Dodici

Una mattina di pochi giorni dopo, Liciuzza venne a svegliarlo. Era affannata.

«Signor avvocato, ci sta una signora dabbasso, in studio».

«Che ore sono?»

«Le nove, signor avvocato».

«E questa chi è?»

«Me l’ha detto ma non me ne ricordo… mi dispiace, signor avvocato».

«Va bene, portale un caffè e dille che scendo subito. Non le dire che ero a letto».

«Eh, no, signor avvocato. Impigliato col telefono…»

Pensò che fosse Elena, ma nella fretta dimenticò di chiedersi per quale ragione fosse venuta senza telefonargli.

La barba se l’era fatta la sera prima perché era uscito con alcuni amici. Gli bastò una doccia veloce, un paio di jeans e una maglia. In meno di quindici minuti era pronto.

Quando aprì la porta dello studio si trovò davanti a un monumento: questo pensò. Una donna alta e ingombrante, rossa di capelli, ritta in piedi davanti a una delle vetrate verso il giardino, con una mantella che le arrivava alle caviglie.

«Sono Massimo Gilardi. Signora…»

La donna si voltò. Un viso duro, truccato con moderazione, il sorriso a labbra serrate, gli occhi mobilissimi.

«Franca Spada» disse, porgendogli la mano. Anche la sua voce era dura e la stretta di mano energica.

«Si accomodi, prego. Dove vuole». Nel salotto con le poltroncine di cuoio o davanti alla scrivania.

La donna lasciò cadere la mantella su una delle poltrone e si sedette davanti alla scrivania. Intanto era arrivata Liciuzza con i due caffè.

«Desiderate altro, signor avvocato?»

«No, grazie. E chiudi la porta».

Entrambi seduti dalla stessa parte della scrivania, rimasero un attimo a guardarsi, forse decidendo chi avrebbe dovuto parlare per primo.

Cominciò lei. Depose sul vassoio la tazzina vuota e si pulì le labbra con il tovagliolino ricamato lasciandovi in un angolo uno sbaffo di rossetto. «Immagino che lei sappia chi sono». Non attese risposta. «Lei non crede che mio figlio si sia ammazzato, vero?»

«Un’opinione come un’altra, non conosco i fatti».

«Neppure io. Ma io ho le prove».

«Quali?» La cosa si faceva interessante.

«Sono sua madre. Conosco mio figlio. Non diciamo fesserie. Non si sarebbe ammazzato mai, perché avrebbe dovuto? Aveva tutto quello che voleva…»

«A volte a diciotto anni non basta».

«Oh, avvocato. A Carlo bastava. Mio marito lo viziava, anche più di me. Aveva tutto quello che desiderava. La macchina nuova, stavamo comperando un cavallo, alla fine degli esami sarebbe andato in Inghilterra, tutto organizzato… A scuola non andava bene, ma l’avrebbero promosso. Mio marito era d’accordo che avrebbe cambiato la barca per avere il famoso siluro che piaceva a lui». E con le mani gli fece capire che si trattava di un motoscafo stretto e lungo. «Ma perché avrebbe dovuto ammazzarsi, me lo dice lei?»

«Sinceramente è una domanda alla quale non saprei dare una risposta. Non sempre il suicidio ha una ragione».

«Ma una totale mancanza di ragioni è plausibile, secondo lei?» Max Gilardi restò a fissarla immobile. Stava chiedendosi se una madre come lei fosse una ragione sufficiente. «Poi non ne aveva il carattere…»

Accidenti, pensò. «Il carattere?» disse, fingendo di non capire.

«Carlo era un bravo ragazzo, sa… un po’ leggero. Lo abbiamo viziato. Lo sentivo arrivare a casa alle tre, alle quattro di notte. Billy, il nostro domestico, andava a prenderlo sulla porta e lo sbatteva sul letto. Al mattino era stordito, io lo sgridavo e lui rideva. Era un ragazzo felice. Come quella notte: ho sentito il citofono suonare, anche se è dall’altra parte della casa. Mi sono svegliata, ho guardato l’ora… sì, il ragazzo, Aziz, ha detto la verità, erano circa le due. Mi sono tranquillizzata e mi sono rimessa a dormire. Alle sei del mattino Billy è venuto a svegliarci: Carlo non era rientrato e c’era la polizia». Aveva parlato senza la minima esitazione nella voce. Fece soltanto una breve pausa. «Non aveva carattere, questo lo devo ammettere. Mi costa dirlo, avvocato, ma non avrebbe mai avuto il coraggio di ammazzarsi. In quel modo, poi. Questa è la prova che ho io: non ce l’avrebbe mai fatta, oltre a non avere una sola ragione al mondo».

«Una ragazza?»

«Per carità, avvocato». Frugò nella borsa che aveva appoggiato in terra, prese una busta e tirò fuori una foto con gesti sgraziati. «Questo è Carlo» disse, mostrandogliela. «Le sembra uno che debba disperarsi per avere una ragazza? Lui che aveva soldi, macchina, una casa al mare… Era un bel ragazzo, lo guardi. Biondo, atletico…»

«Lo so, l’ho incontrato». E anche a lei raccontò del loro incontro al bar di Felice. Le raccontò anche del pugno e di come l’aveva visto crollare a terra, spaventato.

«Ha visto? Capisce ora? Non aveva fegato quel ragazzo. Non somigliava certo a me, non si discute».

«Tuttavia potrebbe essersi innamorato di una… quella Gioia…»

Franca Spada non lo lasciò finire. «Quella scemetta? Aveva sentito odore di soldi, lei è figlia di uno che fa l’imbianchino. Le piaceva la macchina, Carlo che andava a prenderla a casa, la portava a ballare, le faceva regali. Era la più bella della scuola e stava con lui… Questo ci ha raccontato. Ma lui ultimamente la evitava».

Max Gilardi corrugò la fronte. «Le ha detto perché?»

«No, non ci ha detto perché, ma quando telefonava lui mi faceva segno di dirle che era uscito o che stava studiando. Teneva il cellulare spento. Cose da ragazzi. Comunque non è certo per lei che avrebbe dovuto suicidarsi. Io non ci credo, ecco». Lo guardò dritto negli occhi. «E lei, avvocato?»

«Sicuramente con meno ragioni di quante ne abbia lei, ma anch’io ho qualche dubbio. Non mi convince la dinamica di questo suicidio. Tuttavia suo marito…»

«Lasci stare mio marito. Lui e il suo avvocato stanno fabbricando accuse contro tutti. Tutti colpevoli del suicidio di suo figlio. Ridicolo! Ma di questa politica io mi lavo le mani. Io voglio sapere chi l’ha ucciso. C’è un processo in corso?»

«No, ci sono soltanto delle indagini e un esposto alla Procura».

«Per scoprire che cosa?»

«Di fronte a un esposto, la magistratura ordina indagini per scoprire se ci sono colpevoli».

«E il dubbio qual è? Se mio figlio si è suicidato? Bene, togliamogli il dubbio e andiamo avanti».

«Vorranno conoscere se ci sono eventuali colpevoli».

«Bene, avvocato, trovateli. Voglio sapere chi sono questi bastardi, guardarli negli occhi». Per un attimo Gilardi si accorse che era emozionata. Le tremava la voce.

«Io devo cercare e produrre prove da presentare alla Procura che dimostrino che il ragazzo non si è suicidato ma è stato ucciso…»

«Io voglio sapere chi ha ucciso mio figlio» lo interruppe risoluta.

«… e che autorizzino l’apertura di un processo».

«Mi scusi, non mi interessa quello che dovrà fare. La mia domanda è: accetta?»

«Perché io? Lei non mi conosce».

Franca Spada si appoggiò con tutto il peso del corpo alla spalliera della sedia. «Avvocato… e chi non la conosce? Lei è arrivato qua e già le voci correvano. Ha fatto il commissario, no? Ha risolto casi di cui si è parlato, anche qui. Mica siamo in Africa, avvocato. Lei, la sua famiglia… vi conoscono tutti, dia retta. Ho scelto lei perché ho fiducia in lei. Accetta?»

«Naturalmente dovrò…»

«Sì, avvocato. Farà quello che deve fare. Noi siamo a disposizione. Io, soprattutto, se ne ricordi». Si alzò e si rimise a sedere. Un’altra volta cercò la borsa, frugò, si infilò gli occhiali, e appoggiandosi al bordo della scrivania compilò un assegno e lo fece scivolare verso Max Gilardi. «Questo come anticipo. Non vedo segretarie e quindi vado diretta. Lei chieda sempre di me». Gli mise davanti un biglietto da visita piuttosto vistoso. «Mi chiami in fabbrica, lì mi trova sempre».

«In fabbrica?»

«Sì, l’industria di mio padre. Gioielli, coralli, porcellane. Negozi in tutto il mondo. I capitali di casa Spada si chiamano Chiapponi. Gli affari si chiamano Spada. Divisi fin dal matrimonio. Chiapponi sono io. Lei chieda di me, avvocato. E grazie per aver accettato di occuparsi del mio Carlo».

Franca Spada si rimise la mantella sulle spalle, sollevò la borsa da terra e con un gesto un po’ teatrale si avviò alla porta.

«Grazie, signora. Le telefonerò appena…»

«Sì, avvocato Gilardi. Mi chiami, mi raccomando. Buona giornata».

«Anche a lei».