alle sette precise, vestito come piaceva a Natj – giacca di camoscio, pullover sulla camicia con il colletto slacciato – Max Gilardi si trovò davanti alla porta di Elena Notarnicola. Non c’era il suo nome sulla targhetta, ma un numero: 123.
Suonò il campanello sfiorandolo appena.
Conosceva quel quartiere di Napoli, ci veniva a giocare da ragazzo con i compagni che abitavano al Vomero. Non era ancora così elegante come lo era diventato negli ultimi vent’anni, con case nuove, di lusso, parcheggi fuori dalla zona, giardini e terrazze. Ma era sempre stato un quartiere speciale, con le strade in salita, in lontananza la vista del vulcano e del mare.
Sentì la voce di Elena che gli diceva: «Terzo piano».
E aprì la porta. Gli sorrise. «È venuto… entri, avvocato. Buonasera…» Sembrava stupita di vederlo.
Max Gilardi la sfiorò appena con gli occhi e con un sorriso. Si avviò verso la portafinestra. «Io conosco bene questo quartiere, ci venivo a giocare da ragazzo» disse, tanto per rompere il ghiaccio.
«Sì, me lo dice anche Ciccio. Ma è molto cambiato».
«Avrà una bella vista».
«Sì, apra pure. Apra. Vada sul terrazzo. Ma questa sera c’è un po’ di nebbia sul mare».
«Sì, infatti». Si scorgeva in lontananza la nebbia che si infittiva oltre le case. Là, dove con ogni probabilità c’era il mare. Max Gilardi richiuse la finestra e guardò l’orologio. «Siamo in orario?»
«Certo. Si sieda dove vuole… Il concerto è alle nove».
«Perché allora così presto?»
«Ho preparato uno spuntino, se le va. Per non andare a digiuno».
«Buona idea». Max Gilardi si sedette su una delle poltrone e accavallò le gambe. Elena arrivò dalla cucina con una bottiglia e due bicchieri. «Vino bianco, le va? È fresco».
«Lasci, faccio io». Alzarono il bicchiere e si sorrisero.
«Vado a prendere quello che ho preparato. Non si aspetti niente di fantastico, avvocato: in cucina sono una frana».
Max Gilardi lasciò che andasse in cucina e la vide ritornare di lì a poco spingendo un carrello. Piatti, posate, insalata russa, prosciutto, qualche formaggio, pane integrale, piccole brioche ripiene.
«Solo uno spuntino, gliel’ho detto».
Max Gilardi prese il piatto che lei gli porgeva e lo appoggiò sul tavolino. «Senta, Elena: mi faccia capire».
«Che cosa?» Lo guardò e a lui sembrò spaventata.
«Lei… quanti anni ha, posso chiederglielo?»
«Sì, ventiquattro: perché?»
«E una ragazza carina e giovane come lei, intelligente, colta, con una famiglia importante alle spalle, un lavoro soddisfacente, una bella casa…»
«Tutta qui, non creda…»
«Bene, come fa una ragazza come lei a essere sola in una sera come questa? Con Pino Daniele, che forse è il suo cantante del cuore… Due biglietti. Perché ha bisogno che un vecchio avvocato, appena conosciuto, la conduca al concerto? Con chi doveva andarci, che poi non è successo?» Elena si pulì la bocca nel tovagliolo e appoggiò le spalle allo schienale della poltrona. «Complimenti, avvocato. Ha fatto centro. Sono stata fidanzata quasi tre anni, abbiamo terminato l’università insieme. Poi, un mese fa, mi ha detto che ci aveva ripensato, che non ero io la sua donna del cuore, ma un’altra che aveva appena conosciuto. Ecco, sono sola. E Pino Daniele era il suo cantante preferito, io lo conosco poco. I due biglietti erano suoi, se li è dimenticati. Avremmo dovuto andarci insieme, ma io preferisco Piazzolla o il vecchio jazz americano». Si alzò e manovrò l’apparecchio. Count Basie a tutto volume. «Ecco, le piace questo? Ho pensato che invece a lei forse poteva piacere Daniele…»
«Grazie, ma anch’io preferisco il vecchio jazz americano».
Elena sbuffò, come se si fosse liberata di un peso. «Meno male, è andata». Addentò una piccola brioche ripiena di salmone e scoppiò a ridere. «E ora, che cosa facciamo?»
«Chiacchieriamo, vuole?»
«Ancora vino, avvocato?»
«Grazie. Riuscirebbe a evitare quell’‘avvocato’? Mi chiamo Max. Non deve essere troppo difficile, anche se non ho la sua età».
«No, non è difficile. E non sia permaloso, non dimostra gli anni che ha».
«Grazie tante: sarebbe un complimento?»
Musica di sottofondo, molte chiacchiere. Si raccontarono a vicenda brani della loro vita, episodi, incontri. Max Gilardi non le parlò mai di Natj; Elena evitò qualsiasi domanda. Verso le undici decisero di uscire e di andare a mangiare un gelato.
«Quello buono, ti prego, al corso». Risero insieme senza imbarazzo: erano arrivati a darsi del tu senza rendersene conto.
Quando Max Gilardi la riaccompagnò a casa era passata da un pezzo la mezzanotte.
«Gran bella serata, me la ricorderò». Elena sembrava allegra.
«Sono stato bene anch’io». Le sfiorò la mano con le labbra e le sorrise. Allontanandosi la salutò nuovamente, alzando il braccio senza voltarsi.